David Peace, uno dei più grandi scrittori inglesi contemporanei, torna a raccontare di calcio nel suo ultimo libro, Monaco 1958, edito da Il Saggiatore.
Lo fa scavando nel passato, come già accaduto con Red or Dead sull’allenatore socialista del Liverpool Bill Shankly e Il Maledetto United incentrato sul fumantino Nigel Clough. Questa volta lo spunto è una tragedia che segnò l’immaginario collettivo di un Regno Unito che stava a fatica riprendendosi dalle profonde ferite inferte dalla guerra.
L’anno e il luogo sono quelli della “Superga inglese”, quando in un 6 febbraio da tregenda dal punto di vista atmosferico sulla pista dell’aeroporto della città bavarese l’aereo che riportava a casa il Manchester United fallì il terzo tentativo di decollo, schiantandosi al suolo. I Red Devils erano reduci da un match di quarti di finale di Coppa dei Campioni, come allora si chiamava la Champions League, contro la Stella Rossa di Belgrado. Quello di Monaco era uno scalo tecnico, trasformatosi in incubo.
La narrazione di Peace comincia dai minuti successivi all’incidente, dai sopravvissuti che tra macerie e cumuli di neve trovano la strada della salvezza. Il suo stile fatto di ripetizioni insistenti, che avvolgono il lettore, questa volta è più sfumato, quasi che un tale dramma avesse bisogno di un tocco più delicato. Sì, perché fu davvero un dramma. I Busby Babes, i ragazzini terribili dell’allenatore scozzese antesignano del Re Mida Alex Ferguson, furono decimati in quel terribile pomeriggio tedesco. Otto persero la vita, tra loro il capitano Roger Byrne, il centravanti Tommy Taylor e il prodigio Duncan Edwards, un predestinato che secondo molti avrebbe riscritto la storia del calcio. Altri due furono costretti al ritiro, Jackie Blanchflower e Johnny Berry, a causa delle ferite subite, mentre nella conta dei morti (23) ci furono tecnici dello United e numerosi giornalisti.
Il futuro pallone d’oro Bobby Charlton e lo stesso Busby si salvarono, rimanendo però segnati per sempre nell’animo. Soprattutto il grande allenatore, perché si sentiva in colpa per aver catapultato i ragazzi nell’avventura della Coppa dei Campioni, le competizioni europee non erano viste di buon occhio dalla iper-conservatrice federazione inglese, che pochi anni prima aveva dissuaso il Chelsea da prendere parte alla prima edizione del trofeo. Busby aveva invece capito che il palcoscenico continentale era la dimensione perfetta per i Red Devils, che infatti sarebbero divenuti uno dei club più famosi e prestigiosi dell’orbe terracqueo. Per raggiungere il successo, l’allenatore scozzese aveva puntato sui talenti delle giovanili, che in Inghilterra stavano dominando ed erano già pronti per rivaleggiare con il Real Madrid di Di Stefano in Europa.
Ragazzi semplici, eroi della porta accanto, come fa emergere con maestria Peace nelle pagine di Monaco 1958. Nulla di paragonabile con le superstar strapagate dei nostri giorni. E questo “stacco” così netto tra il mondo pallonaro di oggi e quello del passato è un po’ il filo rosso che lega i tre libri sul football dell’autore. Ma la descrizione a tratti straziante delle settimane, dei mesi del post-Monaco, intervallati tra momenti di lutto, con i funerali delle vittime, e di ricostruzione, con i match di quel che rimaneva dello United, ha un ulteriore elemento in comune soprattutto con Red or Dead: il senso di comunità. Una comunità che si stringe attorno ai suoi eroi, i quali sono figli del popolo, figli di minatori, operai, manovali, insomma della working class.
Oltre all’ovvia dimensione intima della tragedia, a emergere con forza è quella collettiva, che per Peace è funzionale per illustrare al meglio il tessuto sociale dell’epoca. Compito che, come già nei suoi altri libri, pensiamo solo a 1984, all’autore riesce in maniera impeccabile.
I “giorni neri” come il lutto, punteggiati dal rosso dalle maglie dello United e dal bianco della neve che in quell’inverno del 1958 sembrava non finire mai, si concludono con il primo tentativo di rinascita: l’insperata finale di coppa d’Inghilterra, allora il match più importante dell’anno, giocata con un’aquila rampante che però sembrava una fenice sul petto. Charlton e compagni persero quella partita, ma chiusero almeno in parte i conti con il destino dieci anni dopo. Quando a Wembley un ragazzo di Belfast, George Best, regalò al suo padre putativo Matt Busby la Coppa dei Campioni.
di Luca Manes
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