Credo che non ci sia mai stata una cornice più degna del vecchio stadio di Wembley per ospitare una finale calcistica.
Se poi la finale in questione è quella di F.A. Cup allora siamo di fronte alla sublimazione, alla chiusura del cerchio, all' elevazione di tutto e tutti.
E che bella Londra in certi giorni di primavera, le sue strade, la sua gente così variegata, i suoi palazzi, non sembra davvero la città plumbea e piovosa descritta tante volte magistralmente nelle mirabili pagine di Charles Dickens e Arthur Conan Doyle.
Ma torniamo a noi, le divagazioni letterarie non devono distrarmi.
20 maggio 1989: Liverpool vs Everton, Final Tie.
Esattamente cinque settimane dopo la tragedia di Hillsborough, un graffio dentro la memoria di ogni appassionato di football. Eppure era un giorno bellissimo. L'erba di Wembley sembrava brillare di luce propria, una schacchiera di verde dove risaltavano uomini vestiti di rosso e di blu. E poi le reti, quelle reti...i pennoni sulle torri con la union jack che garriva fieramente, accarezzata da una brezza leggera. Un incanto, un intera città ferità che orgogliosamente celebrava il suo giorno di gloria. Ma soprattutto era il giorno (e lo fu) del tributo, della memoria condivisa, il ricordo ancora maledettamente troppo fresco di quelle 96 vittime della semifinale di Sheffield.
Quando venne intonato "Abide with me" non sembrava nemmeno più uno stadio di calcio, sembrava che l'intero Wembley fosse stato sollevato e trasportato qualche miglia più a sud vicino al placido Tamigi sotto le possenti arcate di Westminster.
Si Dio resterà con voi, e avrà cura di voi.
Devozione, poi applausi, veri convinti scroscianti, e Gerry Marsden guida subito dopo uno struggente "You ll' never walk alone" cantato a squarciagola dai tifosi dei reds e osservato in un quasi liturgico rispetto dai cugini dell'altra squadra della Mersey.
Tutta l'Inghilterra e non solo si commuove. Viene voglia di piangere senza vergogna, senza pudore. Entrambe le squadre portano il lutto al braccio, una fascia nera su maglie indimenticabili per chi come me ha amato pazzamente gli anni ottanta.
Si parte fischio d'inizio, c'è Joe Worrall a dirigere il match. Nessuno si è ancora ripreso dall'emozione che John Albridge ha già portato in vantaggio il Liverpool ( espiazione forse dell' errore commesso l'anno precedente quando aveva sbagliato un rigore regalando di fatto la coppa a quei matti del Wimbledon ). 1-0, dunque, quante volte le finali sono terminate 1-0, sembra un punteggio fatto apposta per una finale!.
Ma invece no, almeno questa volta. Al 59' del secondo tempo Colin Harvey tira fuori il coniglio dal cilindro anzi lo scozzese dal cilindro. Fuori Paul Bracewell e dentro Stuart McCall, che pareggia a un minuto dalla fine toccando la sfera quanto basta in una selva di uomini in area rossa, 1-1. Gli attimi che seguiranno sono indescrivibili gioia pura dei tifosi dei toffes e irrefrenabile invasione di campo. Tutto pacifico ma tanta paura.
E cosi si va ai tempi supplementari, appendice coinvolgente di una splendida finale, che pare chiudersi quando Ian Rush riporta avanti il Liverpool. Siamo 2-1.
Ma il genietto perverso dello spettacolo ha ancora in serbo spazio e gloria per McCall che con una rete spettacolare da fuori area impatta sul 2-2.
Tuttavia è tutt'altro che finita, il solito Rush istrione gallese sonnacchioso e ironico infila di testa la rete decisiva del 3-2 per i suoi. Adesso è proprio finita, ha vinto il Liverpool che guidato dal suo capitano irlandese Ronnie Whelan sale i 39 gradini del Royal Box per ricevere il trofeo.
La fenice della Mersey risorge dalle sue ceneri ma quel giorno a Wembley hanno vinto tutti.
di Simone Galeotti, https://lettereinchiaroscuro.blogspot.com
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