30 settembre 2025

"BLU DI SCOZIA. La Nazionale scozzese e le sue maglie" di Antonello Cattani & Gianfranco Giordano (Urbone), 2025

In questo libro ripercorriamo la storia della Nazionale scozzese di calcio, attraverso i profili dei suoi giocatori più importanti e l’evoluzione delle sue divise.
Perché la Scozia? Perché questa squadra ha avuto negli anni tanti giocatori con indiscusso talento e grande temperamento, perché molti tifosi eccellenti hanno tifato per lei, perché la maglia blu notte con collo bianco è bellissima.
La Scozia è stata l’unica nazionale a rifiutare la partecipazione a un mondiale, secondo loro non la meritavano. La prima nazionale a conquistare sul campo la qualificazione ai mondiali per cinque volte di fila e l’unica nazionale, dopo essersi qualificata per cinque volte consecutive alla fase finale, a non aver passato la prima fase. Una Nazionale che nel corso degli anni ha visto indossare il blu notte da tantissimi campioni.
In poche parole la Scozia ha il fascino indiscusso del perdente di successo.

29 settembre 2025

"JIM BAXTER. RIBELLE PER VOCAZIONE" di Leonardo Aresi

Tonight I'm a Rock 'N' Roll Star.
Il talento di uno sportivo è innato, indomito e spesso destinato alla grandezza. Così è stato il talento di James Curran Baxter, nato il 29 Settembre del 1939 a Hill O’Beath, un minuscolo villaggio situato sulla ventosa costa orientale della Scozia. Una volta conclusa con ottimi voti la carriera scolastica, Jim venne instradato dai genitori ai lavori in miniera come molti altri suoi coetanei. Era il secondo dopoguerra e le fameliche fauci dell’industria britannica bramavano carne fresca.
L’esaltazione delle sue enormi potenzialità con la palla tra i piedi era quindi circoscritta al rito pagano di quartiere: la partita della domenica con gli amici. Il ragazzo era un autentico narciso, uno sbruffone pieno di sé e del proprio gioco. La sfera rimaneva incollata ai suoi scarpini fin quando decideva lui e soltanto lui. Dei continui richiami che riceveva in campo dai compagni se ne fregava alla grande. Guascone per natura. E Baxter non l’ha mai rinnegata la sua natura. Né tantomeno ha provato ad arginarla. Anzi l’ha assecondata ed esasperata fino in fondo, anche a costo di pagarne un tragico conto.

Le spensierate sgambate di pasoliniana memoria rappresentarono solamente il punto di partenza verso qualcosa di molto più grande. Quel talento non poteva certo sfiorire sotto i colpi di piccone. Baxter in cuor suo ne aveva piena consapevolezza ma a prendersi sul serio faceva davvero fatica. E lo dimostrò in maniera eclatante quando per la prima volta gli fu concessa la possibilità di firmare nero su bianco un contratto da calciatore. Quel moccioso arrogante, nel giorno del suo provino con la squadra giovanile dell’Halbeath, rimase inchiodato al tavolo da gioco della sala scommesse di Hill O’Beath.

Una partita a poker e una fumata di sigaro circondato da manovali e pescatori avevano la priorità. Persa la mano decisiva e finiti i denari da sperperare, a Baxter non restò altro che sfogare la propria delusione incantando con prodezze mirabolanti gli allenatori a cui inizialmente aveva dato buca. Non se la fecero scappare quella fenomenale testa di cazzo. Questione di poco tempo e l’attenzione delle squadre più blasonate della regione era tutta su di lui. Nel 1957 fu il Raith Rovers ad assicurarsi i suoi colpi di genio. Memorabile la vittoria contro i Rangers nel 1958 di cui fu indiscusso fautore.

“È nata una stella” titolavano le pagine sportive di tutti i giornali all’indomani del trionfo.

Gli anni trascorsi a Kirkcaldy fecero da trampolino di lancio per una delle più appassionanti ed intense storie che il calcio scozzese abbia mai conosciuto. Baxter nel 1960 approdò, per la cifra record del tempo di 17.500 sterline, proprio nei Blues di Glasgow, giganti assoluti del movimento calcistico nazionale che all’epoca già potevano vantare 31 titoli in bacheca. L’allenatore Scot Symon era fermamente convinto che le giocate di quello scapestrato centrocampista avrebbero permesso ai suoi uomini di fare il definitivo salto di qualità.

Slim Jim, come lo ribattezzarono i tifosi per il suo fisico longilineo, debuttò con lo stemma della casata di Govan cucito sul cuore in occasione di un incontro estivo di Coppa di Lega contro il Partick Thistle. A Novembre mise a segno le sue prime reti in campionato e nei quarti di finale della Coppa delle Coppe contro il Borussia Mönchengladbach. Finì 8-0 quel match: uno dei più grandi massacri europei di sempre a tinte blu. L’agile eleganza di quello spilungone fece immediatamente breccia nei cuori del popolo di Ibrox. Il suo estro fuori dagli schemi mozzava il fiato a chi fino ad allora era stato abituato a concepire il calcio come una scienza esatta. Baxter con i suoi guizzi al di là di ogni logica era riuscito a scatenare in campo una rivoluzione pari a quella che Beatles e Rolling Stones trasmisero dal palco con la loro musica.

«Un giorno ero un giocatore del Raith Rovers che cercava di rimorchiare al Cowdenbeath Palais, ed il giorno dopo ero a Glasgow circondato da ragazze che si gettavano impazzite su di me. Si era verificato un grande cambiamento nella mia vita e di certo non me lo sono lasciato sfuggire».

In un’epoca nella quale la parola del manager era legge, Jimmy decise di farsi guidare solo dall’istinto. Le donne, l’alcol, il gioco d’azzardo, gli abiti firmati e la vita notturna spericolata nei locali di Glasgow alimentarono come benzina sul fuoco la sua leggenda. Il levriero del Fife è stato l’emblema della classe operaia catapultata in paradiso. Allenarsi con regolarità ovviamente era fuori discussione e questo lo portò a scontrarsi più volte a muso duro con i senatori della squadra e con lo stesso Scot Symon che a malincuore era continuamente costretto a chiudere un occhio sulla sua condotta indisciplinata. Quel demonio se ne infischiava di qualsiasi codice comportamentale presentandosi ubriaco ai raduni prima delle gare ufficiali o addirittura concludendo in commissariato le notti brave della vigilia.

I giocatori dei Rangers allora più che mai rappresentavano l‘establishment protestante ed unionista della nazione ma a Baxter poco importava. Fu tra i pochissimi in quegli anni a fraternizzare con i nemici cattolici dell’altra sponda del fiume Clyde. Bandiere del Celtic come il capitano Billy McNeill, Pat Crerand e Mike Jackson divennero infatti suoi carissimi amici. Del settarismo religioso, politico e sociale che divideva le due fazioni non se ne curava. Nelle stracittadine però non conobbe pietà. Fu una vera e propria bestia nera per i biancoverdi con un invidiabile score di due sole sconfitte in diciotto incontri totali. Dal 1960 al 1964 la popolarità di Jim Baxter non ebbe eguali nel panorama calcistico scozzese. Il suo ostinato anticonformismo era sulla bocca di tutti. Come diceva Oscar Wilde, amare se stessi è l’inizio di un romanzo lungo quanto la vita.

Baxter fu il Deus ex machina in ogni conquista collettiva dei Gers di quel periodo. Il bottino recita 10 titoli di cui 3 campionati, 3 Coppe di Scozia e 4 Coppe di Lega. Non male per uno che era solito consumare senza tregua quantità industriali di Bacardi. Il culto del ragazzone fece proseliti anche tra i sostenitori della Nazionale. La Tartan Army stravedeva per lui. Il 6 Aprile 1963 davanti ad una platea oceanica di quasi 100.000 spettatori, Slim Jim fece del tempio del calcio il suo salotto di casa. Oltre a mettere a segno una doppietta, con un tiro dal limite dell’area ben angolato ed un superbo calcio piazzato su rigore, riuscì letteralmente a destabilizzare gli inglesi presenti a Wembley con i suoi improvvisi cambi di direzione ed i suoi lanci balistici da una parte all’altra del campo.

90 minuti di assoluta perfezione consegnati alla storia: il masterpiece della sua carriera. Un gruppo di tifosi dell’Arsenal dopo quella sconfitta per 1–2 firmarono addirittura una petizione pregando in tutti i modi il loro board di portarlo ad Highbury. La proposta non si concretizzò mai. Le voci sulla sua profonda mancanza di professionalità avevano fatto il giro dell’isola e per molti club Jim era considerato uno squilibrato da tenere alla lontana.

«Tutto quello che ho fatto in campo è stato puro istinto. Forse mi sono divertito un po’ troppo, ma in fondo cos’è troppo? La moderazione l’ho sempre lasciata ai moderati. Senza pentirmene nemmeno una volta».

Il 23 Ottobre 1963 partecipò alla sfida tra l’Inghilterra ed una rappresentativa FIFA per celebrare i 100 anni della Football Association. Un ulteriore lustro a livello internazionale in quella annata magica. Giocò al fianco di campioni che siedono di diritto nell’Olimpo del calcio come Francisco Gento, Alfredo Di Stéfano, Ferenc Puskás, Eusébio, Raymond Kopa e Lev Yashin. Qualche anno più tardi, dopo l‘amichevole tra Scozia e Brasile, un certo Edson Arantes do Nascimento meglio noto come Pelé disse ai cronisti che lo tempestavano di domande fuori da Hampden Park che Baxter sarebbe dovuto nascere brasiliano viste le qualità tecniche di cui era padrone. George Best poco prima di morire, in un’intervista rilasciata al magazine FourFourTwo, lo inserì nel suo undici ideale. E chissà di cos’altro sarebbe stato capace se nel 1964 una frattura scomposta alla gamba durante una gelida trasferta viennese di Coppa Campioni non avesse pregiudicato il prosieguo della sua carriera.
di Leonardo Aresi, da https://www.rivistacontrasti.it

26 settembre 2025

"LONDRA" di Paul Morand (Settecolori), 1933


Dalla sua camera all'hotel Savoy, all'inizio degli anni Trenta, Paul Morand scrive al suo amico Valery Larbaud: «Sono a Londra, scrivo un "Londra". Come è difficile! Al confronto, New York era uno scherzo. Il cielo non mi invia nessun segno, me lo devo fare da solo con la mia stilografica». 
Londra è stata la mascotte della giovinezza di Morand, attaché dell'ambasciata francese prima e durante la Grande guerra: è stata la sua iniziatrice esistenziale e ogni suo quartiere fa parte del suo passato, pieno di mille ricordi che ora gli si affollano nella mente. «Ogni sera, quattro o cinque balli mi trattenevano fino all'alba e spesso ritornavo per Piccadilly quando il sole sorgeva sopra il Ritz». A differenza di Roma, Parigi, Venezia, che sfuggono agli scrittori che tentano di descriverle e a ogni libro su di loro si rivelano ancora più impenetrabili, Morand sa che fra lui e la capitale inglese c'è una corrispondenza d'amorosi sensi, sa che nessuno la potrà raccontare come lui. "Londra" non è un libro di viaggi, è un atto d'amore, «il ritratto di una città come si fa il ritratto di una donna», il più fedele perché il più disinteressato. Ancora oggi, per capire veramente Londra bisogna portarsi dietro questo libro meraviglioso, dove Morand si fa maestro di cerimonie, ci apre tutte le porte, ci svela tutti i segreti, gioca con i secoli, ne racconta la storia come un geografo, i costumi come uno storico. Una festa per gli occhi e per la mente. 

Paul Morand nel 1933. Questo libro in lingua francese offre uno sguardo unico e penetrante sulla capitale britannica degli anni '30. Attraverso la sua prosa elegante e raffinata, Morand dipinge un ritratto vivido della città, catturando l'essenza di Londra in un periodo storico cruciale tra le due guerre mondiali. L'autore, noto per il suo stile sofisticato e le sue acute osservazioni, ci guida attraverso le strade, i quartieri e la società londinese, offrendo ai lettori un'esperienza letteraria che combina reportage, memoir e narrativa. 

25 settembre 2025

"PORT VALE. THE WONDER OF YOU" di Simone Galeotti.

The Wonder of You. È probabile che Robbie Williams abbia invidiato molto Elvis Presley non tanto per la fama quanto perché questa canzone è diventata l’inno del suo amato Port Vale, club di cui si parla pochissimo, nascosto nel seminterrato della Football League, e che soprattutto non ha mai vinto niente, forse perché offuscato dai vicini dello Stoke City che qualche chilo di argenteria in più lo hanno messo in vetrina. 

In realtà Port Vale non è nemmeno il nome del sobborgo dove gioca la squadra, ubicata a Burslem, spesso pronunciato Bozley, segmento di contea e brughiera spinosa, per diversi anni quasi paradossalmente sperduto nel centro dell’Inghilterra, nonostante vanti il titolo di “madre” delle ceramiche. Oh, sappiamo certamente che il 1876 sia l’anno di fondazione dei bianconeri listati di ambra, meno chiara è la genesi del nome ancora oggi dibattuta in qualche discussione da pub. 
Un’ipotesi fa richiamare Port Vale a un canale nei pressi di Burslem che offriva una sorta di molo a modeste imbarcazioni, altri sostengono che il sodalizio è stato creato a seguito di un incontro tenutosi in un edificio chiamato Port Vale House in Burslem’s Limekiln Road e in effetti se si va a cercare il primo impianto di gioco dei “Valiants”, si nota l’ubicazione nei pressi di questa strada.  

Da lì si trasferirà in almeno un paio di ameni terreni fino a trovare definitivo alloggio al Vale Park in Hamil Road, impianto inaugurato nel 1950 e costruito a ridosso della linea ferroviaria. Ora andiamo al nodo e al vasetto sul crest. Beh, se il vasetto fa chiaro riferimento alla ceramica, il nodo pare richiamare il cappio alla corda, indicazione che la zona sul finire del secolo XIX pullulava di disgraziati da mettere al capestro. 
Vittorie? Il trofeo della quarta divisone 1954 e una sliding door, sempre di quell’anno, in cui giocavano Albert Mullard, un ex prigioniero di guerra, il portiere Ray King, gli indimenticabili fratelli Phil, Jess e Roy Sproson (una storia di famiglia con oltre 1700 presenze e una doverosa statua a loro tributo davanti agli ingressi della Main Stand), il centrocampista Colin Askey, Freddie Steele, Ken Griffiths, Derek Tomkinson e il capitano Tommy Cheadle altro nome inciso nelle pietre lisce di Burslem. Finiranno campioni della Quarta divisione e (ecco la biforcazione del destino) se quella rete segnata da Leake Albert nella semifinale di FA Cup al Villa Park contro il WBA annullata per un controverso fuorigioco fosse stata assegnata chissà cosa sarebbe successo. Altri nomi da spendere sono quelli del manager John Rudge che al seguito della retrocessione al di sotto dell’asticella del professionismo agli inizi degli anni ‘80 grazie alle reti del prolifico gallese Andy Jones riportò qualche stagione dopo il Vale un paio di categorie più su perdendo una sola volta in due anni a Vale Park. Su Andy Jones va aperto un mini capitolo. Capigliatura e postura al passo con i tempi, era un attaccante massiccio acquistato nell'estate del 1985 al compimento dei 21 anni dal modesto Rhyl per appena 3.000 sterline. Segnò subito contro lo Stoke diventando immediatamente un eroe per i fan del Vale. 

Fu l'inizio di una storia d'amore breve, intensa e mai conclusa. Perché a distanza di quarant’anni, al Vale Park provano ancora affetto per questo ragazzone ceduto al Charlton Athletic che in First Division segnerà subito ben 18 gol diventando capocannoniere del club festeggiando la convocazione nella nazionale gallese con una tripletta nella vittoria per 6-1 in casa del Fulham. Quando la nazionale gallese andò a giocare una partita in Finalndia Jones era già apparso sulla rivista di calcio "Match Weekly" e centinaia di tifosi del Vale andarono a vedere l'incontro a Helsinki. In coppia con una leggenda come Ian Rush e davanti a uno striscione che recitava: "Dai Jones scortica i finlandesi", lui gli ha debitamente accontentati con uno splendido tiro al volo in rete per un complessivo 4-1 a favore del "Red Dragon" (quello che Merlino sveglierà quando il paese sarà in pericolo). Negli highlights televisivi, nientemeno che George Best dichiarò che Jones sembrava davvero un bel talento. Negli uffici di Vale Park c’è appesa una fotografia della sua ultima partita casalinga quando Jones ne fece addirittura cinque contro il povero, malcapitato Newport County. Già a metà all'intervallo il risultato diceva “Jones” 5 - Newport 0. Avrebbe potuto segnarne 15, disse qualcuno in preda a comprensibili visioni mistiche miste al luppolo. 
 I Valiants in questo campionato sono partiti benissimo, chissà... “And you're always there to lend a hand In everything I do That's the wonder The wonder of you”

23 settembre 2025

"CITTA' STADIO" di Giorgio Coluccia (Absolutely Free), 2020

C'è un filo invisibile capace di unire ancora l'Inghilterra del football. Passa per i suoi stadi storici, quelli che restano annodati al cuore della propria gente. Il libro segue un itinerario che resiste all'avanzare del tempo, laddove il football ground coincide ormai con l'essenza del quartiere, aggrega intere generazioni della stessa città attorno a un'unica squadra.
Ci sono Portman Road a Ipswich (1884), Ashton Gate a Bristol (1887), St James' Park a Newcastle (1892), Old Trafford a Manchester (1909), Highbury (1913), che da Londra in realtà non se ne è mai andato, e l'eccezionale singolarità di Nottingham, dove City Ground (1878) e Meadow Lane (1910) se ne stanno adagiati sulle rive del fiume Trent a guardarsi ad appena 275 metri di distanza. "Città stadio" è un pellegrinaggio nel cuore di ogni quartiere, per andare a caccia delle origini, delle storie più nascoste, di appassionati che hanno trasformato quegli impianti in una seconda casa, chiudendo a chiave dentro di essi partite da tramandare ai posteri. Come meteore sono passati calciatori, allenatori, avversari, presidenti e intere stagioni, ma gli stadi storici resistono ancora, sono veri e propri reduci rispetto a calamità, guerre ed esigenze di modernità che non risparmiano nessun ambito. Eppure ci sono ancora e "Città stadio" va a scavare nella loro esistenza per raccontare ciò che custodiscono. Prima che sia troppo tardi.


22 settembre 2025

[BRIT MUSIC] "CAMDEN TOWN IS DEAD" di Giuseppe Lavalle

"Devi assolutamente andare a Camden Town, un posto carinissimo". Così mi ha detto la mia amica quando ha saputo del mio giro a Londra. 
Mercatini, gente, caldo, tutto ciò che per me è respingente, ma non perché sono snob, semplicemente non mi piace. No a Camden non ci vado. 
Però lì è conservato un set di Joe Strummer, nel negozio Dr. Martens, va bene, ci vado. 
Ci arrivo una mattina non troppo calda, una passeggiata per Camden High st. tra i palazzi colorati ed i numerosi negozi. Si respira un’aria da festa finita, la festa degli anni del punk, brevi ma intensi, nati sotto la genialità di Vivienne Westwood e Malcom McLaren che nel 1971 aprirono un negozio, e da lì un continuo crescere con le performance di gruppi come i Sex Pistols, i Madness, i Rolling Stones, i Joy Division, David Bowie, i Clash, gli Smiths e si potrebbe andare avanti. Quell’aria non si respira più, il fermento della subcultura di quegli anni è morto e sepolto, e camminare sulle sue ceneri fa effetto. 

Come fa effetto entrare nei negozi di dischi e strumenti musicali che erano il centro di quella vita musicale in quegli anni. Provo una Stratocaster, poi una Les Paul, illudendomi di sentire addosso il fremito degli artisti che son passati da lì, che sciocco! 
Poi vado allo store di Dr. Martens, tra anfibi e arredi stilosi vedo il set di Joe Strummer, è in una teca, come gli oggetti del passato che si mostrano nei musei. Un ricordo di quello che è stato e che non tornerà più. Esco dallo store, sono troppo deluso da tutto quello che ho visto, attraverso il mercatino “carinissimo” di Camden pieno di bancarelle vintage e ristoranti, è pieno di turisti come me, ha cambiato pelle e la musica che prima invadeva l’aria di Camden adesso è stata sostituita dal brusìo di quelli come me che camminano e guardano i vestiti usati sulle bancarelle.

Camden è come una di quelle giacche esposte nei negozi vintage, indossate da qualcun altro, la guardi, ti piace, ti evoca un periodo storico che hai letto sui libri e sentito nei dischi o nei racconti di qualcuno e che ti affascina, la indossi provando a respirare la vita del suo originario proprietario, e poi la riponi dove l’hai presa, avendo la consapevolezza che non è la tua giacca.

19 settembre 2025

"MILLWALL vs WEST HAM. Il derby della working class londinese" di Luca Manes (BradipoLibri), 2014

A Londra sono le nove del mattino di una domenica di fine novembre.
Sulle strade semideserte della capitale inglese un cielo cupo da metter spavento distilla una pioggerellina quasi invisibile. Il freddo umido ti si attacca alle ossa senza pietà, non concedendoti nemmeno un istante di tregua. Mettere il naso fuori dall’uscio di casa è un’impresa da sconsigliare anche ai fanatici del jogging. C’è solo da compatire chi deve percorrere gli ampi viali del centro cittadino perché gli è toccato un turno di lavoro infame come il tempo nel cuore d’autunno.
È il caso dei tanti poliziotti, circa mille, impegnati nel servizio d’ordine di uno dei match più temuti del panorama calcistico inglese, se non mondiale: Millwall vs West Ham United

18 settembre 2025

"I MONDIALI DELLA SCOZIA" di Gianfranco Giordano

La Scozia non ha partecipato alle qualificazioni per le prime tre edizioni della Coppa del Mondo di calcio in quanto non era ancora membro della FIFA.
La Scozia partecipa per la prima volta alle qualificazioni per il Mondiale nel 1950, al tempo il Torneo Interbritannico valeva come girone di qualificazione. Gli Scozzesi si qualificarono arrivando secondi nel Torneo, dietro l’Inghilterra, ma poi rinunciarono al viaggio perché ritenuto troppo difficile da organizzare.


Nel 1954 il Torneo Interbritannico vale ancora come girone di qualificazione ai Mondiali, la Scozia si piazza nuovamente seconda dietro l’Inghilterra e si qualifica per la sua prima Coppa del Mondo. In Svizzera la Scozia gioca due partite, contro l’Austria ed i campioni uscenti dell’Uruguay, scusate se è poco, incassa otto reti senza segnarne alcuna e torna a casa senza lasciare traccia. Del girone faceva parte anche la Cecoslovacchia ma il regolamento del torneo contemplava solamente due partite per squadra nel girone.
Nel 1958 la Scozia si qualifica superando nel girone Spagna e Svizzera. L’allenatore doveva essere Matt Busby, ma aveva dovuto rinunciare all’incarico a causa delle ferite subite nella tragedia di Monaco, il suo posto venne preso da Dawson Walker. All’esordio contro la Yugoslavia arrivano il primo punto e la prima rete nel torneo, poi due sconfitte di misura contro Paraguay e Francia che finirà al terzo posto.
Nel 1974 la Scozia, guidata da Willie Ormond, si qualifica superando nel girone Cecoslovacchia e Danimarca. Gli Scozzesi sono l’unica compagine britannica a staccare il biglietto per la fase finale della Coppa del Mondo. In Germania gli Scozzesi sono attesi da un girone di ferro con Brasile e Yugoslavia oltre allo Zaire, al tempo gli africani non facevano paura a nessuno. Esordio morbido contro lo Zaire, la Scozia fa l’errore di accontentarsi di due sole reti, poi due pareggi contro Brasile, squadra tutto sommato modesta, e Yugoslavia. Scozia eliminata per la differenza reti, il Brasile aveva segnato una rete in più allo Zaire. Per gli Scozzesi, il poco invidiabile record di essere eliminati dalla fase finale senza essere mai sconfitti.

Nel 1978 la Scozia si qualifica superando nel girone Cecoslovacchia e Galles. La Scozia era davvero una bella squadra, quasi lo stesso organico di quattro anni prima ma con più esperienza, un mix di grinta e talento. Nel girone c’erano l’Olanda, grande favorita, il Perù, squadra di buone individualità, Cubillas su tutti e l’Iran. All’esordio la Scozia viene strapazzata dal Perù, dopo essere passata in vantaggio con Jordan ed aver fallito un rigore con Masson. Nella seconda partita l’Iran si rivela avversario ostico ma gli Scozzesi riescono a passare in vantaggio nei minuti finali del primo tempo grazie ad un’autorete, nel secondo tempo però subiscono il pari degli Iraniani. Nell’ultima partita la Scozia tira fuori tutto il cuore e tutta la grinta che possiede, batte l’Olanda ma ancora una volta viene eliminata per la differenza reti.
Nel 1982 la Scozia si qualifica superando nel girone Irlanda del Nord, Svezia, Portogallo ed Israele, primo posto finale con una sola sconfitta. La grande Scozia è ormai in declino, i suoi eroi stanchi e segnati da mille battaglie. Questa volta la Scozia non stecca la partita d’esordio contro la Nuova Zelanda, cenerentola del girone. La partita con il Brasile comincia bene, rete di Narey dopo diciotto minuti, poi la Scozia deve inchinarsi ad un maestoso Brasile. Nell’ultima partita scontro diretto con l’Unione Sovietica che vanta una migliore differenza reti, la Scozia passa in vantaggio con Jordan, a segno nel terzo mondiale consecutivo, subisce la rimonta sovietica poi pareggia nei minuti finali. Ancora una volta la Scozia torna a casa per la peggior differenza reti.

Nel 1986 la Scozia si qualifica arrivando seconda dietro la Spagna, le altre squadre erano Galles ed Islanda. Nel corso della partita giocata a Cardiff il 10 settembre 1985, l’allenatore Jock Stein venne colpito da un infarto che ne causò la morte. Dopo il girone di qualificazione europeo, gli Scozzesi sconfissero l’Australia nello spareggio. Ormai è un’altra squadra, il ricambio generazionale è completo. Le speranze di passare il turno aumentano, in questa edizione passano anche le quattro migliori terze, ma per la Scozia non c’è niente da fare, nonostante sir Alex Ferguson in panchina. Dopo due sconfitte di misura con Danimarca e Germania Ovest, la Scozia era ancora in corsa per la qualificazione, ma un pareggio a reti bianche con l’Uruguay la condanna ad un mesto ritorno a casa.
Nel 1990 La Scozia si qualifica arrivando seconda dietro la Yugoslavia, le altre squadre erano Francia, Norvegia e Cipro. Quinta partecipazione consecutiva ottenuta sul campo, un record all’epoca, per gli Scozzesi. Il girone sembra abbordabile ma comincia subito male con una imbarazzante sconfitta all’esordio contro la Costa Rica, sempre brutte figure contro gli sconosciuti. Dopo un pronto riscatto contro la Svezia arriva la partita decisiva contro il Brasile, un pareggio potrebbe garantire il passaggio del turno, ma un gol di Muller ad otto minuti dalla fine spegne i sogni scozzesi. Ancora tutti a casa dopo il primo turno.
Nel 1998 la Scozia si qualifica arrivando seconda dietro l’Austria, le altre squadre erano Svezia, Lettonia, Estonia e Bielorussia. Ultima presenza scozzese alla fase finale della Coppa del Mondo. Tanto per cambiare nel girone c’è il Brasile, i Verdeoro battono la Scozia nella prima partita del girone grazie ad un’autorete nel secondo tempo. Il pareggio in rimonta contro la Norvegia riaccende le speranze, poi arriva il tracollo contro il Marocco nell’ultima partita.

In totale otto partecipazioni per la Scozia alla fase finale della Coppa del Mondo, in tutte le occasioni scozzesi eliminati al primo turno, spesso con merito ma in almeno due occasioni con grande sfortuna. Negli anni 70 la Scozia era davvero una squadra forte ed avrebbe meritato un posto di prestigio sul palcoscenico mondiale.
di Gianfranco Giordano

16 settembre 2025

"VOGLIO LA TESTA DI RYAN GIGGS" di Rodge Glass (66thand2nd), 2014

Può un sogno infrangersi centotrentatré secondi dopo essersi realizzato?
È ciò che accade a Mikey Wilson, ultimo esponente di quella mitica Generazione del ’92 che avrebbe reso invincibile il Manchester United nei due decenni successivi. A differenza delle altre, però, la carriera di Mikey termina pochi istanti dopo essere iniziata, a causa di un tragicomico infortunio provocato da un assist impreciso di Ryan Giggs, «l’ultimo calciatore gentiluomo», l’idolo del giovane Wilson. E, da quel giorno, la sua ossessione.
Sedici anni dopo Mikey – alcolizzato e disoccupato – cerca di riprendere il controllo della propria vita invocando l’aiuto dei suoi ex compagni di squadra ma senza ottenere alcun conforto. Nemmeno da lui, Giggs, l’uomo che per la cui immortalità ha pagato il prezzo più caro. E verso il quale indirizzerà tutta la sua frustrazione.
Alternando i brani dei Joy Division ai cori della Repubblika di Mancunia, lo sguardo solidale e malinconico di Rodge Glass ci ricorda che alle spalle di ogni folgorante carriera ce ne sono altre migliaia che finiscono a pezzi, lasciando vuoti che non potranno più essere colmati.

15 settembre 2025

"DA SPORTSPAGES A GROUNDTASTIC PASSANDO PER LE PROGRAMME FAIRS" di Gianluca Ottone

Quando nelle ormai rare occasioni in cui incontro mio figlio (Natale, una manciata di giorni durante l’estate, sporadici ritorni in Italia per motivi lavorativi, mie saltuarie visite) capita di rimembrare episodi del passato e questo la dice lunga su quanto io sia ormai “anziano”…

Tra questi ricordi sovente si cade sui viaggi, ai tempi molto numerosi, che si facevano in Inghilterra con l’immancabile visita ad un nuovo stadio per una partita, già allora non importava la categoria ma il contesto, l’ambiente, la scoperta di una nuova area, di un nuovo territorio. Un giorno il figliolo mi raccontava del declino di Charing Cross Road, una delle vie più affascinante del centro di Londra, con l’infinito susseguirsi delle storiche librerie specializzate in testi usati.
Meravigliose nei freddi mesi invernali quando oltre al solito piacere di sfogliare testi con pagine ingiallite fornivano tepore grazie ai caminetti dove la carbonella sviluppava la fiamma, sembravano quasi tutte scorci di racconti Dickensiani.

Purtroppo ne sono rimaste poche mi diceva, alcune mestamente chiuse ed in cerca di qualche coraggioso affittuario visti i canoni mensili richiesti altre sostituite dai soliti kebab o Poke perché in questi tempi bui pare sopravviva solo più chi sforni cibo strano a qualsiasi ora.
Almeno ci fossero dei “chippies”, dei “greasy spoons” o dei “caffs”…
Però, mi ricordava il figliolo, che si riteneva fortunato di avere ancora visto e frequentato “Sportspages” che si trovava in una rientranza di Charing Cross Road.
Aaaahhhh….Sportspages….fondata nel 1985 da un neozelandese che viveva a Londra, tale John Gaustad, disperato perché non riusciva a trovare in tutta la Capitale dell’Impero una solo libreria che avesse libri sui suoi adorati All Blacks!
Così decise che un bookshop esclusivamente dedicato allo sport l’avrebbe aperto lui e ci sarebbe stato di tutto, dal calcio al rugby (union e league), al cricket, al badminton, all’hockey, alle arti marziali!!! Nessuno a Londra avrebbe più dovuto penare per trovare un volume che trattasse qualsiasi sport. Il successo fu notevole e divenne una sorta di meta di un pellegrinaggio per chiunque adorava il calcio britannico e qui trovava poco o nulla, chiaramente nell’era pre internet.
La prima volta che decisi di visitarlo ci misi del tempo per trovarlo…Si trovava in questa rientranza di Charing Cross Road, o meglio “off Charing Cross Road” come si dovrebbe dire correttamente ed aveva una piccola insegna e una vetrofania. Fu una folgorazione…ore spese a sfogliare tomi sulle storie dei singoli clubs, dall’Arsenal al Wycombe Wanderers, qui stava il bello…poi annuari, autobiografie, fanzines.
Era talmente fornito che non si poteva non sbirciare testi su rugby o cricket, anche solo per le meravigliose immagini che contenevano. Il problema semmai era quando si doveva decidere cosa acquistare…soprattutto negli anni in cui per avere una Sterlina bisognava sborsare 2.500 Lire…

Quindi iniziava la tragica e triste selezione che di norma mi vedeva sempre metter in borsa un libro, massimo due e una pila di fanzines… Eh si, le fanzines costavano poco e nel contempo erano affascinanti, ricche di chicche e soprattutto riflettevano il pensiero del tifoso sempre condito con molto umorismo, sagacia, critica feroce. Tutto bene fino a quando l’avvento di internet permise a chiunque, anche ad un abitante di una sperduta isola del Pacifico, di acquistare qualsiasi cosa senza muoversi dal divano.
Di conseguenza, diminuiva costantemente il numero di visitatori ma soprattutto di acquirenti, in più le nuove generazioni se ne fregavano del piacere di avere tra le mani un tomo.
Così, dopo avere addirittura aperto una filiale a Manchester, nel 2006 John Gaustad dovette arrendersi e chiuse tutto.

Non vi dico lo shock, quando, ignaro di questa tragedia, arrivai un giorno davanti alle vetrine di Sportspages e trovai tutto chiuso, solo un foglio sulla porta d’ingresso informava con sommo dispiacere ciò che era accaduto e si ringraziava tutti coloro, quindi me compreso, che avevano reso possibile questa stupenda avventura durata ben 21 anni.
Tra le fanzines che acquistavo da Sportspages c’era sempre una sorta di rivista molto artigianale che si occupava degli stadi britannici sia esistenti che scomparsi.

Si chiamava e si chiama tuttora Groundtastic, fondata nel 1995, vari contributori inviavano immagini e dettagli, tutto veniva dattiloscritto e fotocopiato ma il risultato finale era per me superbo perché potevo scoprire e conoscere impianti minori mai sentiti, con aneddoti storici, record di spettatori, le modifiche avvenute negli anni.
Aveva cadenza di quarterly quindi un quadrimestrale con uscite a marzo, giugno, settembre e dicembre. Le prime annate prevedevano una singolare copertina fatta di semplice carta colorata sulla quale compariva la foto adesiva a colori dello stadio protagonista principale del numero. Con il passare degli anni Groundtastic migliorò continuamente l’aspetto grafico sino a prendere le sembianze di una rivista vera e propria dove le immagini a colori crescevano e oltre agli stadi britannici si dedicava spazio ad impianti europei e successivamente anche extraeuropei.
Degni di nota i tre volumi della serie The Cemetery End che raccolgono praticamente quasi tutti i servizi pubblicati da Groundtastic nel corso della sua lunga storia.
Ora Groundtastic esiste sottoforma di sito e di pagina Facebook attraverso i quali si possono ordinare i nuovi numeri, quelli ancora disponibili del passato, oltre ai sopracitati volumi riepilogativi.

Proseguendo sul filone cartaceo mi pare doveroso citare il programma, l’official programme, l’organo di comunicazione di ogni club dalla massima divisione alle leghe dilettantistiche più sconosciute. Una tradizione, una usanza, un rito collettivo per il tifoso britannico. Tanto più doveroso parlarne in questi periodi in cui sono già diversi i club che hanno annunciato che non li pubblicheranno più…
Troppo alti i costi di stampa rispetto al numero delle vendite, il programma esce già vecchio ci dicono, lo smartphone informa il tifoso in tempo reale su tutto, il programma non viene più acquistato dai giovani e giovanissimi ormai disabituati a leggere “su carta” (io direi disabituati a leggere in generale, ma non solo loro), rimaneva solo più un’abitudine per tifosi più anziani o collezionisti.

Questa è un’altra batosta che aumenta il mio distacco verso il calcio moderno, io, che da avido accumulatore di carta in generale, ho messo da parte qualche centinaio di programmi, di tutte le categorie, della Nazionale, finali di Coppa, principalmente degli anni ’60 e ’70, più ovviamente tutto il resto cioè coccarde, distintivi, gagliardetti, annuari, oggetti vari.
Allora è bene, se non lo avete mai fatto, di recarvi almeno una volta nella vita ad una Football Programme Fair, si, una fiera di programmi calcistici.
Se ne tengono ancora moltissime da Plymouth su fino al Teesside, da minuscoli villaggi a locali messi a disposizione negli stadi, anche di massima serie.
Nei tanti luoghi che ho visitato durante i miei viaggi oltre Manica mi sono imbattuto in Fiere casualmente oppure mi recavo in località apposta perché sapevo che lì si svolgeva un evento del genere.
La mia preferita rimane sempre quella che si svolge nei locali forniti dalla chiesa di St. Stephen su Cromwell Road a Londra, due passi dalla fermata della Metropolitana di Gloucester Road, quattro passi da Earl’s Court.
Si scendono alcuni gradini, si pensa di finire in una cantina, invece si sbuca in un salone che la chiesa adibisce ad eventi, feste, ricorrenze, si paga un fee di 1 pound come ingresso e si spalanca un mondo meraviglioso fatto di tavoli ricoperti di scatole, scatoloni, scatoline pieni zeppi di programmi di ogni tipo ed era.
C’è il collezionista specializzato nel “pre-war”, quello che tratta solo Non League, chi solo finali di F.A. Cup o League Cup o F.A. Amateur Cup, chi propone solo programmi di determinati club, chi li divide per decenni.
In più di solito si trova memorabilia varia, dai distintivi alle figurine o cigarette-cards, autografi, press-photos originali.
Nella St. Stephen Hall, appunto il locale della chiesa che ospita il tutto, volontari mettono a disposizione tea and coffee, torte, sandwich, biscotti a prezzi popolari.

E se per caso stufi delle monotone, uniformate, senza più anima arene moderne fate un salto a est, a Dagenham, un tempo qui la Ford inglese aveva gli enormi stabilimenti produttivi che arrivarono ad impiegare più di 40.000 lavoratori.
Qui il Dagenham & Redbridge F.C. erede, in seguito a fallimenti e fusioni, di vari club dell’east end gioca a Victoria Road dove anche solo assistere ad un match in piedi appoggiati ad una crush-barrier nella popular terrace con la vecchia copertura sopra la testa merita il costo del biglietto.
Nel retro il van che sforna burgers o pies insieme a Bovril o tea e tra questa gradinata e la home end c’è una casetta prefabbricata che vende programmi di qualsiasi club e di qualsiasi periodo. Ce ne sono a centinaia, il tutto serve a dare una mano al club e a creare un angolo di paradiso per collezionisti o appassionati generici.

Anni fa un incendio distrusse parzialmente questo luogo straordinario e parte del materiale contenuto, una tragedia pensai quando lo venni a sapere. Nel giro di poche settimane il club fu inondato da programmi provenienti da ogni angolo d’Inghilterra, gente comune, tifosi di chissà quale squadra, collezionisti li inviarono in modo che questa tradizione non scomparisse e che si potesse rimettere in piedi il tutto.

12 settembre 2025

"T.H. LA STORIA DEL TOTTENHAM HOTSPUR" di Mauro Bolzoni & Matteo Grazzini (Urbone), 2018


Prefazione di Michele Plastino
Dal terreno spartano di Tottenham Marshes al tempio di Wembley attraverso 136 anni di storia fatti di grandi successi, molti rimpianti, campioni assoluti e manager innovativi. Da sempre il Tottenham Hotspur Football Club è uno degli emblemi del calcio d’Oltremanica: la candida maglia bianca, il “cockerel” con gli speroni, il fascino di White Hart Lane sono solo alcune delle caratteristiche della squadra orgoglio del nord di Londra. “T. H.”, primo e unico libro sulla storia del Tottenham in italiano, racconta più di un secolo di calcio inglese ed europeo parlando di studenti, amici, uomini, professionisti e allenatori che hanno fatto degli Spurs un club amato anche fuori dai confini britannici.

11 settembre 2025

"E' ACCADUTO TUTTO UNA DOMENICA MATTINA" di Francesco Caremani

È accaduto tutto una domenica mattina. Di quelle domeniche un po’ stanche, nell’attesa di andare a pranzo dai nonni e pronto per tifare, nel primo pomeriggio, la squadra del paese dove allora abitavo.
All’epoca i canali televisivi erano pochi, Sky era ancora nelle stelle e il calcio era soprattutto “90° minuto” e la “Domenica Sprint”, per la “Domenica Sportiva” avrei dovuto attendere ancora qualche anno, la davano troppo tardi e il lunedì mattina c’era la scuola.
Non so quanti se lo ricordano, ma è stata Tele 37, emittente toscana, a dare le prime gare di calcio inglese, intorno alle 11.30-12 della domenica mattina. Quella domenica in particolare ero riuscito a sgattaiolare nella sala di mia madre, terreno protetto, dove c’era il televisore a colori grande. Mi sistemai e feci il classico giro con il telecomando.
Quando m’imbattei in una partita di calcio. Non ricordo chi giocava e nemmeno il risultato, ma restai colpito da alcune cose in particolare. Innanzi tutto il pallone completamente bianco, eccezionale. Poi le maglie della Umbro. Lo stadio. L’ululato dei tifosi a ogni azione d’attacco. Il gioco semplice ma continuamente aggressivo dei giocatori in campo.
Per certi versi fu un colpo di fulmine, quel pallone bianco diventò un totem, tanto che in palestra, a scuola, adoravo giocare con i palloni della pallavolo, bianchi, di cuoio, un po’ più leggeri, ma così inglesi, almeno nel mio immaginario.
Da allora il calcio inglese è rimasto un amore forte, a volte nascosto dentro di me, per quel modo di fare football e di viverlo, fors’anche con quell’atteggiamento ossequioso per chi il calcio lo ha inventato prima degli altri.
A maggior ragione, però, le sfide Italia-Inghilterra, un po’ come Italia-Germania, le sentivo particolarmente e battere una squadra inglese era per me motivo di grande vanto e orgoglio. Ricordo ancora la vittoria del Genoa di Bagnoli all’Anfield Road di Liverpool con doppietta di Aguilera, anche se quel Liverpool era decisamente più scarso di quello di oggi e di quello degli anni Ottanta.
Ma c’è stato un momento che non scorderò mai. Tifoso della Juventus, un tempo sfegatato, seguivo con grande emozione la cavalcata dei bianconeri nella Coppa dei Campioni 1982-83. C’era aria di vittoria finale, la sensazione che quella Juventus spettacolo potesse vincere una coppa, per i colori bianconeri, maledetta. Il sorteggio per i quarti di finale mise di fronte Platini & compagni ai campioni d’Europa in carica, l’Aston Villa.
Prima di allora non conoscevo Birmingham e non sapevo com’erano le maglie di quella squadra. Ricordo la sera dell’andata in Inghilterra, la partita doveva essere trasmessa da Tmc, ma nel ritardo dell’eurovisione il Tg1 dette in anteprima il vantaggio della Juve, colpo di tacco di Bettega, crosso di Cabrini, Rossi di testa gol. Erano i giocatori campioni del mondo, era l’Italia che batteva l’Inghilterra sul proprio terreno, incredibile.
Quella che ricordo è una delle più belle partite mai viste in televisione, alla fine vinsero i bianconeri per 2-1, con uno strepitoso gol di Boniek in classico contropiede, all’italiana. 
Nel ritorno il 3-1 della Juventus fu addirittura schiacciante. Ma da allora non ho mai dimenticato Gary Shaw, vincitore anche di un Bravo, il premio indetto dal “Guerin Sportivo” per il migliore Under 21 delle coppe europee. Nemmeno la maglia ho dimenticato e me la sono anche comprata, una Umbro, così come quella del Newcastle United, bellissima.
Se c’è una squadra che mi fa vibrare quando guardo il calcio inglese, da allora, è sempre l’Aston Villa e quello stadio catino di Birmingham del quale non ho mai ricordato il nome.
E i colori di quella maglia, celeste e granata, un’accoppiata che ancora mi affascina nel mio lavoro di giornalista, in particolar modo quando si tratta di magazine patinati.
Poi ci fu l’Heysel… Ma questa è un’altra storia, una storia che ho raccontato in un libro importante.
Francesco Caremani, da "UK Football please" (dicembre 2005)

10 settembre 2025

"FOOTBALL STORIES" di Walter Marcelli (Book Sprint), 2025

Un viaggio che parte dalle origini del calcio, dov’è nato ed è stato codificato; dove questa passione ha preso vita e si è alimentata e da lì si è diffusa in ogni angolo del mondo. Quarantacinque storie, le tappe di questo viaggio che inizia sulle polverose strade della Gran Bretagna del XIX secolo, nei primi stadi, quando il pallone era un macigno e si giocava su campi impraticabili, dove non si risparmiavano colpi al limite del regolamento e la tecnica era un optional. Un viaggio per conoscere calciatori, squadre e momenti passati spesso in secondo piano, ma che raccontano l’essenza di ciò che è il calcio. Storie di vittorie e di sconfitte. Imprese che hanno segnato una sorta di momentaneo riscatto per comunità che non avevano altro per cui gioire e in cui credere. Un viaggio che arriva sino all’avvento delle grandi piattaforme televisive, prima che ricchi oligarchi e fondi d’investimento prendessero il posto delle persone, stravolgendo troppo spesso l’essenza stessa del calcio.

9 settembre 2025

"GASCOIGNE. GENIO & SREGOLATEZZA" di Luca Manes

























“Paul Gascoigne è l’unica star di livello mondiale prodotta dall’Inghilterra dal 1966 ad oggi”.
Lo diceva Alex Ferguson – che di giocatori di un certo spessore tecnico ne ha allenati un bel po’ – forse c’è da credergli. Ovviamente Gazza rimane uno dei grandi rimpianti dello scozzese, che un tentativo di metterlo sotto contratto lo aveva anche fatto. “Annoverandolo nella mia squadra sono sicuro che sarei riuscito a fare qualcosa di buono per lui”
E anche in proposito non sussistono molti dubbi. Chissà, forse Sir Alex sarebbe riuscito a imbrigliarlo a dovere, o quanto meno a mettere un freno ai suoi eccessi, come fece con un’altra testa calda quale Eric Cantona.
Chi però deve rimpiangere ancor di più il mancato approdo a una squadra di altissimo livello come lo United è proprio lui, quel mattacchione di Gascoigne.
Troppi gli episodi che lo hanno penalizzato, quasi tutti da imputare alla sua condotta non proprio irreprensibile, dentro ma soprattutto fuori dal campo. Eppure che fosse un predestinato si capì fin dagli esordi nel Newcastle United, la sua squadra del cuore, dove formava coppia con il brasiliano Mirandinha e deliziava le gradinate del St. James’ Park con colpi di genio assoluti. Personaggio lo è stato fin dalla prima ora e gli aneddoti su di lui si sprecavano già quando vestiva la maglia bianconera. Tanto per capirci, quando i tifosi avversari gli davano del ciccione e gli tiravano le barrette di cioccolato, lui rispondeva mangiandosele!

Nel 1988 un Tottenham quanto mai ambizioso, allenato da Terry Venables e in procinto di strappare Gary Lineker al Barcellona, superò la concorrenza del Manchester United e fece sì che Gazza diventasse il primo inglese a doversi accollare l’ingombrante etichetta di giocatore da oltre due milioni di sterline. Con gli Spurs giunse la definitiva consacrazione in patria, ma a livello internazionale ci pensò Italia 90 a farlo entrare nell’esclusivo club dei fuoriclasse assoluti. Gascoigne quel torneo lo giocò da protagonista. Le sue lacrime durante la semifinale persa contro la Germania commossero il Paese, ma non bisogna scordare che il quarto posto raggiunto a quella Coppa del Mondo è tuttora il miglior risultato dei Tre Leoni a un mondiale, eccezion fatta per il trionfo del 1966. Finalmente nel firmamento delle stelle globali si poteva annoverare un calciatore inglese, che riusciva a coniugare alla perfezione estro e fantasia di stampo latino con grinta e determinazione, le caratteristiche tipiche del calcio britannico.

All’epoca la nostra bistrattata Serie A era ritenuta, a ragione, il campionato più bello e competitivo del Pianeta, la destinazione più ambita di tutti i campioni. Gazza non fece eccezione, meritandosi le attenzioni della Lazio cragnottiana. Peccato che il ragazzo, poche settimane prima di trasferirsi a Roma, nei primi minuti della finale di FA Cup contro il Nottingham pensò bene di commettere un fallo da indagine di Scotland Yard, procurandosi la rottura dei legamenti del ginocchio destro. Singolare il fatto che Gazza si accorse della reale entità del suo infortunio qualche minuto dopo essersi pure schierato in barriera e aver assistito al vantaggio del Forest… Gli Spurs finirono per vincere quella coppa, portata di fretta e furia in ospedale dal povero Paul per rendere partecipe della festa anche lui. Quel trofeo, l’unico vinto su suolo inglese, portava anche la sua firma. Se nell’atto conclusivo era stato quanto meno sciagurato, in semifinale contro l’Arsenal aveva incantato Wembley, segnando una punizione alla Zico.
I nefasti effetti dell’entrata assassina su Gary Charles valsero a Gascoigne un anno di inattività e alla Lazio un cospicuo sconto sul contratto di acquisto dal Tottenham (da 5,5 milioni di sterline si passò a 3,5).
Con i bianco-celesti, a causa di altri problemi fisici, Gazza giocò poco, ma tutto sommato bene. Nei minuti finali di un derby segnò un goal di testa sotto la Curva Nord che accrebbe in maniera esponenziale la sua posizione di idolo assoluto della tifoseria laziale, che del nativo di Gateshead amava il genio quanto la sregolatezza, tante le sue goliardate nel periodo romano, con rutti davanti alle telecamere e vagonate di scherzi ai compagni di squadra. 

A metà degli anni Novanta, però, colui che Diego Armando Maradona non tanto tempo prima aveva designato come suo erede naturale si ritrovò con un fisico pieno di acciacchi (un altro infortunio molto serio lo rimediò in allenamento fratturandosi tibia e perone in un contrasto con Alessandro Nesta) e un bisogno urgente di rivitalizzare una carriera in apparente declino accasandosi ai Rangers. 
Una carriera purtroppo già condizionata in maniera pesante da episodi extra-calcistici (botte alla sua fidanzata e qualche ubriachezza molesta di troppo). A differenza della versione attuale, agonizzante e sull’orlo del fallimento, la compagine di Glasgow all’epoca era una delle corazzate del calcio europeo, che con Gazza si aggiudicò due dei nove campionati consecutivi fra il 1989 e il 1997. Nel mentre si ricordano altre prestazioni da incorniciare in nazionale durante l’Europeo casalingo del 1996 e un’altra delusione nella semifinale persa ancora ai rigori contro la solita Germania. La marcatura nel derby contro la Scozia – sombrero a Colin Hendry e stoccata al volo per trafiggere Andy Goram – è stato forse l’ultimo lampo di classe ad abbagliare la platea internazionale. Durante il primo Old Firm del 1998 rispose con un “gesto settario”, ovvero mimando di suonare il flauto delle marce orangiste protestanti, a una provocazione dei tifosi del Celtic. Apriti cielo. Dopo minacce di morte e reprimende della Scottish Football Association, decise lasciare Glasgow per riavvicinarsi a casa.

A Middlesbrough arrivarono le ultime perle di calcio di un giocatore già assalito dai demoni dell’alcool e di chissà cos’altro, che alla notizia dell’esclusione dalla rosa dell’Inghilterra per i mondiali francesi fece a pezzi una camera d’albergo. In seguito le poche presenze raccattate tra Everton, Burnley, i cinesi del Gansu Tianma e Boston United sembrarono solo l’estremo tentativo di posticipare un ritiro ormai inevitabile, coinciso con la stagione 2004/05.
Sparito dal rettangolo da gioco, Gazza continuò a essere una presenza fissa sui tabloid. Colpa dei suoi eccessi, delle incredibili dosi di alcool trangugiate (per mesi si scolò una bottiglia di whisky al giorno) e delle risse, degli incidenti di macchina e delle strisce di cocaina, dei guai con le giustizia e di terapie riabilitative che, a suo dire, lo hanno quasi spedito all’altro mondo. La sua confusione mentale era così estrema che quando il Barnsley sconfisse il Chelsea nella FA Cup del 2008 lui decise di festeggiare alla grande, per “rendere omaggio” alla sua ex squadra. Peccato che con i Tykes non avesse mai giocato e che semplicemente avesse confuso Barnsley (città dello Yorkshire) con Burnley (che si trova in Lancashire e con il cui club aveva avuto una fugace apparizione nel 2002). Ma di storie anche meno amene ce ne sarebbero da raccontare così tante da riempire un’enciclopedia.

Da questo punto di vista non aveva proprio nulla da invidiare al suo mentore Maradona, né al gruppo di giocatori talentuosi ma scavezzacollo che a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta furono bollati dalla stampa con l’appellativo di Mavericks (letteralmente, vitelli senza marchiatura). “Irregolari” che tra le loro fila ospitavano di diritto una celebrità come George Best, del quale in fatto di frequentazioni femminili e predisposizione alcolica si sa un po’ tutto. Non che i vari Stan Bowles, Rodney Marsh, Peter Osgood e Frank Worthington fossero da meno nell’approccio “molto spensierato” al football. In comune questi ultimi avevano tutti un intenso ostracismo da parte dei responsabili tecnici della nazionale inglese. Le loro presenze con la nazionale, infatti, furono scarsissime, un po’ per i loro caratteri alquanto complicati, un po’ perché espressione di un calcio fantasioso e anticonformista che in terra d’Albione non era troppo apprezzato. Lo stesso Bobby Charlton, l’ultimo campionissimo inglese prima di Gascoigne, è rinomato per la concretezza e il suo fiuto del goal, non esattamente per invenzioni degne del suo compagno di squadra dalla chioma fluente e dal tocco vellutato (Best, per l’appunto). Quanto meno Gazza con i Tre Leoni ha messo insieme 57 presenze e 10 reti e se ne fosse stato per i problemi fisici e le mattate varie di caps ne sarebbero arrivati ancora di più. Un chiaro segnale di come pian piano il football d’oltre Manica stia cambiando. Il problema è che al momento gente con la fantasia e i piedi di Gascoigne in Inghilterra non se ne trovano. L’unico che forse può essergli accostato è Wayne Rooney. Il soprannome è simile (Wazza), le marachelle non mancano (anzi), a essere differente è il rendimento in nazionale (troppi i suoi flop durante le grandi competizioni internazionali) e soprattutto un dettaglio non proprio insignificante: ad allenare il ragazzo di Croxteth è stato Alex Ferguson.
di Luca Manes

5 settembre 2025

"ADDIO WEST HAM: Il nostro ultimo anno ad Upton Park" di Roberto Gotta (Indiscreto), 2016

L'ultima stagione del West Ham nel suo storico Boleyn Ground, raccontata da un giornalista che l'ha vissuta nel modo migliore possibile. Quindi non dalla tribuna stampa o intervistando i calciatori, come in oltre trent'anni di lavoro, ma da fedele spettatore con tanto di abbonamento 2015-16 (Bobby Moore Stand Upper, fila S, posto 34). L’esplorazione dell’East End e del mondo claret&blue per spiegare l'evoluzione del calcio inglese: sospeso fra nostalgia ed esigenze di marketing, localismo ed internazionalizzazione, valori umani e showbusiness. Il tutto con il filtro della nostalgia per un mondo che in alcuni anni ha raggiunto la perfezione. Un passato di stadi costruiti fra le case, un passato impresso in modo quasi fisico nella memoria e nella pelle, un passato che rappresenta l'essenza più vera e indimenticabile del calcio inglese: le maglie senza sponsor, i calciatori e gli spettatori quasi tutti britannici, l'assenza di protagonismo sugli spalti. Passato ma anche tanto presente, il West Ham e la Premier League di oggi, con uno sguardo preoccupato al futuro dell’Inghilterra non soltanto calcistica. Più tante storie riguardanti una Londra popolare e poco conosciuta, lontana dalle rotte turistiche: città impossibile da spiegare in maniera definitiva, da cui però tutti sono inesorabilmente attratti. Non soltanto le migliaia di tifosi italiani degli Hammers, che in questo libro ritroveranno però le sensazioni e la passione di tante trasferte.
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Scrivere questo libro è stato molto semplice e al tempo stesso infinitamente difficile. La semplicità deriva dalla sua natura di racconto di viaggio, la complicazione viene invece dalla necessità, per me assoluta e totalizzante, di lasciare qualcosa di concreto, di leggibile anche a distanza di tempo e soprattutto di non banale o scontato.
Da quando esiste il web chiunque può scrivere libri e chiunque pubblica libri, spesso senza neanche accertarne il valore. Con una cospicua serie di copia-incolla si possono mettere assieme la biografia di un calciatore o il ritratto di una squadra senza mai aver messo piede nel loro stadio, aggiungendo poi qualche luogo comune e cialtroneggiando. Se dunque già prima del web il mio atteggiamento di base era quello di vedere e riferire, togliendo di mezzo le mediazioni altrui quando possibile, da metà anni Novanta in poi tutto si è accentuato al punto che ormai, fosse per me, parlerei solo di ciò che ho visto con i miei occhi dal vivo.
Le necessità e le modalità del lavoro ufficiale però spesso penalizzano questa mentalità. E alla fine bisogna arrangiarsi da soli, nei propri spazi e momenti. È quello che ho fatto, abbonandomi al West Ham per la stagione 2015-16 e seguendo dal vivo tutte le sue partite di Premier League, tranne una. Una stagione particolare, ovviamente: l’ultima al Boleyn Ground, o Upton Park, 111 anni dopo la prima, iniziata l’1 settembre 1904 in occasione di una gara contro il Millwall che stava già diventando la grande rivale locale. In tutto l’anno calcistico ho saltato appunto soltanto la partita del 14 settembre, contro il Newcastle United, per motivi di lavoro. Dunque ho visto 18 delle 19 partite in casa degli Irons: esperienza totalizzante e indimenticabile, frenetica e al tempo stesso rilassante. Delirio e poesia, anche se una poesia graffiata con il punteruolo sui mattoni, sul cemento, sullo sbrecciato delle strade dell’East End che ho cercato di percorrere come non ho mai fatto con alcun altro ambiente in vita mia, nemmeno nel quartiere in cui sono cresciuto.
Perché il racconto non è quello di ogni partita ma quello di ogni trasferta. Ho provato ad avvicinarmi al Boleyn Ground da tutte le direzioni possibili annusando in mattinata, o in serata, luoghi collegati alla storia del club quando ancora si chiamava Thames Ironworks e aveva tutt’altro scopo nella vita. Scherzando, ho voluto riproporre quell’antica e orrenda espressione usata da cronisti poveri di fantasia: sono arrivato o mi sono avvicinato allo stadio con ogni mezzo, comprese funivie e barche. Ho toccato con mano – letteralmente – monumenti e abbracciato cancelli, ho indossato maglie che giacevano da anni in un cassetto e ho quasi perso l’equilibrio quando al terzo gol di Andy Carroll contro l’Arsenal il signore seduto dietro di me si è sporto in avanti per festeggiare.
È un libro, questo, scritto non da giornalista: quello che ho fatto e i posti che ho visitato erano alla portata di tutti. Esempio: non ho cercato di parlare con giocatori del West Ham perché avrei avuto le facilitazioni e la corsia preferenziale del cronista. Ma è anche un libro scritto da un non-tifoso: da ormai parecchi anni ho messo in un angolo la preferenza emotiva per questo o quello. Avendo un ruolo da commentatore non posso permettermi di tifare, ma non è solo per questo che non tifo. Sul calcio inglese e sullo sport americano mi riservo infatti il diritto di godermi quello che vedo senza farmi condizionare da gelosie, antipatie o ripicche. L’ho già scritto molte volte e mi ripeto: se vado a Bramall Lane e rimango ammaliato dall’ambiente dello Sheffield United, perché non provare le stesse sensazioni a Hillsborough a vedere il Wednesday? Perché devo odiare gli uni se mi piacciono gli altri, scimmiottando – da persona nata e cresciuta a migliaia di chilometri di distanza, in ambienti totalmente diversi – rivalità locali che nascono da età, sensazioni, ambiti a noi sconosciuti? Libertà di pensiero a chiunque, ma spesso mi sembra che ci sia molto di prefabbricato nelle diatribe tra tifosi di club di altre nazioni, quasi che si dovesse seguire un manuale di comportamento e non ciò che si prova realmente. Fare poi il tifoso per dovere, in questo anno, sarebbe stato anche offensivo verso i tifosi veri, quelli cresciuti lì intorno, dediti da sempre alla causa, gente che magari si rovina la serata – spero non oltre, altrimenti diventa ossessione – se la propria squadra perde.
Sono un non-tifoso che ha però sempre avuto simpatia per i colori claret&blue, anche per la loro assenza in altri campionati, e per lo stadio, al punto da poter dire che non avrei fatto altrettanto per un’ultima stagione al Selhurst Park – non di sicuro da quando il Palace ha tifosi che scimmiottano tristemente quelli europei – o a Stamford Bridge. Un non-tifoso che è rimasto affascinato in modo definitivo dall’estetica di alcune maglie, avvolte nel cuore prima ancora di essere state avvolte dalla memoria. Quelle dal 1976 al 1981, ad esempio. Compresa la migliore di tutte, almeno per il mio gusto estetico: la maglia del West Ham per la finale di FA Cup del 1980, vinta 1-0 contro l’Arsenal, è la più bella mai indossata da una squadra di calcio.Tra i primi posti di questa classifica, che in realtà non è tale dato che detesto graduatorie basate su sensazioni, c’è quella proprio dell’Arsenal nella medesima partita e dunque si capisce come mai il mio cervello vada in cortocircuito e trasmetta messaggi disturbati quando vedo foto o immagini di quella partita. Così come quando capito davanti a foto di stadi inglesi degli anni Sessanta o Settanta: basta un particolare per capire se si è a Portman Road o a Goodison Park, un particolare che può anche essere architettonicamente non esaltante ma che rendeva comunque unico quel luogo. Inutile dire che su entrambi i piani rimpiango il passato, nel quale cerco spesso un disperato rifugio dal ribrezzo del presente. Un ribrezzo che parte da basi molto diverse, anzi opposte a quelle di chi solitamente protesta contro il calcio moderno: non ho nulla contro il calcio delle televisioni in sé, ma ho molto contro il calcio aperto tutto l’anno, contro le ossessioni del mercato e chi le alimenta, contro la globalizzazione del tifo che rende tutto indistinto e fa entrare nella famiglia gli ignoranti e i cafoni.
È un paradosso, questo, e lo sento al cento per cento: lo stadio inglese ideale, nella mia visione, è quello al cui interno siedono solo inglesi, anzi solo tifosi della città o del circondario in cui ha sede la squadra, magari provenienti da altre zone in cui si siano trasferiti. Ma nessun altro, dunque nemmeno io. Secondo me nessuno di noi, per quanto si atteggi, può comprendere in fondo le sensazioni, la mentalità, i giochi di parole, i sentimenti di chi intorno a una squadra o a uno stadio è cresciuto. Per questo motivo durante la stagione 2015-16 ho contribuito a rendere peggiore il Boleyn Ground, sedendo al posto di un residente locale – o para-locale – che magari avrebbe cantato di più, avrebbe assorbito, rielaborato e trasferito le sensazioni e le battute degli spettatori circostanti, avrebbe costituito una cellula di passaggio e trasmissione più immediati di cosa voglia dire tifare West Ham. Ed è vero che in realtà intorno a me, dal 15 agosto al 10 maggio, solo in 6 o 7 hanno fatto partire cori o si sono fatti realmente sentire durante la partita, per cui alla fine un East Ender (londinese dell’East End) silenzioso equivale a uno straniero silenzioso, ma pur avendola voluta e adorata ho sentito in questa mia partecipazione di nove mesi (toh!) alle sorti di uno stadio, più che di una squadra, quasi una contaminazione. Teoria, lo so, non comune e forse esagerata, ma lasciando perdere il tragico discorso hooligan, rimpianti a quanto pare soprattutto da chi idealizza la violenza e non ci è mai stato immerso – io sì, e non li rimpiango proprio -, quando vedo le masse omogenee ed ondeggianti sugli spalti degli anni Settanta vedo un mondo che ho amato, che ha dato un segno alla mia esistenza più che al mio lavoro e che però ora è sparito, così come i palloni bianchi Mitre o Minerva, i gol festeggiati con una semplice stretta di mano, le lettere dell’alfabeto sulla recinzione, i cartelloni pubblicitari Everard Ovenden Papers ed Esso, le musichette anche ingenue prima del calcio d’inizio.
In questa stagione al Boleyn Ground sono andato a rendere omaggio allo stadio ma anche, dunque, a cercare una sorta di immersione nel passato, cercando di coglierne elementi che altrove sono già scomparsi e ora scompariranno anche al West Ham United. Club che diventa altro, pur restando se stesso. È avanzamento e progresso, non è un delitto anche se è ovviamente un’imposizione. Ma è solo una delle tante, nella vita delle persone.
P.S. L’ultima parte di questa introduzione l’ho scritta nella stanza 312 del West Ham United Hotel, l’albergo ospitato dentro il Boleyn Ground. C’ero già stato in passato e ho voluto tornare per un ultimo saluto. Molti di voi lo sanno già: le stanze dell’hotel nei giorni di partita devono – dovevano… – essere sgomberate entro le 8, perché lo staff del club le trasformava in meno di un’ora nei salottini di lusso dai quali aziende e vip paganti potevano assistere alla partita. La porta-finestra, con vista sul campo, si apre direttamente sui seggiolini imbottiti con prospettiva perfetta sul prato, non troppo alti né troppo bassi. È mio compito e dovere dare corpo fisico alle sensazioni che si provano, ma quella di poter leggere la sera tardi grazie alle luci dello stadio accese fino a mezzanotte, insieme a quella di alzarsi al mattino e vedere come prima cosa il campo, faccio davvero fatica a raccontarle
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LA GAZZETTA DELLO SPORT – L’East End londinese, l’Aunt Sally’s Caffè e la sua monumentale colazione, il venditore di programmi, il Nathan’s e la sua ‘pie’ all’anguilla, il Boleyn Pub, il Queen’s market, gli odori di fritto e poi, tra le case, piano piano, i primi squarci dello stadio, il Boleyn Ground. In ‘Addio West Ham’ (ed. Indiscreto, pag. 324, euro 18,90) Roberto Gotta ci accompagna per una stagione intera a Upton Park, lo stadio degli Hammers che dopo 112 anni di onorato servizio ha chiuso i battenti. Giornalista di Fox Sports, già autore di un libro di culto per gli amanti del calcio inglese, ‘Le reti di Wembley’, purtroppo mai più ristampato, Gotta ha pensato bene di abbonarsi al West Ham per l’ultima stagione nel mitico impianto. Ha visto tutte le partite in casa della squadra, tranne quella col Newcastle, e ce le ha raccontate in un diario che è un tuffo nelle tradizioni e nella storia del calcio d’Oltremanica. Ma non di solo calcio si parla, perché il libro è un viaggio nel quartiere del club, ogni partita un itinerario diverso, ogni tappa un percorso a caccia dei luoghi della memoria, girovagando in una Londra che meno turistica non si può. E ogni volta inseguendo il fiume di maglie ‘claret&blue’, quell’accoppiata unica di colori. marchio di fabbrica della squadra che fu di Bobby Moore. Qui a parlare non sono le star, ma il 65enne vicino di posto dell’autore con la faccia di uno che “deve averne viste parecchie”, il gestore del pub e lo storico venditore di una fanzine che chiuderà con la morte di Upton Park. Domina su tutto una quasi commovente nostalgia per il calcio inglese che fu. (Articolo di Paolo Avanti, pubblicato sulla Gazzetta dello Sport di martedì 20 dicembre 2016)
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