La mia Inghilterra cominciò al telefono, dalla redazione di «Tuttosport», Torino, Italy.
Era il 1974, vi ero approdato quattro anni prima da Bologna, e dal basket i grandi capi mi avevano trasferito al calcio. Con la preghiera di dedicarmi, in particolare, al calcio internazionale. Why not. I Settanta, piombo e arene. Il piombo delle tipografie, delle Brigate Rosse; le arene che ogni domenica e ogni mercoledì si aprivano alle nostre pulsioni, alle nostre emozioni. Al lavoro, dunque. Senza cellulari, senza Internet. Con foga, con l’entusiasmo naif degli esploratori, dei cacciatori. Era l’epoca dei telefoni fissi, non necessariamente «bianchi». Il campo-base, allora, era in via Villar e ce n’era uno, quadrato e azzurro, proprio vicino al mio tavolo. Ci si faceva di agenzie o di teleselezione. Prefisso del Regno Unito, 0044. Con me, Aleramo del Carretto: radici nobiliari, si firmava Bob Carret. Insieme, abbozzavamo segni che ci sembravano sogni. Rompevamo le scatole a chiunque, amico o conoscente, si trovasse all’estero. O chiamava lui o lo facevo io. A turno.
A Londra il nostro «gancio» era un cameriere di un ristorante di Piccadilly, Giuseppe Matarrese, omonimo dell’Antonio pluri-presidente. Giuseppe: sentiva, alla radio, «Tutto calcio minuto per minuto» british, prendeva religiosamente nota delle azioni salienti e aspettava. Implacabile. Aleramo o il sottoscritto. Travaso di flash. Trapianto di news. Mi raccomando la grafia di tizio; non ho capito, ripeti per favore. E via a buttar giù un trentello che tenesse su la rubrica. Giuseppe sarebbe poi rientrato in Italia e avrebbe dato vita a una serie di gloriosi e preziosi almanacchi - dal girone unico del 1929-’30 - che solo un infarto, arrivato alla stagione 1955-’56, gli impedì di continuare e completare. Non finirò mai di pensarlo. E ringraziarlo.
Ci si arrangiava così. Primi dei Mohicani, o fra i primi, se mi passate la metafora, a scandagliare una realtà agonistica che, piano piano, sarebbe esplosa. Fino alla Premier e alle telecronache che ne avrebbero accompagnato e decorato la diffusione planetaria.
In compenso, la mia prima Inghilterra «sul» campo, è stata Manchester, al seguito della Juventus, al Maine Road del City e poi all’Old Trafford dello United. Era la squadra del Trap, tutta italiana, che poi avrebbe fatto doppietta, scudetto a Coppa Uefa. Perse 1-0 entrambe le volte, scarti cancellati al ritorno per 2-0 e 3-0, e non superò la metà campo se non in un paio di occasioni.
Poi Anfield, il tempio del Liverpool. Ignari dello spirito e prigionieri della forma, lo scrivevamo per intero: «Anfield Road». Liverpool, le acque del Mersey, la taverna dei Beatles, i docks, il grigio come uniforme e la pioggia come sottofondo. Il destino mi tenne lontano da Goodison Park, la casa dell’Everton. Non per scelta, e neppure per pregiudizio o tifo. Così, perché quello era il tempo dei Reds, e non dei Toffees. La Kop. La curva canonica e iconica del Liverpool Football Club. «This is Anfield». E quella tana, quel girone dantesco. Ci ho visto una partita proprio lì dentro, in mezzo al popolo, tutti in piedi, tutti premuti e spremuti, felice del carcere impostomi, un’esperienza che mi segue, chi poteva immaginare che ci sarebbe stata la carneficina dell’Heysel? Cantavano a squarciagola, «She loves you yeah, yeah, yeah», era lo squadrone che, seminato e irrorato da Bill Shankly, sarebbe stato portato al dominio continentale da Bob Paisley e Joe Fagan.
E il 12 aprile 1978, semifinale-bis di Coppa dei Campioni: 3-0 al Borussia Moenchengladbach, il cui spelling occupava almeno due minuti di scatti telefonici (M come Milano, O come Otranto, eccetera). Era il Liverpool di Kenny Dalglish, Graeme Souness e Jimmy Case. Il Mar Rosso. E, intorno, le «coste» in cemento delle balconate e il legno delle transenne, a strapiombo sull’erba, sulle zolle. E la Kop che profumava di ascelle e puzzava di lavanda, «Hey Jude, don't make it bad». E il mitico, romantico ed eterno «You’ll never walk alone»: non era dei Fab Four, ma chi se ne frega.
Ce ne sono state altre di «Inghilterre». Tante, per fortuna. Da Wembley a Highbury. Ma come Anfield, sorry, nessuna.
di Roberto Beccantini
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