21 luglio 1964. Qualcuno, dalla finestra del Golf Club di Enfield, sta chiamando John White. Vuole semplicemente farlo rientrare in tempo prima che incominci a piovere. Il cielo non promette niente di buono, si è fatto scuro, ammorbando l’aria di una penombra vellutata.
I tuoni rimbombano da un capo all’altro dell’appezzamento sportivo.
“John…, andiamo…!”
John sente, ma quelle nuvole nere non gli mettono apprensione. Pensa che sarà il solito temporale estivo, niente di più, dieci minuti di nubifragio e poi il sole farà di nuovo capolino fra le nubi facendo brillare come gemme le gocce sui fili d’erba di Crews Hill. Vuole completare il "putt". Si sistema meglio il "flat cap" di cotone sulla testa, assume la posizione corretta e imprime la giusta energia al “pudding”, la mazza leggera da “green”. La palla sfiora la buca, fermandosi beffarda sul bordo della stessa. John fa una smorfia di disappunto mentre intanto è iniziato a piovere forte. Agli infissi del circolo non c’è più nessuno e l’intensità del rovescio svela e risvela i contorni dell’edificio rendendolo indecifrabile abbaglio. John decide di deviare verso un boschetto limitrofo cercando rifugio sotto i rami di un faggio circondato dal bagliore livido dei lampi. Si rannicchia John, cerca di ripararsi. Quante volte suo nonno gli aveva detto di non mettersi mai sotto un albero quando incominciava una burrasca? Quante volte? E John aveva imparato, correndo a perdifiato verso il paese, correva sulle pietre umide, in mezzo all’erica e alla ginestra, dove si raccontava vivessero dei piccoli elfi che spiavano gli orchi senza occhi del sottosuolo. Stavolta non l’ha fatto e un po’ se ne rammarica. Lo coglie un presentimento che non finirà di percepire. La vita di John White finisce lì, la mattina del 21 luglio del 1964 a 27 anni, recisa, stroncata da un fulmine caduto a pochi metri di distanza.
Non ci sarà bisogno di medium e sedute spiritiche, perchè John White era già un fantasma ancor ‘prima di morire. Lo chiamavano “Ghost”, già curioso, lo avevano battezzato così, lassù nel nord di Londra, ammaliati dalle sua velocità, arrivando al punto, (si enfatizzava nel crepuscolo delle tribune), da rendersi invisibile eppure in grado di materializzarsi nei pressi del compagno in difficoltà per ricevere il passaggio. Un precursore se vogliamo, un giocatore argenteo a livello mentale che elucubrava in termini di spazio ben prima di Johan Cruyff. La storia di John White incomincia a Musselbrugh, un pugno di casupole annerite che Edimburgo tenta di abbracciare ma ci rinuncia perché la campagna è abile a scongiurare il suburbio. Secondogenito di una famiglia operaia, John White a quindici anni diventa apprendista falegname e nel frattempo stravince le corse campestri locali fino al giorno in cui l’Alloa Athletic se ne interessa cercandolo per sottoporlo a un provino con il pallone. Il ragazzo è smilzo, una faccia da eterna matricola, una costellazione di lentiggini sotto i capelli biondi quasi platino. Lo prenderanno, si, John è preciso, ha inventiva e corre dannatamente svelto nonostante i terreni siano spesso saturi e le scarpe gli pesino come macigni. In breve indossa la maglia del Falkirk, finché nel 1959 viene acquistato dal Tottenham per 22mila sterline nonostante la titubanza del manager degli Spurs Bill Nicholson, non particolarmente impressionato dallo scozzesino.
“Troppo magro, troppo esile, non reggerà i ritmi e la fisicità del nostro campionato..”
A sfumare le perplessità di Nicholson ci penserà Dave Mackay, compagno di squadra del ragazzo in nazionale. In poco più di dodici mesi White passerà così dalla seconda divisione scozzese al massimo campionato inglese in uno dei club più prestigiosi. A Londra White trova un Tottenham reduce da un disastroso piazzamento dopo aver perso nel corso della stagione il tecnico Jimmy Anderson per problemi di salute. Lo aveva sostituito Nicholson che però non era immediatamente riuscito ad alzare il livello di gioco della squadra. Un inizio poco memorabile per colui che sarebbe diventato uno degli allenatori più longevi e vincenti nella storia degli Spurs. White parte interno sinistro di centrocampo, passando all’ala destra nella stagione della storica doppietta campionato-FA Cup. Quel Tottenham è la squadra di Dave Mackay, del capitano Danny Blanchflower, dell’ariete Bobby Smith e ovviamente di John “The Ghost” White, l’uomo-ovunque.
Raggiungono la semifinale di Coppa dei Campioni contro il Benfica ma i lusitani con un pizzico di fortuna infrangono il sogno del Tottenham. Tuttavia 12 mesi dopo White e compagni diventano la prima squadra inglese a vincere in Europa travolgendo, il 15 maggio 1963, al De Kuip di Rotterdam, l’Atletico Madrid per 5-1 nella finale di Coppa delle Coppe. La rete del raddoppio la firma proprio White con un sinistro chirurgico che transita attraverso una selva di gambe e si insacca in rete.
Poi arriva quell’incidente assurdo, inconcepibile. A 27 anni lasciò una moglie – Sandra, figlia dell’allenatore in seconda del Tottenham Harry Evans, e due figli piccoli, Mandy e Rob. In realtà il numero corretto dei suoi bambini sarebbe tre ma dell’esistenza di Stephen Roughead-White, concepito durante il periodo in cui prestava servizio militare a Berwick nel KOSB (King's Own Scottish Borderers, divisione di fanteria dell’esercito britannico) si verrà a sapere solo quarant’anni dopo. C’è una foto di quella vicenda. Una fotografia in bianco e nero, incrinata, sbiadita, rimasta nascosta dentro un baule polveroso. Si vede una coppia innamorata. Lui è vestito elegantemente e avvolge un braccio protettivo intorno a lei che indossa un cappotto alla moda e una sciarpa che le copre i capelli ma non la bellezza.
E' la storia tra Helen McLean, 19 anni di professione lavandaia per l’esercito, e John White all’epoca militare 23enne. Helen rimase incinta ma John, non si sa perché, incominciò a negare, smettendo di frequentarla. Tutto sarebbe rimasto sepolto se Robert White, il figlio avuto successivamente da John, non avesse scritto un libro sul padre intitolato “il fantasma di White Hart Lane” che, prove alla mano, ha costretto la madre di Stephen a confermare ciò che Rob e la famiglia sospettavano. Stephen, il figlio non riconosciuto di John, affermò che la rivelazione al pubblico fu un sollievo piuttosto che una sorpresa perché ormai, dopo un travaglio non da poco, era a conoscenza dell'identità del vero padre.
"Purtroppo non riesco a pensarlo come ad un uomo leale. Per essere un uomo devi essere responsabile delle tue azioni. Se non sei preparato a farlo, allora sei un vile.”
Rob incontrò Helen in Lamb's Laundrette, guarda caso nei pressi della Caserma di Berwick, per un appuntamento. Helen le disse che all'epoca dei fatti John aveva anche fissato una data di matrimonio ma improvvisamente, senza spiegazioni, non lo vide più.
"Piangevo ogni giorno. Mio padre martellò di pugni i cancelli della caserma, chiedendo di parlare con John, ma non lo hanno mai lasciato entrare. E quando nell'ottobre del 1959, John firmò per il Tottenham, lasciando l'esercito e trasferendosi a Londra tutto finì ma non mancarono strascichi e pettegolezzi”
Durante una partita scolastica Stephen viene avvicinato da un amico malizioso:
"Io lo so perché sei un buon calciatore, perché tuo padre era un calciatore.”
Ogni dubbio svanì quando a 16 anni Stephen fece una scoperta sbalorditiva mentre rovistava in un armadietto in soffitta. Trovò un certificato di nascita giallognolo, malconcio: il suo.
Il nome del padre, scritto con inchiostro rosso, diceva John White.
"L'ho rimesso subito nella busta, l'ho chiusa di nuovo e non ho detto niente a nessuno".
Ma i ragazzi del pub che frequentava continuavano in velate battute per verificare se lui sapesse costringendolo ad andarsene fuori singhiozzando. Alla fine sua madre si convinse a confermare: "Stephen ascoltami, Davey (il marito di Helen) non è tuo padre.”
Stephen restò sereno, non alzò nemmeno gli occhi, le disse tranquillamente che già lo sapeva, e mentre lo diceva, per un attimo, nell’angolo più buio della casa prese forma un evanescente figura bianca.
di Simone Galeotti, da https://lettereinchiaroscuro.blogspot.com
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