13 luglio 2024

"ADDIO WEST HAM: Il nostro ultimo anno ad Upton Park" di Roberto Gotta (Indiscreto), 2016

L'ultima stagione del West Ham nel suo storico Boleyn Ground, raccontata da un giornalista che l'ha vissuta nel modo migliore possibile. Quindi non dalla tribuna stampa o intervistando i calciatori, come in oltre trent'anni di lavoro, ma da fedele spettatore con tanto di abbonamento 2015-16 (Bobby Moore Stand Upper, fila S, posto 34). L’esplorazione dell’East End e del mondo claret&blue per spiegare l'evoluzione del calcio inglese: sospeso fra nostalgia ed esigenze di marketing, localismo ed internazionalizzazione, valori umani e showbusiness. Il tutto con il filtro della nostalgia per un mondo che in alcuni anni ha raggiunto la perfezione. Un passato di stadi costruiti fra le case, un passato impresso in modo quasi fisico nella memoria e nella pelle, un passato che rappresenta l'essenza più vera e indimenticabile del calcio inglese: le maglie senza sponsor, i calciatori e gli spettatori quasi tutti britannici, l'assenza di protagonismo sugli spalti. Passato ma anche tanto presente, il West Ham e la Premier League di oggi, con uno sguardo preoccupato al futuro dell’Inghilterra non soltanto calcistica. Più tante storie riguardanti una Londra popolare e poco conosciuta, lontana dalle rotte turistiche: città impossibile da spiegare in maniera definitiva, da cui però tutti sono inesorabilmente attratti. Non soltanto le migliaia di tifosi italiani degli Hammers, che in questo libro ritroveranno però le sensazioni e la passione di tante trasferte.
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Scrivere questo libro è stato molto semplice e al tempo stesso infinitamente difficile. La semplicità deriva dalla sua natura di racconto di viaggio, la complicazione viene invece dalla necessità, per me assoluta e totalizzante, di lasciare qualcosa di concreto, di leggibile anche a distanza di tempo e soprattutto di non banale o scontato.
Da quando esiste il web chiunque può scrivere libri e chiunque pubblica libri, spesso senza neanche accertarne il valore. Con una cospicua serie di copia-incolla si possono mettere assieme la biografia di un calciatore o il ritratto di una squadra senza mai aver messo piede nel loro stadio, aggiungendo poi qualche luogo comune e cialtroneggiando. Se dunque già prima del web il mio atteggiamento di base era quello di vedere e riferire, togliendo di mezzo le mediazioni altrui quando possibile, da metà anni Novanta in poi tutto si è accentuato al punto che ormai, fosse per me, parlerei solo di ciò che ho visto con i miei occhi dal vivo.
Le necessità e le modalità del lavoro ufficiale però spesso penalizzano questa mentalità. E alla fine bisogna arrangiarsi da soli, nei propri spazi e momenti. È quello che ho fatto, abbonandomi al West Ham per la stagione 2015-16 e seguendo dal vivo tutte le sue partite di Premier League, tranne una. Una stagione particolare, ovviamente: l’ultima al Boleyn Ground, o Upton Park, 111 anni dopo la prima, iniziata l’1 settembre 1904 in occasione di una gara contro il Millwall che stava già diventando la grande rivale locale. In tutto l’anno calcistico ho saltato appunto soltanto la partita del 14 settembre, contro il Newcastle United, per motivi di lavoro. Dunque ho visto 18 delle 19 partite in casa degli Irons: esperienza totalizzante e indimenticabile, frenetica e al tempo stesso rilassante. Delirio e poesia, anche se una poesia graffiata con il punteruolo sui mattoni, sul cemento, sullo sbrecciato delle strade dell’East End che ho cercato di percorrere come non ho mai fatto con alcun altro ambiente in vita mia, nemmeno nel quartiere in cui sono cresciuto.
Perché il racconto non è quello di ogni partita ma quello di ogni trasferta. Ho provato ad avvicinarmi al Boleyn Ground da tutte le direzioni possibili annusando in mattinata, o in serata, luoghi collegati alla storia del club quando ancora si chiamava Thames Ironworks e aveva tutt’altro scopo nella vita. Scherzando, ho voluto riproporre quell’antica e orrenda espressione usata da cronisti poveri di fantasia: sono arrivato o mi sono avvicinato allo stadio con ogni mezzo, comprese funivie e barche. Ho toccato con mano – letteralmente – monumenti e abbracciato cancelli, ho indossato maglie che giacevano da anni in un cassetto e ho quasi perso l’equilibrio quando al terzo gol di Andy Carroll contro l’Arsenal il signore seduto dietro di me si è sporto in avanti per festeggiare.
È un libro, questo, scritto non da giornalista: quello che ho fatto e i posti che ho visitato erano alla portata di tutti. Esempio: non ho cercato di parlare con giocatori del West Ham perché avrei avuto le facilitazioni e la corsia preferenziale del cronista. Ma è anche un libro scritto da un non-tifoso: da ormai parecchi anni ho messo in un angolo la preferenza emotiva per questo o quello. Avendo un ruolo da commentatore non posso permettermi di tifare, ma non è solo per questo che non tifo. Sul calcio inglese e sullo sport americano mi riservo infatti il diritto di godermi quello che vedo senza farmi condizionare da gelosie, antipatie o ripicche. L’ho già scritto molte volte e mi ripeto: se vado a Bramall Lane e rimango ammaliato dall’ambiente dello Sheffield United, perché non provare le stesse sensazioni a Hillsborough a vedere il Wednesday? Perché devo odiare gli uni se mi piacciono gli altri, scimmiottando – da persona nata e cresciuta a migliaia di chilometri di distanza, in ambienti totalmente diversi – rivalità locali che nascono da età, sensazioni, ambiti a noi sconosciuti? Libertà di pensiero a chiunque, ma spesso mi sembra che ci sia molto di prefabbricato nelle diatribe tra tifosi di club di altre nazioni, quasi che si dovesse seguire un manuale di comportamento e non ciò che si prova realmente. Fare poi il tifoso per dovere, in questo anno, sarebbe stato anche offensivo verso i tifosi veri, quelli cresciuti lì intorno, dediti da sempre alla causa, gente che magari si rovina la serata – spero non oltre, altrimenti diventa ossessione – se la propria squadra perde.
Sono un non-tifoso che ha però sempre avuto simpatia per i colori claret&blue, anche per la loro assenza in altri campionati, e per lo stadio, al punto da poter dire che non avrei fatto altrettanto per un’ultima stagione al Selhurst Park – non di sicuro da quando il Palace ha tifosi che scimmiottano tristemente quelli europei – o a Stamford Bridge. Un non-tifoso che è rimasto affascinato in modo definitivo dall’estetica di alcune maglie, avvolte nel cuore prima ancora di essere state avvolte dalla memoria. Quelle dal 1976 al 1981, ad esempio. Compresa la migliore di tutte, almeno per il mio gusto estetico: la maglia del West Ham per la finale di FA Cup del 1980, vinta 1-0 contro l’Arsenal, è la più bella mai indossata da una squadra di calcio.Tra i primi posti di questa classifica, che in realtà non è tale dato che detesto graduatorie basate su sensazioni, c’è quella proprio dell’Arsenal nella medesima partita e dunque si capisce come mai il mio cervello vada in cortocircuito e trasmetta messaggi disturbati quando vedo foto o immagini di quella partita. Così come quando capito davanti a foto di stadi inglesi degli anni Sessanta o Settanta: basta un particolare per capire se si è a Portman Road o a Goodison Park, un particolare che può anche essere architettonicamente non esaltante ma che rendeva comunque unico quel luogo. Inutile dire che su entrambi i piani rimpiango il passato, nel quale cerco spesso un disperato rifugio dal ribrezzo del presente. Un ribrezzo che parte da basi molto diverse, anzi opposte a quelle di chi solitamente protesta contro il calcio moderno: non ho nulla contro il calcio delle televisioni in sé, ma ho molto contro il calcio aperto tutto l’anno, contro le ossessioni del mercato e chi le alimenta, contro la globalizzazione del tifo che rende tutto indistinto e fa entrare nella famiglia gli ignoranti e i cafoni.
È un paradosso, questo, e lo sento al cento per cento: lo stadio inglese ideale, nella mia visione, è quello al cui interno siedono solo inglesi, anzi solo tifosi della città o del circondario in cui ha sede la squadra, magari provenienti da altre zone in cui si siano trasferiti. Ma nessun altro, dunque nemmeno io. Secondo me nessuno di noi, per quanto si atteggi, può comprendere in fondo le sensazioni, la mentalità, i giochi di parole, i sentimenti di chi intorno a una squadra o a uno stadio è cresciuto. Per questo motivo durante la stagione 2015-16 ho contribuito a rendere peggiore il Boleyn Ground, sedendo al posto di un residente locale – o para-locale – che magari avrebbe cantato di più, avrebbe assorbito, rielaborato e trasferito le sensazioni e le battute degli spettatori circostanti, avrebbe costituito una cellula di passaggio e trasmissione più immediati di cosa voglia dire tifare West Ham. Ed è vero che in realtà intorno a me, dal 15 agosto al 10 maggio, solo in 6 o 7 hanno fatto partire cori o si sono fatti realmente sentire durante la partita, per cui alla fine un East Ender (londinese dell’East End) silenzioso equivale a uno straniero silenzioso, ma pur avendola voluta e adorata ho sentito in questa mia partecipazione di nove mesi (toh!) alle sorti di uno stadio, più che di una squadra, quasi una contaminazione. Teoria, lo so, non comune e forse esagerata, ma lasciando perdere il tragico discorso hooligan, rimpianti a quanto pare soprattutto da chi idealizza la violenza e non ci è mai stato immerso – io sì, e non li rimpiango proprio -, quando vedo le masse omogenee ed ondeggianti sugli spalti degli anni Settanta vedo un mondo che ho amato, che ha dato un segno alla mia esistenza più che al mio lavoro e che però ora è sparito, così come i palloni bianchi Mitre o Minerva, i gol festeggiati con una semplice stretta di mano, le lettere dell’alfabeto sulla recinzione, i cartelloni pubblicitari Everard Ovenden Papers ed Esso, le musichette anche ingenue prima del calcio d’inizio.
In questa stagione al Boleyn Ground sono andato a rendere omaggio allo stadio ma anche, dunque, a cercare una sorta di immersione nel passato, cercando di coglierne elementi che altrove sono già scomparsi e ora scompariranno anche al West Ham United. Club che diventa altro, pur restando se stesso. È avanzamento e progresso, non è un delitto anche se è ovviamente un’imposizione. Ma è solo una delle tante, nella vita delle persone.
P.S. L’ultima parte di questa introduzione l’ho scritta nella stanza 312 del West Ham United Hotel, l’albergo ospitato dentro il Boleyn Ground. C’ero già stato in passato e ho voluto tornare per un ultimo saluto. Molti di voi lo sanno già: le stanze dell’hotel nei giorni di partita devono – dovevano… – essere sgomberate entro le 8, perché lo staff del club le trasformava in meno di un’ora nei salottini di lusso dai quali aziende e vip paganti potevano assistere alla partita. La porta-finestra, con vista sul campo, si apre direttamente sui seggiolini imbottiti con prospettiva perfetta sul prato, non troppo alti né troppo bassi. È mio compito e dovere dare corpo fisico alle sensazioni che si provano, ma quella di poter leggere la sera tardi grazie alle luci dello stadio accese fino a mezzanotte, insieme a quella di alzarsi al mattino e vedere come prima cosa il campo, faccio davvero fatica a raccontarle
                                                              RECENSIONI
LA GAZZETTA DELLO SPORT – L’East End londinese, l’Aunt Sally’s Caffè e la sua monumentale colazione, il venditore di programmi, il Nathan’s e la sua ‘pie’ all’anguilla, il Boleyn Pub, il Queen’s market, gli odori di fritto e poi, tra le case, piano piano, i primi squarci dello stadio, il Boleyn Ground. In ‘Addio West Ham’ (ed. Indiscreto, pag. 324, euro 18,90) Roberto Gotta ci accompagna per una stagione intera a Upton Park, lo stadio degli Hammers che dopo 112 anni di onorato servizio ha chiuso i battenti. Giornalista di Fox Sports, già autore di un libro di culto per gli amanti del calcio inglese, ‘Le reti di Wembley’, purtroppo mai più ristampato, Gotta ha pensato bene di abbonarsi al West Ham per l’ultima stagione nel mitico impianto. Ha visto tutte le partite in casa della squadra, tranne quella col Newcastle, e ce le ha raccontate in un diario che è un tuffo nelle tradizioni e nella storia del calcio d’Oltremanica. Ma non di solo calcio si parla, perché il libro è un viaggio nel quartiere del club, ogni partita un itinerario diverso, ogni tappa un percorso a caccia dei luoghi della memoria, girovagando in una Londra che meno turistica non si può. E ogni volta inseguendo il fiume di maglie ‘claret&blue’, quell’accoppiata unica di colori. marchio di fabbrica della squadra che fu di Bobby Moore. Qui a parlare non sono le star, ma il 65enne vicino di posto dell’autore con la faccia di uno che “deve averne viste parecchie”, il gestore del pub e lo storico venditore di una fanzine che chiuderà con la morte di Upton Park. Domina su tutto una quasi commovente nostalgia per il calcio inglese che fu. (Articolo di Paolo Avanti, pubblicato sulla Gazzetta dello Sport di martedì 20 dicembre 2016)

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