29 agosto 2025

"APRILE ‘97" di Sergio Francesco Tagliabue "Conor Adam" (Urbone), 2025


Recensione di Damiano Francesconi.
Ancora una volta, di nuovo, un ultimo "valzer" in salsa britannica.
Eravamo rimasti, con lo scrittore di questa trilogia che, i fatti narrati nei primi due romanzi, "Una Nuova Alba" e "No Love Lost", sarebbero rimasti in stand-by in attesa di un terzo capitolo.
Un terzo capitolo che, in verità, è passato, leggermente, sottotraccia rispetto ai primi due. Invece, per i fedelissimi di Damonstone (protagonista dei romanzi), il terzo capitolo andava letto, gustato e goduto perchè in "No Love Lost", lo scrittore aveva lasciato tutti, ancora una volta, con dei punti di domanda. Della serie: "Ed ora cosa succederà? Finisce davvero così?".
"Aprile 97", titolo di questo terzo scritto, è stato, senza ombra di dubbio, il sipario perfetto per tutta questa storia. Siamo, ormai, negli anni 90, anni di cambiamento in ogni dove, soprattutto in terra d'Albione e nella difficile periferia di Manchester.
I protagonisti dei primi due romanzi sono, ormai, quarantenni con tutte le responsabilità che ne consegue avere quarant'anni. Chi ha messo su famiglia, chi ci ha provato, chi ancora deve capire cosa fare della propria vita e chi, il protagonista, si ritrova a dover reagire dopo una situazione personale davvero difficile che gli si palesa davanti. Damon ha la scocca dura, è un quarantenne che ne ha vissute di tutte i colori, come viene raccontato nei primi due romanzi, ma, di nuovo, la vita lo mette dinnanzi ad un fatto davvero difficile e tendenzialmente insuperabile. I fattori chiave che lo aiuteranno, salvo qualche ricaduta, a rialzarsi, saranno sempre quelli che hanno reso magica tutta questa storia. Parlo dell'amicizia, della lealtà e della fratellanza con i suoi storici amici nonché ex membri della loro amata firm dello Stockport County, la SNB. Il fattore stadio qui sarà, nuovamente, importante in quanto fungerà da rifugio in momenti personali difficili ma i tempi sono cambiati, tutto è cambiato, anche la violenza sulle terraces la quale inizierà ad essere vista dai nostri protagonisti con occhi diversi e che li porterà a prendere decisioni in merito.
La musica, pure, è cambiata e sta al passo con i tempi che corrono, siamo nei 90's e c'è una vera e propria elettricità nell'aria. Il post punk, il rock alternativo ormai sembrano appartenere ad un'altra era. Un'era al quale, il buon Damon, rimarrà per sempre legato.
Se in "No Love Lost" abbiamo assistito ad un romanzo dinamico, della serie che i protagonisti viaggiavano e si spostavano spesso per varie situazioni, in "Aprile 97" i viaggi saranno, perlopiù, temporali. SI...lo scrittore, mi prendo licenza di dire, è stato fenomenale nell'usare la tecnica narrativa del, cosiddetto, flashback. Questi salti, a situazioni passate, saranno fondamentali per chiudere un cerchio apertosi nella prima opera, "Una Nuova Alba". Senza questi viaggi (temporali) narrativi si rischia di perdere il filo logico delle varie vicissitudini di tutti i personaggi ma, come già detto, il nostro amico scrittore ha dato vita ad un eccellente lavoro.
La sottocultura continua ad esserci. Il casual continua a fare da padrone visto che tutti e tre i romanzi hanno orbitato attorno ad esso. Però, come già visto nel secondo romanzo, pian piano si è usciti dalla "comfort zone" della sottocultura casual e tutta la storia si è incentrata sulle questioni personali, sentimentali e di quotidiano vivere dei personaggi. Il casual anni 90 è diverso da quello "originale", come spesso diranno i membri della SNB, e questa è l'ennesima prova di come tutto ormai sia mutato anche in ambito terraces.
Un elemento chiave di tutta la storia sarà l'alone di "mistero" che girerà attorno ad un altro personaggio chiave di cui, realmente, non si capisce qual sia stato il suo destino visto che viene spesso menzionato ed appare, di rado, in quei flashback citati qualche rigo sopra. Anche qui grande giocata, a parer mio, da parte dello scrittore. Ha reso infatti, e giuro che è stato così durante tutta la lettura, quasi interattiva la storia attorno a questo personaggio ponendo, al lettore stesso, il fato di questa figura chiave di tutta la storia sin dal primo romanzo.
In "Aprile 97", come detto all'inizio di questa recensione, abbiamo assistito al giusto sipario di un percorso iniziato, con lo scrittore, negli anni 70 con "Una Nuova Alba", passando per gli ancor più difficoltosi 80's raccontati in "No Love Lost" fino ad arrivare a questo terzo ed ultimo (?) capitolo ambientato nei movimentati e mutevoli anni 90.
Vita da stadio, pub, sottoculture, difficoltà giovanili, musica, amicizia, sentimenti ed amori non sempre corrisposti, cambiamenti, passioni, rabbia, violenza, cadute e risalite. Possiamo dire che tutti questi ingredienti hanno fatto si che, finalmente, tutti gli appassionati di una narrativa che esce un pò da determinati "schemi" abbiano potuto avere la loro trilogia perfetta. Su questo non possiamo fare altro che ringraziare lo scrittore Sergio per averci dato tutto ciò di cui avevamo bisogno.

28 agosto 2025

"IL CASO MO JOHNSTON" di Simone Galeotti

Quartiere di Govan, esterno giorno. Luce tenue della mattina, asfalto bagnato, un chiosco di chips&fish e hot dog infradiciato dalla pioggia appena cessata gronda acqua sporca, odore di salse e bacon grigliato. Si muove Jimmy, vent'anni, professione disoccupato, un giovanotto magro, nervoso, spiritato, sulle spalle uno sbiadito giacchetto di pelle nera, un paio di “Docs” ai piedi, di quelle prodotte dalla Martens R. Griggs & Co. di Wollaston, maglietta dei "King Krimson" e bretelle d’ordinanza ad agganciare i jeans stretti col risvoltino; cammina sul selciato fra sgocciolii umidi, poca gente in giro, assenza apparente di calore umano, qualche gatto dagli occhi nocciola. Il pub dagli infissi scarlatti è dietro l’angolo, spera in una pinta con nelle tasche due sterline scarse di immaginazione ma Tim Chassels, proprietario di lunga data del Richard’s, è un omaccione con nelle narici l’odore di vecchi pestaggi e resta rigido nel suo broncio di intenditore presunto di perditempo e casinisti, sogghigna alla vista del ragazzo; allora Jimmy si appoggia a un angolo del locale dove lo spazio e più esiguo di un corridoio. 
È estate, luglio 1989, un’estate del cazzo, estate per modo di dire, perchè a Glasgow l’estate vira impazzita, non è terra di tepori, si fa alla svelta a rendersi conto che il sole non ami questa città. Jimmy si siede su uno sgabello in noce, sotto la fronte gli splendono due occhi cupi, rossi, la nottata quasi in bianco, le dita giallognole di nicotina, nocchiute e deluse come a sfilare ingannevoli assi di un poker, fumacchia di una Benson&Hedges. 
Dio ha detto che oggi è tempo di soffiare una pedina apparentemente incolorabile a quelli col pigiama, ma appare scelta discutibile, un orzaiolo, un bruscolo nell’occhio del creatore, una infelicissima mossa, stridente da far pensare a un eresia messa in giro da qualcuno. Infatti, macchè Dio, colpa del vizio ambizioso del sognare e del trasognare di quel Greame Souness, perbacco gran giocatore, niente da dire, bel baffo e bella chioma di ricci ma anche furbissimo picchetto da ippodromo, donnaiolo e scaltro come i garzoni di un macello. Glasgow luogo di bisticci e "nonsense", carbonari e certosini nell’eterogenesi dei fini, pigionanti della città dove nei tram si leggono polizieschi da viaggio, quotidiani stropicciati, sul fluttuare costante di working class e modesta borghesia, cattolici e protestanti, vangeli identici eppure contrapposti nell'interpretazione, sermoni ed eucarestie, Repubblicani e Lealisti, oppure, l'equazione più semplice di tutte: Celtic contro Rangers
Un’accetta a spaccare dritto per dritto il fiume Clyde. A Jimmy adesso risuona un nome nella testa: Don Kitchenbrand detto Rhino. Un sudafricano che aveva vestito la maglia dei Rangers fra gli anni Venti e Trenta, un cattolico, l’unico certificato, tuttavia con molta probabilità non molto ligio alla liturgia da paramenti e incensi di santa romana chiesa, eppure stavolta sembrava esserci altro a galleggiare nel cielo grigio. Qualcosa di nuovo, troppo nuovo e sconcertante. Nel pub entra James sporgendo il naso in avanscoperta, secco, ulivigno, inforca spesse lenti da miope, la maglietta con un' abbozzata "union jack". L’amico di una vita, dalla scuola, allo sballo di serate senza ipotesi, agli spalti simmetrici di Ibrox. Dietro di lui arriva il “vecchio” Allan, irrompendo nel pub col piglio di un basso che sorprende soprano e tenore. Non occorsero spiegazioni, fu subito chiaro che, se era già fuori a quell’ora senza né cappello né bastone e in faccia mostrava un brutto colore e alle occhiate investigative rispondeva solo con un’epilessia delle mani, una cosa grossa doveva essere capitata davvero. Furono tutti in un balzo ai suoi fianchi per sorreggerlo mentre Tim accorreva con mezzo bicchierino di Glenlivet. Venne praticamente deposto come un Cristo sulla seggiola più vicina. Sbalordimmo, poiché nella voce insieme alla indignazione che ne svisava i toni fino al falsetto, inequivocabilmente un gorgoglio di riso squittiva da far pensare che quanto ci veniva raccontando non lo facesse soffrire più di quanto lo divertiva e che comunque la "disgrazia", lo avesse si, sulle prime accasciato, ma trasformatolo subito dopo in elettrica marionetta. Insomma, cosa diavolo era accaduto?

Bisogna ripartire. Non cercate termini di paragone. Non lì troverete. Questo è un affare per stomaci forti. Noi galleggiamo sulla superficie liscia del semplice antagonismo sportivo, l'Old Firm scende in profondità, giù fino ai cromosomi di un popolo, fino alle ragioni di una comunanza forzata decisa dalla fame e dalle opportunità. Il trionfo delle conseguenze non volute. A Glasgow c'è una data d'inizio a tutto questo. Iniziate a cercarla a Gallowgate nel sud est della città. Edilizia popolare e negozietti a buon mercato che sventolano bandiere irlandesi. Sui pub troneggiano scritte in onore dei “Lisbon Lions 1967”, l'anno in cui il Celtic vinse la Coppa dei Campioni a Lisbona contro l'Inter di Helenio Herrera e contro i pronostici. Prima squadra non latina a farlo. Prima, sopratutto degli inglesi, che marceranno d'invidia e dovranno aspettare la stagione successiva per festeggiare, nella notte di Wembley, di Bobby Charlton e del Manchester United. “Qui troverete ovunque questa scritta”, - ti dicono orgogliosi. Qui, si riversarono navi di emigranti provenienti dall'Irlanda a seguito della penosa carestia delle patate scoppiata nella metà del XIX secolo e che causò la morte di quasi un milione di irlandesi. Ad attrarli il grande porto di Glasgow, i suoi moli, i suoi cantieri navali. Da qui, e non solo da qui, il Regno Unito è partito per il mondo e se lo è portato a casa. In breve, l'afflusso immigratorio definì ancora meglio la fisionomia della città. Operaia, proletaria, e laburista. Un giorno fratello Walfrid, nome religioso di Andrew Kerins, irlandese nato a Ballymote nel 1840 e anche lui emigrato nella cittadina scozzese viene convocato dal suo arcivescovo che ha in mente di creare ciò che ha già preso piede a Edimburgo. Ciò che già funziona con l'Hibernian. Una squadra di calcio che raccolga fondi da devolvere in beneficenza ai bambini più sfortunati: Poor Children's dinner table. Walfrid è entusiasta del progetto. Si darà subito da fare; affitta per 50 sterline un lembo di terra accanto al cimitero di Janefield, proprio nella zona di Gallowgate, e lo trasforma in un empirico campo da calcio. 
Nel 1888 partorisce la sua “creatura”, al grido di “viva San Patrizio”. È nato il Celtic Football Club. È nata una “banda di straccioni” che gioca accanto alle lapidi sbrecciate di un camposanto, con una maglia bianca e verde e un quadrifoglio come emblema. Diventerà icona, simbolo, rifugio, ed eccellenza sportiva. Ma intanto la massiccia iniezione di manodopera irlandese non poteva non provocare reazioni in città. Dell'altra faccia della città. Quella protestante, e presbiteriana, quella delle prediche infuocate di John Knox a una platea che lo ascolta ma non si muove. Perché farsi il segno della croce è da fanatici, da adulatori del Papa e delle sue politiche d'interesse, da fondamentalisti cristiani, da superstiziosi cattolici. Le braccia locali si vedono sfilare posti di lavoro e stipendi. Irlandesi e scozzesi. Cugini di genesi celtica. Troppo simili per non odiarsi. La religione, la politica, ma non solo. Ne nasce un attrito che il tempo provvederà ad accrescere e amplificare.

Nel 1872 erano nati i Rangers, anche se alcune cronache non collimano con questa data. Quello che è certo e che nascono dalle idee di quattro padri fondatori. I fratelli Moses e Peter McNeil, Peter Cambell e William McBeath. I primi due sono figli di un giardiniere che lavora presso la residenza estiva di John Honeyman, un mercante di grano. Per il nome si ispirano a una squadra inglese di rugby, per i colori al blu scozzese che gli anni a venire macchieranno di una britannicità palesemente ostentata da venature bianche e rosse. I colori della Union Jack. Mentre i cori racconteranno della battaglia di Boyne e di quando Guglielmo d'Orange sconfisse il re cattolico Giacomo II. Prima partita contro il Callander FC con pareggio finale a reti inviolate. Sedi vacanti e provvisorie per i primi anni, poi dal 1899 arriva definitivamente il quartiere di Ibrox e uno stadio progettato del celebre architetto Archibald Leitch. Diventerà il tribunale del popolo. Ibrox, Govan, South Side, salsedine, brividi freddi, gabbiani rauchi, i cantieri navali di Gorbals, e cieli neri per il fumo costante delle ciminiere. Sarà il riflesso opposto a Gallowgate. Oggi Govan è mestamente fatiscente ma la zona adiacente di Pacific Quay è stata oggetto di uno straordinario lavoro di rinnovamento, dal Glasgow Science Centre, al Riverside Museum, agli studi della BBC. Dalla fondazione dei due giganti calcistici della città, dal loro primo match ufficiale disputato nel maggio del 1888 (un amichevole si noti bene) malgrado numerosi segnali di distensione, la rivalità è cresciuta costantemente. Dissidi, rancori, incidenti e un episodio fra i tanti che ha destato l'attenzione di tutto il mondo.

Thomson Street, lunga teoria di case squadernate nell’est di Glasgow, più lontana di quanto si pensi dalle luci di Buchanan e Argyle Street, la mansarda è in cima a una di quelle palazzine dal colore indefinito, quasi minerale, è colma delle note dei Simple Minds, la voce chiara di Jim Kerr e il riff tagliente della chitarra di Charlie Burchill. Tutto partì da quel loro primo album "Life in a Day", rilasciato nel 1979, segnale indiscusso del loro talento musicale. Il sound punk rock combinato con elementi di elettronica adesso, dieci anni dopo, risuona con Belfast Child. Seán vorrebbe approfondire ancora una volta il tepore del corpo di Orna, la ragazza in piedi a due passi da lui, tenta di carezzarle piano i capelli, ciclamini di respiro, Orna si ritrae, ha la fronte larga bianca come le scogliere d’Irlanda, sotto una coppia di occhi azzurri e silenziosi, osserva Seán con aria di cocciutaggine e sazietà, la loro storia sta giungendo al termine, anzi è finita, la loro alcova ormai un nido consunto di un amore sbocciato sulle tribune ovali e oracolari di Parkhead nel solito putiferio, consueto, della "Jungle". Seán osserva le pozze d’acque dalla finestra, brillano come pupille che non sembrano intenerirsi in vezzi di fiume, le storie scappano via nel destino di parole storte, bizzarre, atte a corrompere, sono le linee oblique del nostro personale juke box di ricordi programmato a disobbedire, specchio portato a spasso o lasciato in soffitta come il ritratto di Dorian Gray. Porco cane di quel re pagliaccio, sussurrato alle canne di un fosso, quell’ impostura, quell’acquaforte morsa appena dall’acido del possibile, nell’assemblea di Guinness. Solo per un attimo, - le dice,- ma ci siamo anche io e te in quell’inquadratura. Forse adesso dovrei ridere di quel pomeriggio; nell’istante in cui "Mo" Johnston ci fotte al novantesimo io perdevo te. Ti vedevo sparire a poco a poco, trascinata dolorosamente fuori dall’onda umana dei tifosi che per non subire altra onta uscivano trafelati e corruschi da Ibrox. Mi guardavi, sospinta verso l’uscita, come scusandoti per quella tristezza. 
Lasciarsi in quello stadio per un litigio su quel rosso di merda che si era voluto mettere la maglia dei Rangers per dei sacchi di sterline in più era una cosa da idioti. Ecco perché, quando segnò, in fondo non immaginavo di chiudere in un modo così improbabile la nostra storia. “Good things come to those who wait”
Lui parlava dell’Old Firm e io pensavo a noi. Già seppi che disse proprio così il telecronista mentre Johnston stava per colpire il pallone decisivo. Lo vidi qualche giorno dopo sul nuovo TV color della Philips appena comprato dai miei per sostituire il vetusto apparecchio in bianco e nero. A questo proposito c’è una cosa che penso, mi fa star male e paradossalmente mi fa sorridere: hai mai pensato che ogni tifoso dei maledetti Rangers di tanto in tanto, andrà a cercarsi la videocassetta di quella rete e si commuoverà? Tutti quanti quei maledetti "huns" insomma, alle volte, si rifugeranno in quel giorno bislacco della nostra vita per essere felici. Assurdo. Seán guarda l’alba, le ombre di case che resistevano ancora al giorno, sullo sfondo la sagoma del Celtic Park, nello adesso stereo gira Angel of Harlem degli U2, Orna esce, c’è suo fratello Liam a prenderla. Bottiglie vuote, zodiaci sul soffitto, mentre sul muro un timido sole comincia ad accarezzare il poster di Paul McStay, “The Maestro”.

La notizia pareva già nell’aria fetida, ma pare che un quotidiano di Belfast, il Telegraph (tanto per far capire che una parte consistente di Old Firm si gioca in Irlanda del Nord) aveva annunciato per primo che i Rangers, sotto la pressione del loro allenatore Graeme Souness, vogliono venire meno alla loro storica “unwritten rule” di non tesserare giocatori di fede cattolica. 
Era ufficialmente aperto il caso Maurice Johnston. Maurice John Giblin Johnston, per tutti “Mo”, nasce a Glasgow il 14 aprile 1963. Rossiccio di capelli, qualche lentiggine e lo sguardo di chi conosce le insidie della strada. È cattolico oltre che calciatore promettente. Per uno di quelle parti il Celtic sembrava la destinazione naturale. Ci arriverà nel 1984 e in tre anni collezionerà 140 presenze siglando 52 reti. Poi arrivano le sirene francesi e l’esperienza nel Nantes. Nella Loira non smarrisce le sue doti di bomber facendo intendere di non voler più tornare, anzi no, improvvisamente rilancia il suo amore per il Celtic e dichiara che rivuole Parkhead. Frank Mc Avennie, il suo sostituto, se ne ritorna al West Ham. E Johnston tornerà a Glasgow, sì, ma nella parte blu. Una bella merda di problema. Souness risponderà alle domande dicendo:

“Sono scozzese e protestante, capisco certe cose, ma nel calcio come nel mondo moderno non devono contare, io ho il dovere di scegliere i più bravi e poi ho sposato una cattolica figuriamoci se avrò problemi ad allenarne uno”.

Anche il neopresidente David Murray avalla la scelta del “padrino di Edimburgo”. I tifosi no. Di ambo le parti. Per quelli del Celtic è semplicemente un “Judas” un maledetto traditore. E mentre dall' East End volano offese e minacce, sui cancelli di Ibrox bruciano le sciarpe dei Rangers e vengono stracciati gli abbonamenti. Edminston Drive viene presa d'assalto. Il 13 luglio fu una notte infinita, urla, rabbia e tanta polizia. Nemmeno una subdola regia occulta avrebbe fatto meglio, siamo infatti nel bel mezzo delle marce orangiste a Belfast. Benzina sul fuoco. Johnston fu costretto a difendersi da tutti. Da quelli dei Rangers, e da quelli del Celtic. Per muoversi avrà bisogno di tre guardie del corpo. Stessa storia per la moglie e i quattro figli. Fu persino costretto a prepararsi da solo la divisa da gioco in quanto anche il magazziniere dei “gers” si rifiutava di farlo. Billy McNeill l'allenatore del Celtic non avrà mezze parole:

“Non lo posso perdonare e credo che nemmeno i fans lo faranno mai perché ha mancato di rispetto a tutti a noi e alla nostra causa”.

4 novembre 1989, ad Ibrox, andò in scena l’Old Firm, il pubblico di casa parve ambiguo, prudente, Johnston apparve dal tunnel degli spogliatoi con un riso stizzoso, nell’abbrivio di scorgere il raccapriccio, fragorosamente evitato ai primi cori, ed evitato lo scandalo, cadde ogni verginità, ogni caldana di gelosia, anzi furono calori e ovatte nuziali, lui rosso come un lume di carro nottambulo, lui per gli altri solo bivacco di ladro di passo, “opus incertum” delle facce, colpi proibiti. I Rangers scendono sul terreno con Woods, Stevens, Munro, Brown, Wilkins, Butcher, Steven, Ferguson, McCoist, Johnston, Walters, il Celtic con Bonner, Morris, Burns, Aitken, Elliott, Whyte, Galloway, McStay, Dziekanowski, Coyne, Miller.

L’invocazione alla rete sforza le labbra, una spina d’apprensione, Johnston è un John Silver senza benda sull’occhio ma con la stessa follia piratesca, sterline o meno giocare in quella situazione sarebbe stato impossibile per molti, sgomita, anelante di dimostrare, nel rantolo dei 7500 tifosi ospiti barricati e fieri dietro i tricolori irlandesi, imballati nella Broomloan Stand dalla polizia dopo aver colpito Johnston in testa con un pasticcio di carne e intenti negli insulti d’addio. A un minuto dal termine tutto si scioglie nel singulto dell’azione: Stevens partì sulla fascia destra, Morris respinse in modo inadeguato il cross e la palla si contorse verso Johnston pronto a colpire rasoterra oltre Bonner. Alla pari di un'amante abbandonato il Celtic provò il dolore terribile di vedere il suo ex spezzargli definitivamente il cuore con il goal della vittoria a 60 secondi dalla fine; modo più crudele non poteva esserci. L’esultanza di Johnston è sfrenata, corre sotto il lato della curva occupata dai propri tifosi. Uno a zero e abbracci. Qualcosa era cambiato mutuando il film di Jack Nicholson ma nemmeno tanto, Johnston dimostrerà una forza di carattere notevole e se ne andrà da Ibrox solo nel 1991 dopo aver segnato 46 reti, qualcuna applaudita, qualcuna no perché appunto, mica tutti suonarono il flauto orangista di benvenuto per lui, ma la vicenda resterà pietra angolare nelle successive fasi della storia di questa partita, passione e scorza dura al tatto di qualunque ordinaria rivalità sportiva.

26 agosto 2025

"LA CITTA' DEL CALCIO. LONDON" di Carlo Crucco (Incontropiede), 2025


C’è una Londra che non trovi nelle guide. È quella che profuma di erba tagliata e birra al pub, di cori allo stadio e mani fredde che stringono una sciarpa. È la Londra del football, quella vera, fatta di emozioni, di riti, di stadi che sono templi. È lì che ti portiamo. Questa guida è il compagno perfetto per ogni tifoso che sogna di perdersi tra gli stadi della capitale inglese, dalla Premier League alla Championship, fino giù alla League Two. Da Wembley all’Emirates, passando per Craven Cottage e lo stadio del Leyton Orient, questo libro racconta le emozioni di chi ha vissuto la magia del football britannico dal vivo, dentro e fuori dagli spalti. All’interno troverai consigli, percorsi, aneddoti, ma soprattutto passione. Non mancano dritte anche per gli amanti del rugby e del tennis. Tra storie di quartiere, personaggi leggendari e aneddoti da veri appassionati, questa guida mescola turismo e calcio con ironia e competenza. 
Un viaggio dove ogni stadio è un racconto, ogni fermata della metro un rituale, e ogni partita una scusa perfetta per vivere Londra in modo unico. All’interno anche un reporter speciale: mister Paolo Vanoli.  Qui racconta le sue giornate nel “paradiso” di Cobham, il centro sportivo del Chelsea.

25 agosto 2025

"IL DESTINO DI FRANK SWIFT" di Stefano Faccendini

Il destino fa sempre scherzi, belli e, purtroppo, anche brutti.

Quando nel 1932 il Blackpool approcciò la famiglia Swift per tesserare il diciannovenne Frank, promettente e aitante portiere in quei tempi in forza al
Fleetwood, si vide opporre un secco rifiuto. No, non fu lui, che tifava la squadra della sua città natale, e neanche il suo agente, visto che questa figura professionale non esisteva ancora. Fu la madre a bloccare il trasferimento visto che tra le fila dei Tangerines militava già suo fratello Fred e non voleva creare concorrenza in famiglia. Ma quella che sembrò un’occasione fallita, per Frank Swift rappresentò invece un colpo di fortuna. 

Alla sua porta infatti bussò subito dopo il Manchester City e al Maine Road rimase tutta la sua carriera. I suoi 1.88m lo rendevano ben visibile e se la statura non fosse bastata il resto lo faceva la sua bravura. Swift, rigorosamente senza guanti, saltò una sola partita prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Con i citizen nel 1934 vinse la FA Cup, 2-1 il risultato finale contro il Portsmouth, e tanta fu la tensione accumulata durante la gara che svenne al triplice fischio finale. Tre anni dopo fu protagonista del trionfo in First Division, il primo dei due che, al momento, arricchiscono la trophy room del City.

Nonostante Swift fu uno degli atleti più attivi durante il periodo bellico, le ostilità di fatto gli rubarono gli anni più importanti della sua carriera. Il suo debutto in nazionale arrivò soltanto nel 1946 in una partita contro l’Irlanda, la prima delle 19 con i tre leoni sul petto. Nella prima stagione dopo la fine del conflitto non subì reti in 17 delle 35 partite disputate in Second Division (il City era retrocesso prima della guerra) e continuò a rimanere nel giro della nazionale fino al 1949 quando decise di ritirarsi quando ancora portiere di ottimo livello. Di fatto il club lo richiamò quando il suo successore si ammalò di tubercolosi. Quattro presenze ancora per cedere poi definitivamente il posto ad un’altra assoluta leggenda del calcio inglese di tutti i tempi, Bert Trautmann. Il City decise comunque di conservare il suo cartellino per qualche anno per evitare che altri club lo potessero convincere a tornare in attività. 

Dopo la carriera tra i pali Frank decise di diventare un giornalista sportivo, cominciando a lavorare per il News of the World come inviato. Il sei Febbraio del 1958 seguì il Manchester United nella trasferta di Coppa Campioni contro la Stella Rossa di Belgrado. Al ritorno l’aereo si fermò per fare rifornimento all’aeroporto di Monaco. Il tempo era pessimo. Il mezzo due volte non riuscì a decollare. Il terzo tentativo su fatale. Nella tragedia persero la vita 23 persone tra cui otto giocatori dello United. Fu la fine del mito dei Busby Babes. E perse la vita anche l’ex portiere del City, il ragazzo di Blackpool a cui il destino rifiutò una vita lontano dai campi da gioco.

23 agosto 2025

"CHURCHILL, IL LEONE BRITANNICO" di Vincenzo Felici

Torride notti anconetane, seminsonni, col ventilatore quale migliore amico, trascorse sconsolatamente davanti alla tv, che ha inaspettatamente trasmesso un documentario a cui sono rimasto incollato. Sonno perso sapientemente e percezione del caldo afoso ridotta al minimo, grazie al dissetante sidro britannico “Thatchers Gold”.. 
Vengo realmente catturato da un ritratto assai ricco, quanto obiettivo di Winston Churchill, il Primo Ministro inglese che cambiò il corso della Seconda Guerra mondiale, l’indomabile statista che stravolse il destino dell’Europa. Di lui si conosce praticamente tutto, ma sinceramente, un quadro così originale del premio Nobel per la letteratura non l’avevo mai ammirato. Analisi del personaggio sia sotto l’aspetto caratteriale che professionale, stilando il profilo di un un uomo dai curiosi risvolti. Lo statista tatuato era particolarmente allergico alla scuola, uno scavezzacollo non da poco. Da adolescente era stato vittima di una commozione cerebrale, si era danneggiato un rene, aveva rischiato di morire in un lago, era caduto ripetutamente da cavallo, si era schiantato in aereo ed era stato investito da un auto ! Amava dipingere e con ottimi risultati, a detta di Pablo Picasso. Prigioniero di guerra nel 1899, riuscì a scalare il muro della prigione e fuggì, nascondendosi in una miniera di carbone per ben tre giorni. Amava la scienza, credeva negli alieni e la sua spiccata estrosità, combinata ad un proverbiale senso dello humour, era spesso foriera di forti frasi ad effetto. Indimenticabile quella che più ci riguarda e riconducibile alla celebre “battaglia di Highbury” del 1934, tra Italia ed Inghilterra:

“Mi piacciono gli italiani, vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra.”

Il detto viene spesso accostato ad un severo giudizio sulla condotta italiana durante il secondo conflitto mondiale, sul Duce e sui suoi malandati battaglioni.. Churchill faceva preciso riferimento a quella epica partita, in cui il “sistema” di Herbert Chapman sfidò il “metodo” risultatista di Vittorio Pozzo, spuntandola solo a grande fatica. Su di un campo pessimo, venne giocata questa “amichevole” fra scuole calcistiche divergenti, i Campioni del Mondo in carica contro i “pionieri del football”. 50.000 tifosi spinsero gli inglesi ad una vittoria per 3-2, con gli italiani sotto di tre reti dopo appena dodici minuti. Carlo Ceresoli parò subito un rigore e Luisito Monti si fratturò l’alluce scontrandosi con Ted Drake. La veemente reazione d’orgoglio dell’Italia, frutto di una doppietta di Giuseppe Meazza, portò gli Azzurri a sfiorare la rimonta, tra gli applausi del pubblico estasiato, testimone di un match ruvidissimo per numero di contrasti e durezza di gioco ( Eddie Hapgood ne seppe qualcosa.. ). La “Perfida Albione”, come era stata apostrofata da Benito Mussolini, aveva ricevuto seppur vincendo, una eroica lezione.

Insomma, aforismi e frasi ad effetto erano il “pane quotidiano” di Churchill. La assoluta padronanza della descrizione storica e biografica, unita ad un’impeccabile arte oratoria, lo portarono a scrivere più di venti libri. I gatti costituivano la sua passione e rispettava gli orari in modo maniacale. Come maniacale era quella, da lui stesso definto “il cane nero”, ovvero la oscura depressione che lo attanagliava ad intermittenza, intaccandone talvolta, la leggendaria capacità di concentrazione. Iperattivo, ironico fino all’eccesso, era solito farsi almeno due bagni al giorno, trovando ( a suo dire ) nell’acqua calda un valido aiuto per riflettere compiutamente.. 
Un soggetto istrionico, piacioso e gioviale, che fra un whisky ed un immancabile sigaro mandò all’aria i deliranti oblii guerreschi di Adolf Hitler. Il leader del Partito Conservatore non era immune alla passione per il calcio. Nutriva una intima venerazione per il football e seguiva le sorti del Queen Park Rangers, non certo uno dei team inglesi più vincenti. 
A trasmettergli l’amore per gli “Hoops” fu suo padre Lord Randolph Churchill (nella stagione 1890/91 infatti compare tra i proprietari del Club), uomo anch’egli illuminato ed assiduo frequentatore del “Loftus Road”. Winston custodiva nell’ animo il sogno di vedere giocare in biancoblu il “Mago”: Sir Stanley Matthews, in forza allo Stoke City ed al Blackpool, “Pallone d’Oro” nel 1955. Una delle squadre più suggestive di Londra fece dunque breccia nel cuore dello stratega attraverso una passione irrazionale, tramandata nel nucleo familiare. Il “British Bulldog” assistette a vari traslochi e cambiamenti cromatici, visto che i londinesi inizialmente, indossavano divise a cerchi biancoverdi, come quelle del Celtic Glasgow. Il QPR lasciò però, sia padre che figlio a “bocca asciutta”, annoverando in bacheca solo una Coppa di lega vinta nella stagione 1966/67, battendo in finale il West Bromwich Albion. Il 15/1/1965 Churchill morì nella sua casa di Londra all’etá di 90 anni, in seguito ad un grave ictus, non potendo così assistere, per un soffio, alla unica vittoria della sua squadra favorita.
di Vincenzo Felici

22 agosto 2025

"BREXIT BLUES" di Marco Vervello (Mondadori), 2019


Brexit, British exit – sintesi concisa ed efficace – domina le preoccupazioni di milioni di famiglie europee che vivono Oltremanica, 700.000 italiani compresi, e dell’intera società inglese. A prescindere dalle conseguenze future si percepisce già da tempo un malessere diffuso. Marco Varvello, corrispondente del TG1 da Londra, ha scritto, a partire da sé e dalla sua doppia cittadinanza (passaporto italiano e britannico), un romanzo corale che racconta l’atmosfera di disagio che ha segnato e continua a segnare la vita quotidiana, non solo politica, del Regno Unito. E dunque, evocate da quella atmosfera, ecco una sequenza straordinaria di storie: un ex ministro che organizza attentati, una guerra tra condomini, un triangolo finanziario che finisce nel sangue, una centrale nucleare cinese a due passi da Londra, le cure dell’NHS, il Servizio sanitario britannico, elargite come indulgenze a un villaggio romeno.
Ne sortisce un grande racconto surreale, ironico e grottesco. Tale da comprendere in un solo colpo d’occhio la complessità e la varietà umana di un evento che ci riguarda tutti. A cavallo fra due mondi, Varvello ha mescolato realtà e finzione e ci consegna a un presente e a un futuro che non parlano soltanto inglese.


21 agosto 2025

"ALAN SMITH. L'ESIGENZA DI EROI SILENZIOSI" di Damiano Francesconi

Avete presente un film? Molto spesso nelle pellicole cinematografiche vi è sempre la massima esaltazione, giustamente, dei protagonisti i quali prendono parte a qualcosa di eroico e magistrale il quale verrà per sempre ricordato sia dagli spettatori che dall'evolversi del film stesso.

Molto spesso, però, accade che questi eroi non per forza siano i veri protagonisti di una storia. L'eroismo ha diverse sfaccettature dove vi è chi, in prima linea, guida altri ad atti di coraggio oppure chi da altri punti di vista, situazioni o gesta svolge un ruolo chiave in tutta la faccenda. Questi vengono detti “eroi silenziosi”. Coloro che svolgono un ruolo fondamentale ma non vengono esaltati a dovere. Facendo un parallelismo tra questo ipotetico film ed il calcio, anche nel mondo “pallonaro” vi è questa tipologia di personalità con i tacchetti ai piedi. In questo articolo verrà, appunto, trattata questa figura la quale non è altro che l'emblema di colui che per duttilità, caparbietà, tenacia, altruismo e chi più ne ha più ne metta...svolge compiti importanti, nell'ombra, all'interno del rettangolo verde.
Siamo in Inghilterra, nel West Yorkshire confinante con il Lancashire, North Yorkshire, Grater Manchester, Derbyshire e Sud Yorkshire. Più precisamente nella piccola cittadina di Rothwell.
E' il 28 ottobre 1980 ed è appena cominciata la stagione di First Division dove la squadra locale dello Yorkshire, il Leeds United, è tra le favorite al titolo. Quel giorno di fine ottobre nacque un figliol prodigo del distretto di Leeds. Un predestinato al mondo del calcio negli anni a venire, uno di quelli che meglio di tutti porterà, nella storia del calcio d'oltremanica, la bandiera di “eroe silenzioso”. Il suo nome è Alan Smith.
Alan, come detto, nacque agli inizi degli anni 80 e, fin dal principio, ebbe una forte passione per lo sport in generale. Infatti egli, sin da bambino, oltre al calcio praticò diversi sport quali rugby e cricket. Ovviamente, con il passar del tempo, la sua attitudine fu più propensa alla palla a scacchi che a quella ovale o alla mazza da cricket. Frequentò la Rodillian School dove, lo sport principale era il rugby. Nonostante ciò, Alan, terminata la sua giornata scolastica correva al campo di gioco della squadra locale. 
Nel 1996, durante una normale partita di fine anno, venne notato da alcuni osservatori del Leeds United. Il 17enne Smith venne avvicinato, a fine partita, da questi osservatori i quali gli fecero presente il loro interesse e mostrarono, a lui, la volontà di tesserarlo tra le fila del squadre della sua città. L'inizio di qualcosa di straordinario stava prendendo forma per questo comune ragazzo biondo risaltato all'occhio degli osservatori dello United per la sua cattiveria, la furia agonistica e le sue doti tecniche e balistiche condite con una incredibile freddezza sotto porta. Debuttò a soli 18 anni nella massima serie inglese nel big match contro il Liverpool dove, il 14 novembre 1998, gli Whites, si imposero per tre reti ad uno ad Anfield Road. La sorpresa generale fu proprio l'esordio con goal del giovane “biondino” con la maglia numero 39 di nome Smith. Facendosi largo a suon di goal, contrasti ed irrefrenabile voglia di migliorarsi sempre, Alan divenne, con il passare del tempo, una scelta indiscussa nella formazione titolare.
Nella stagione 2000-01 il Leeds prese parte alla Champions League e cosa c'è di meglio del più importante palcoscenico europeo per superare i propri limiti? Gli Whites, in quella stagione, vantavano un reparto offensivo di tutto rispetto con Smith, Viduka e Bridges.
Dopo aver superato scogli importanti quali Milan, Real Madrid, Lazio e Deportivo La Coruna, il Leeds, allenato dall'irlandese David O'Leary, perse la semifinale di Champions League contro gli spagnoli del Valencia. Per un pelo, Smith e compagni, mancarono l'approdo in finale della più prestigiosa coppa europea. Alan Smith rimane, ad oggi, il giocatore più prolifico, nelle competizioni europee, del Leeds con quattordici reti.

Tutta l'Inghilterra parla di lui. I quotidiani sportivi lo innalzano a nuovo beniamino del mondo calcistico “made in England”. Il tutto perché, Alan, incarna l'attaccante tipo che tanto piace ai supporter inglesi: grintoso, potente, freddo finalizzatore e sopratutto instancabile faticatore.
La stagione successiva all'indimenticabile “cavalcata” in Champions League, David O'Leary, iniziò a vedere in Smith straordinarie capacità di adattamento ad altri ruoli oltre a quello di centravanti. La sua versatilità lo portò, molto spesso, a giocare come esterno destro di centrocampo e, anche in quelle situazioni, Smith era lì che faceva il suo e nonostante giocasse, talvolta, lontano dalla porta il suo contributo alla causa White vi era sempre con corse sfrenate, assist e goal.
Mentre il biondo Smith diveniva sempre più l'idolo di Elland Road, stadio del Leeds, sopra il club dello Yorkshire iniziarono a presentarsi delle “nubi nere” che non lasciavano presagire nulla di buono. Una grave crisi finanziaria investì la società la quale dovette fare i conti con bilanci sempre più in perdita. Pezzi pregiati della rosa vennero venduti, perlopiù, per fare cassa. Tra questi, nella stagione 2002/03 c'era gente del calibro di Rio Ferdinand, Dacourt, Robbie Keane, Fowler, Lee Bowyer e Woodgate che vennero ceduti. Alan venne trattenuto nonostante vi fossero numerosi club pronti ad accaparrarselo. La stagione 2002/03 vide il Leeds piazzarsi in quindicesima posizione. Quella stagione fu soltanto l'anticamera di ciò che accadde la stagione successiva.
Nella stagione 2003/04 il Leeds retrocesse in Championship e questo fu un duro colpo per tutta la società, la tifoseria ed Alan Smith. Nel maggio del 2004 Smith giocò la sua ultima partita con la casacca White e fu emblematica l'immagine di lui che baciava la maglia in lacrime. Il club che si fece avanti per acquistare Alan Smith fu, niente poco di meno, il Manchester United. Proprio così, il club più detestato dai tifosi del Leeds venne prendersi, per 10 milioni, il loro beniamino il quale firmò il contratto legandosi ai Red Devils. Questo diede il via a numerose polemiche. La sua uscita venne segnata da accuse di tradimento e, nel giro di un giorno, Smith è passato da eroe a traditore; tutto questo nonostante il fatto che il club avesse dichiarato pubblicamente che non poteva permettersi di pagare gli stipendi dei calciatori e, per Alan, nessun altro club aveva registrato un interesse eccetto il Man United. A causa delle difficoltà finanziarie del Leeds, Smith scelse di rinunciare alla tassa di trasferimento personale a lui dovuta dal club. Ciò non impedì, ad alcuni tifosi del Leeds, di sentirsi traditi al punto di innalzare striscioni i quali accostavano al figura di Smith a quella di Giuda.

Approdato ad Old Trafford, Smith, prese subito coscienza che divenire un idolo da quelle parti sarebbe stato ancor più ostico di Elland Road. Il reparto offensivo alle dipendenze di Sir Alex Ferguson vantava giocatori del calibro di Van Nistelrooy, Saha, Solskjaer ed il neo acquisto prodigio Wayne Rooney. Alan Smith aveva, senza dubbio, una concorrenza tutt'altro che semplice da scardinare.
La prima stagione tra le fila dello United fu colma di alti e bassi. L'8 agosto 2004 venne giocata la partita valevole per la Community Shield tra Arsenal e Manchester United. Al 55esimo minuto, i Red Devils, passarono in vantaggio grazie proprio ad una rete siglata da Smith con uno straordinario tiro al volo da fuori area. Alla fine del match, però, avranno la meglio i Gunners vincendo per 3-1 e sollevando al cielo la Community Shield.
La stagione, come già detto, ebbe degli alti e bassi e vide il biondo dello Yorkshire andare a segno per 10 volte nella stagione 2004-05. Il rientro di Van Nistlerooy da un infortunio, la straordinaria forma fisica di Rooney ed un infortunio dello stesso Smith lo portarono ad una stagione nell'anonimato. Nonostante tutto, però, i tifosi del Man United lo apprezzavano per la sua grinta e le sue doti ogni volta che veniva chiamato in causa.
Durante il ritiro dell'estate 2005 Ferguson iniziò a vedere Smith con altri occhi. Il manager dello United era sempre più in rotta di collisione con il suo capitano, Roy Keane, il quale sembrava sempre di più destinato a lasciare il Manchester United per diatribe interne. Una cosa, però, accomunava Ferguson e Keane. Entrambi vedevano Smith perfetto per il ruolo di mediano. Ferguson stesso dichiarò che lo stesso Keane vedeva Smith come il suo ideale successore in quel ruolo.
Nella stagione 2005/06 il Manchester United condusse il campionato colmo di alti e bassi e Smith divenne, definitivamente, un mediano di centrocampo. Con l'addio, colmo di polemiche, di Roy Keane, Alan, divenne praticamente titolare al fianco di Scholes nella linea di centrocampo. Svolgeva, perlopiù, compiti di contenimento, filtro, corsa e recupero di palloni e, di tanto in tanto, provava qualche inserimento in area di rigore. Era un altro tipo di Smith rispetto a quello visto ad Elland Road. Ai tempi del Leeds era utile alla causa per i suoi goal mentre, al Manchester United, ricopriva il ruolo di macinatore di km in mezzo al campo. Quella stagione, purtroppo, terminò il 18 febbraio 2006 durante la partita di FA Cup contro il Liverpool. Il match terminò 1-0 per i Reds ma quella partita sarà ricordata per l'infortunio di Alan Smith. Su una punizione, del norvegese Riise, Smith si immolò, come al suo solito, in scivolata per contrastare la “cannonata”. In quell'istante avvenne la frattura della gamba sinistra e conseguente slogamento della caviglia. Ferguson dirà di non aver mai visto un infortunio tanto grave nella sua carriera da calciatore, prima, e da allenatore.
Quella stagione terminerà così per Smith: in barella e tra gli applausi di Anfield Road. A fine stagione il Man United alzerà la coppa di lega e tutti i calciatori dedicarono la vittoria proprio a Smith.

Nella stagione successiva a seguito della cessione di Van Nistelrooy al Real Madrid, Ferguson decise di riabilitare Smith come centravanti nonostante la straordinaria attitudine e versatilità mostrata, nella stagione precedente, nel ruolo di mediano. Rientrato dall'infortunio prese parte a partite di Champions League contro il Celtic ed il Benfica partendo, però, sempre dalla panchina. Partì titolare nella partita, contro il Crewe Alexandra, nel quarto turno di coppa di lega. Mentre cercava di raggiungere la forma migliore voci di mercato, a gennaio, lo accostarono al Cardiff City e, addirittura, al suo vecchio club il Leeds United. 
Smudge (soprannome a lui attribuito ai tempi dello United) volle rimanere a tutti costi ad Old Trafford per conquistarsi il suo posto in squadra.
Questa cosa venne molto apprezzata anche da Ferguson il quale cercò di “buttarlo” nella mischia in diverse occasioni e, piano piano, Smith stava tornando ad essere il solito vecchio combattente a prescindere se egli giocasse a centrocampo oppure in attacco. Il 10 aprile 2007 si giocò la partita di ritorno di Champions League, valevole per l'approdo in semifinale, tra Manchester United e Roma. Il match si concluse con un risonante 7-1 per i Red Devils ed Alan Smith siglò la rete del 2-0. Non accadeva dal novembre 2005 che Smith andasse a segno. Per lui fu una vera liberazione. Quella stagione il Man United vincerà la Premier League e l'ultima apparizione di Smith con la maglia dei Red Devils sarà contro il Chelsea nella semifinale di FA Cup del 2007. Dall'infortunio contro il Liverpool per Smith la carriera ha avuto, a detta sua, una parabola discendente visto che non raggiunse mai più la splendida forma avuta ai tempi del Leeds e nelle prime due stagioni al Manchester United.

Fu così che, nell'estate 2007, venne ceduto al Newcastle United. Ebbe così inizio una nuova avventura per il biondo di Rothwell. La prima stagione in maglia Magpies, però, fu molto deludente visto che, Alan, chiuse la stagione con zero reti. Anche la stagione successiva fu colma di alti e bassi provocati, soprattutto, dall'allontanamento, per diverso tempo, dal campo di gioco dovuto alla famigerata caviglia sinistra. Smith ritornò in campo nel febbraio 2009 contro l'Everton ma, in quella stagione, il Newcastle retrocesse clamorosamente in Championship.
Nonostante la stagione 2009/10 vide un club storico come il Newcastle United militare nella serie cadetta, per Smith fu una vera e propria rinascita. Tornò a giocare in maniera definitiva nel ruolo di centrocampista centrale e divenne perfino il capitano di quel Newcastle chiamato alla risalita nella massima serie inglese. I Magpies riuscirono nell'impresa di tornare in Premier League. L'edizione 2010/11 vide il Newcastle posizionarsi in dodicesima posizione e, le partite, giocate da Smith iniziarono ad essere sempre meno. Un po' per la concorrenza, a centrocampo, di gente come Tiotè. Joey Barton, Guthrie e Routledge, un po' per il continuo tormento causato dalla solita caviglia sinistra. Alan Smith percepì che, anche a Newscastle, la sua avventura era ormai arrivata al capolinea. Nonostante nell'estate 2011 ci fu un avvicinamento da parte del Leeds United, il suo Leeds, Smith rimase al Newcastle fino al gennaio 2012 quando venne ceduto, in prestito, al Milton Keynes Dons e poi venne riscattato dallo stesso club del Buckinghamshire il 10 luglio 2012. Nel MK Dons collezionò circa 60 presenze senza andare mai a segno. Questo anche perché, ormai, Smith era un centrocampista.
Nell'estate 2014 passerà al Notts County vacillando tra League One e League Two e rimanendo legato al club, con il quale colleziona 87 presenze, fino alla stagione 2018. Stagione in cui il nostro “eroe silenzioso” decise di dire basta con il calcio giocato.
“Qualcosa s’era rotto, dentro di me: in ogni contrasto che facevo ero nervoso ed avevo paura. Ma, soprattutto, avevo decisamente perso qualcosa a livello fisico”. Queste furono le parole di Smith in un'intervista, di qualche anno fa, riferendosi all'infortunio subito nel match contro il Liverpool quel 18 febbraio 2006.

In conclusione: cosa sarebbe stata la carriera di Smith senza quell'infortunio? Cos'altro avrebbe potuto dare al Manchester United? Cosa sarebbe stata la sua carriera se avesse alzato al cielo la Champions League del 2000/01 con il Leeds? Quanti dubbi, quante cose lasciate in sospeso da questo calciatore che, di fatto, non è mai realmente esploso ma che era capace di mettersi a disposizione di tutti. Eppure il mondo del calcio ha bisogno anche di queste storie scritte a metà ma che, comunque sia, hanno avuto, al loro interno, qualcosa di eroico e sensazionale. Quello di essere stato amato (forse dopo anche odiato) da ogni singolo tifoso dei club per i quali ha vestito la maglia ed i colori sociali.
Grazie Alan...MIO “eroe silenzioso”.
di Damiano Francesconi

19 agosto 2025

"HEARTLAND" di Anthony Cartwright (66thand2nd), 2013


Siamo nel pieno dei mondiali di calcio nippo-coreani del 2002 e l'onda lunga dell'11 settembre non ha risparmiato nemmeno Dudley, distretto siderurgico delle West Midlands
A pochi giorni dalla sfida tra la nazionale inglese e l'odiata Argentina, la squadra locale del Cinderheath Fc sfida la compagine musulmana della città in "una partita capace di scatenare una guerra razziale nel Black Country". L'atmosfera già satura di rancore è resa ancora più ostile dall'avanzata dello xenofobo British National Party e dal progetto di una megamoschea nell'area dove un tempo sorgevano le acciaierie. Rob - ex giocatore e insegnante di sostegno - non ha nessuna voglia di giocarla quella partita; preferirebbe trascorrere la giornata con Jasmine, una vecchia compagna delle elementari tornata da Londra, o a casa del piccolo Andre, sfregiato per difendere la sua bicicletta, o insieme al fantasma di Adnan, l'amico pakistano.

18 agosto 2025

"Semplicemente.. ANDY CAPP" di Gianluca Ottone


























E’ uno dei miei “eroi” preferiti, fin da ragazzino era la “strip” più desiderata, non è totalmente collegata col football di cui tratta questa pubblicazione ma indubbiamente per molti versi ha le stesse passioni, pregi (pochi…) e difetti (molti di più…) dei frequentatori degli stadi britannici di un tempo.

Andy Capp nasce nel 1957 come intrattenimento domenicale per i lettori del Daily Mirror nell'edizione dedicata al nord dell'Inghilterra.
La direzione del Mirror chiese esplicitamente a Reg Smythe, l'autore e ideatore di Andy Capp, di studiare una figura che facesse sorridere i “northerners” possibilmente narrando vicende di vita vissuta non così lontane dalla realtà quotidiana degli abitanti di Newcastle o Middlesbrough.
Fu così che Smythe pensò di trasporre su carta ciò che ricordava della sua giovinezza trascorsa nella città natale di Hartlepool in pieno nord est, quando era testimone della vita quotidiana dei propri genitori e dei vicini di casa.
Reginald “Reg” Smyth (che diventò noto come Smythe, aggiungendo una e al suo cognome) nacque a Hartlepool nel 1917.
I genitori erano tipici rappresentanti della working class britannica, il papà era operaio presso i cantieri navali di Hartlepool, la mamma casalinga.
Lasciata la scuola a 14 anni il nostro Reg bighellona per un po' sino alla decisione di arruolarsi nell'esercito, dove dopo 10 anni di servizio raggiunse il grado di sergente.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale Smythe fu inviato in nord Africa.
Al termine del conflitto mondiale si congedò e si stabili a Londra dove trovò lavoro come impiegato delle Poste.
Successivamente si impiegò presso un'agenzia specializzata nella realizzazione di cartoons. Qui si fece apprezzare per una sua dote naturale, la capacità di disegnare.
Intorno alla metà degli anni ‘50 Smythe collabora quasi esclusivamente col Daily Mirror ed è qui, come già accennato, che nasce Andy Capp.
Il successo fu immediato, tanto che in breve tempo, le sue “strips” passarono dall'edizione “nord” a quella nazionale e nel 1963 fu lanciato negli USA dove incontrò altrettanto gradimento. Uguale riscontro lo ottenne in quasi 40 paesi e centinaia di quotidiani nel mondo. Smythe procedette senza sosta a disegnare le avventure della sua creatura ed ad ideare quasi quotidianamente le battute e freddure che renderanno Andy Capp un evergreen del fumetto. Continuò sino alla data della sua morte, avvenuta nel 1998, a causa di un tumore alla gola complice anche il suo vizio per le sigarette (solo negli ultimi mesi precedenti la sua dipartita Smythe decise di smettere di fumare e contemporaneamente tolse la sigaretta dalle labbra di Andy Capp).


Del nostro Andy che dire? Chi più chi meno lo conosce e lo “frequenta” da anni.
In Italia arrivò alla fine degli anni 60, i suoi albi pubblicati dall'Editrice Corno ebbero molto successo e le sue strips comparvero per anni sulle pagine de “La settimana enigmistica” con il titolo de “Le vicende di Carlo e Alice”.
Andy Capp è un ometto di bassa statura, porta un flat cap calato sugli occhi e sul nasone, una onnipresente cicca penzolante dalle labbra, un abito scuro ed al posto della cravatta usa una sciarpetta annodata. Insomma, né più né meno il ritratto del tipico inglese popolare degli anni 40/50. E' perennemente disoccupato anche pechè non cerca lavoro o comunque lo evita, tirando avanti col sussidio di disoccupazione che gli basta a malapena per qualche giorno di sbronze e scommesse su cani e cavalli.
Il pub è il suo regno, la sua vera casa!
Qui trascorre intere giornate tra sfide a freccette, biliardo, corteggiamenti alle giovani cameriere e ovviamente “qualche” pinta di bitter ale.
A casa ci sta il meno possibile.
Di solito nelle ore in cui il pub è chiuso, sonnecchia sul divano evitando accuratamente di sbrigare qualsiasi lavoro domestico, non risponde (o risponde male) all'esattore dell'affitto.
Nonostante non sia più un giovanotto è uno sportivo praticante; è parte integrante delle locali squadre amatoriali di calcio, rugby, cricket, freccette, biliardo.
In qualsiasi di questi sports riesce sempre a litigare con arbitri, avversari e anche a volte con i compagni di squadra!
E' rinomato per la foga con cui affronta i contrasti, tanto che, sovente, gli avversari che lo conoscono...lo evitano! Oltre a praticare sport è anche un tifoso accanito che segue la sua squadra del cuore (probabilmente l'Hartlepool United...) in casa ed in trasferta finendo sovente coinvolto in risse con i tifosi avversari.
Andy da vero “provinciale” e popolano, raramente esce dalla propria città dove in effetti ha tutto ciò che gli serve per andare avanti: i pubs, lo stadio, le corse dei cani, le maratone di biliardo, gli amici... Al massimo si concede una trasferta al seguito del suo club o un raro week end a Blackpool con la moglie.
Già, la moglie. Si, Andy nonostante tutto è sposato!
Lei si chiama Florence detta Flo o Florrie, più alta di lui, grassoccia, con una pazienza infinita. Lei è l'unico sostegno della famiglia, lavora in fabbrica e fa pulizie a domicilio, difende accanitamente il suo stipendio dagli assalti del marito che chiede continuamente prestiti per una bevuta Nonostante tutto è addirittura gelosa del suo Andy e non di rado lo aspetta sveglia nel cuore della notte per capire se sta rientrando dai bagordi con gli amici o se ha perso tempo dietro alle sottane delle cameriere.
Qui si scatenano furibonde discussioni che a volte terminano in scazzottate feroci (d'altro canto nei quartieri popolari di ogni città inglese il “wife beating” da parte del marito ubriaco o le bastonate della moglie al consorte tornato brillo dal pub sono sempre state una consuetudine piuttosto radicata).
Insomma, il successo di Andy Capp derivò dal fatto che le sue avventure non erano altre che uno spaccato della società inglese con i suoi lati postivi e negativi.
Le sbronze del venerdì e sabato sera, le risse fuori dal pub, le tifoserie arrabbiate, il rapporto col poliziotto di quartiere, la passione per gli sports (anche praticati), le scommesse...
Alla fine Andy Capp è un po' come vorremmo essere tutti noi, si dedica con passione e volontà alle cose che gli piacciono, evita volutamente le cose più impegnative e meno soddisfacenti come il lavoro, le cose imposte dagli altri o le serate noiose in compagnia dei parenti.
La sua ironia è graffiante, irriverente e non risparmia nessuno.
Non risparmia il Pastore che cerca di indirizzarlo verso una vita più sana e serena; non risparmia Rube, la vicina di casa che incita Flo a mollare Andy o la suocera, con la quale parla solo attraverso la porta e che non accetta in casa!
Alla fine di tutto Andy è contento così; lui dalla vita non chiede nulla (se non qualche scellino per le pinte e qualche scommessa) e non dà nulla in cambio...
I volumi editi in Italia dalla Corno sono facilmente reperibili a prezzi popolari ma il mio consiglio è di accaparrarsi alcuni volumi originali.
Intanto molte avventure inglesi non sono mai state pubblicate in Italia e poi il lessico usato è spettacolare. Con un minimo di dimestichezza e abitudine apprenderete espressioni e dialoghi diffusi nell'inglese popolare dove il “me” sostituisce il “my”, il “ya” al posto del “you” e “cheeky monkey” non è una razza di scimmia ma sta ad apostrofare una persona irriverente, un po' “faccia da schiaffi”...
Per concludere, bisogna segnalare che la città di Hartlepool nel 2007, dopo anni di discussioni, ha eretto una statua ad Andy Capp...
In fin dei conti Andy ed il suo creatore, sono sicuramente tra i “figli” più importanti della ventosa città del nord est!
di Gianluca Ottone

13 agosto 2025

RIVALITA'. "MANCHESTER UNITED VS LIVERPOOL" di Christian Cesarini

La rivalità calcistica tra Manchester United e Liverpool è chiamata il derby del nord-ovest anche se in tempi più recenti ha assunto la denominazione di derby d’Inghilterra, un po’ come succede in Italia con Inter e Juventus.
La sfida ha origini antichissime anche se la ruggine tra i due club più blasonati e vincenti d’Inghilterra si è acutizzata soprattutto negli ultimi 30 anni.

Di sicuro a caratterizzare il derby è la vicinanza geografica tra le città di Manchester e Liverpool, divise da appena 34 miglia (50 minuti appena con l’auto o con il treno), ma anche la rivalità scatenasi tra le tifoserie negli anni 70 e 80, periodo in cui il fenomeno hooligans si manifestò in tutta la sua violenza.  Scontri tra la famigerata Red Army di Manchester e le diverse firms originarie del Merseyside non mancarono di far notizia quando i due football club si affrontarono sul campo. Ad alimentare un certo “odio” contribuirono anche stesse le dirigenze e i managers. 
E’ la storia stessa a raccontarlo: nessun giocatore professionista, dal 1964 ad oggi, ha mai percorso quelle 34 miglia per passare da una maglia rossa all’altra, in nessuna delle due direzioni. L’ultimo fu il centravanti Phil Chisnall, nato a Manchester, che nell’aprile del 64 passò dallo United ai Reds per 25mila sterline. Chisnall scese in campo ad Anfield appena sei volte siglando anche una rete ma non entrò mai per ovvie ragioni nei cuori pulsanti della Kop. Da quel giorno mai più nessuno ha effettuato un passaggio diretto da una sponda all’altra e questa la dice lunga sul rapporto di certo non amichevole tra i due club. Nella ultracentenaria storia di Manchester United e Liverpool sono appena nove i trasferimenti di giocatori, di cui ben sette dal 1912 al 1938. Altri giocatori hanno indossato entrambe le maglie ma sempre intervallando le loro prestazioni sportive con una maglia diciamo così neutra, come una sorta di purificazione. Esempio di ciò il caso di Paul Ince, che passò al Liverpool via Inter dopo aver passato sette stagioni all’Old Trafford, accolto come un nemico dalla Kop di Anfield; o di Gabriel Heinze, sul quale sir Alex Ferguson in persona mise un polemico veto al trasferimento nonostante l’accordo economico già raggiunto tra Reds e lo stesso argentino. Nel 2006 è stata la volta di Michael Owen, ex re di Anfield dal 1996 al 2004 e un po’ a sorpresa approdato alla corte di Fergie.

Le statistiche ufficiali riportano che il primo match tra red devils e reds ebbe luogo ad Anfield il 12 ottobre 1895. Davanti a 7.000 persone il Liverpool surclassò i rivali 7 a 1 in una gara valida per la sesta giornata di second division 1895/96. In realtà, in quell'epoca pioneristica, i calciatori di Manchester non erano ancora ne rossi nè diavoli. Il famoso logo con l'irriverente diavoletto e il relativo nickname conosciuto in tutto il mondo fu assunto solamente agli inizi degli anni 60 per iniziativa del manager Matt Busby e per l'esattezza anche il nome del club non era quello attuale. Il Manchester United FC infatti fu fondato nel 1878 come Newton Heath e la dicitura Manchester United fu coniata (curiosamente da un emigrante italiano, Louis Rocca) solamente dal 1902, nel momento in cui il club, sull'orlo del fallimento, fu rifondato dopo un romanzesco salvataggio economico. Stesso discorso per i colori sociali, che proprio fino al 1902 erano verde-oro, proprio come i colori sociali della compagnia ferroviaria di Manchester dal quale il club fu generato.

La citata e presunta "prima volta" del 1895 mise quindi di fronte Liverpool e Newton Heath ma se si va a scavare nella lunga e romanzata storia del Manchester United nata nel 1878 si scopre che la sfida con il Liverpool aveva avuto già un precedente, curiosamente molto più drammatico, sportivamente parlando, di quel 7 a 1 datato ottobre 1895.

Nella stagione 1893/94 il Newton Heath chiuse all'ultimo posto della First Division mentre il Liverpool, fondato appena due anni prima da una scissione interna all’Everton FC, giunse in vetta alla graduatoria della second division. All'epoca il regolamento prevedeva che al termine della stagione, al fine di decretare retrocessioni e promozioni, venissero giocati i cosiddetti "test matches", ovvero veri e propri spareggi tra le ultime tre classicate della first division e le prime tre classificate della second division. Il Newton Heath fu associato quindi al Liverpool e i reggenti della Football League decisero che la gara si sarebbe disputata in partita unica all'Ewood Park di Blackburn, all'epoca uno dei più grandi e funzionali stadi di tutta l'Inghilterra. Sabato 28 aprile 1894 (davanti a 3.000 persone), nonostante la differenza di categoria, i reds di Liverpool superarono agevolmente i verde-oro del Newton Heath per 2 a 0 decretando di conseguenza la retrocessione del futuro Manchester United dalla prima alla seconda divisione calcistica. Statisticamente quello fu uno dei primissimi declassamenti della storia del calcio. La storia della rivalità tra i due club ha quindi una genesi sportiva più che degna, considerato che un club superò l'altro in un vero e proprio spareggio decretandone nientemeno che la retrocessione.

La prima affermazione dello United risale al 2 novembre 1895: meno di un mese dopo il citato ed umiliante 7 a 1 di Anfield gli Heathens si vendicarono vincendo 5 a 2 al Bank Street di Manchester (l'Old Trafford sarebbe stato costruito solo nel 1909). Un risultato roboante e non pienamente veritiero secondo le scarne cronache dell’epoca (il Newton Heath avrebbe potuto realizzare molte più reti), caratterizzato dalla tripletta dell'attaccante James Peters e dall’immancabile pioggia di Manchester.

Seguirono tante altre sfide di campionato nel quale spiccano dalla parte Liverpool oltre al citato 7 a 1 del 1895 le vittorie per 5 a 0 nel 1925, lo 0-3 esterno del 1972, il 4 a 0 del 13 settembre 1990 e il recentissimo 1 a 4 griffato Gerrard della stagione passata. Di contro all’Old Trafford vengono ricordati con grandi sorrisi il 6 a 1 del 1928, il 5 a 0 del 1946 giocato al Maine Road (l’Old Trafford non era ancora agibile per i danni subiti durante la seconda guerra mondiale), il 5 a 1 del 1953 e il 4 a 0 del 2003.

Ma se tralasciamo le numerose e combattutissime sfide di campionato soffermandoci sulle sfide in Fa Cup scopriamo che le due squadre si sono affrontate ad oggi ben 11 volte. Il primo storico face to face risale alla stagione 1897-1898. E' il secondo turno di Fa Cup e Liverpool - Newton Heath finisce 0 a 0. Nel replay i reds di Liverpool passano 2 a 1. Nel 1902 il Manchester United (al primo anno con tale nome e nuove maglie dopo la rifondazione) si vendica vincendo 2 a 1 al primo turno, uscendo però al secondo round ( sconfitta per 3 a 1 ) contro l'Everton. Considerando anche l'interruzione dell'attività sportiva a causa della prima guerra mondiale, per scontrarsi nuovamente i due clubs devono aspettare la stagione 1920-21, dove, ancora al primo turno, si verifica di nuovo un pareggio: 1 a 1. Nel replay, come già alla fine dell'ottocento, sono i reds a passare 2 a 1 e a continuare il cammino (poi interrotto dal Newcastle Utd) nell'antica competizione. Nuova sfida dopo la seconda guerra mondiale: è la stagione 1947/48 e lo United stavolta si impone nettamente per 3 a 0 al secondo turno. United che arriverà fino alla finale, vincendola sul Blackpool per 4 a 2. E sempre con tre reti ma stavolta per 3 a 1 i red devils eliminano, ancora nel secondo turno, i rivali nel 59/60, uscendo poi, sconfitti 1 a 0, al turno successivo contro lo Sheffield W. Durante i favolosi sixties nessuna sfida. La prima finale tra i due colossi è invece datata 21 maggio 1977. I Red Devils accedono a Wembley superando in semifinale il Leeds United per 2 a 1, i Reds di Liverpool superando i cugini dell'Everton con un netto 3 a 0 al replay, dopo aver impattato la prima gara sul 2 a 2. Davanti a 100mila spettatori è il Manchester United a trionfare per 2 a 1 togliendo ai Reds la storica possibilità di diventare il primo club a realizzare il treble. Sono infatti gli anni del grande Liverpool europeo, che quell'anno trionferà in campionato ma anche in Coppa Campioni. E' questa quindi la sfida delle sfide, la più importante tra le due grandi rivali; una gara che accentuerà in maniera esponenziale l'odio sportivo tra le due tifoserie. Nel 78/79 i due clubs si affrontano di nuovo, stavolta in semifinale: a vincere sono ancora i diavoli rossi, 2 a 2 nel primo match e 1 a 0 nel replay. United che nell'emozionante finale 12 maggio 1979 vedrà però trionfare l'Arsenal di Liam Brady e Alan Sunderland. Ancora semifinale nell'edizione 84/85 ed ancora United vincente dopo un replay: 2 a 2 e 2 a 1. Red Devils che poi trionferanno in finale per 1 a 0 contro l'altro club di Liverpool: l'Everton, grazie ad una rete del nord-irlandese Norman Whiteside. Nuova sfida nell'atto conclusivo nel 1996: Eric Cantona nel finale di gara piega i reds con uno splendido tiro al volo da fuori area ed i red devils alzano il trofeo bissando la finale del 77. Poi ancora Man United, che al secondo turno dell'edizione 98-99 ( l'anno magico del club che realizza il treble ) supera i rivali per 2 a 1. L'ultima sfida è del 2006, i Reds passano per 1 a 0 al 5 turno andando poi a conquistare l'FaCup 2006 nella finale di Cardiff contro il West Ham dopo aver superato anche Birmingham City e Chelsea. Per ora il bilancio in Fa Cup è nettamente a favore del club di Manchester.

Statistiche generali dal 1897 al 2006: Sfide totali in FA Cup: 11 ( 15 se consideriamo anche 4 replay ) Vittorie Liverpool: 3 Vittorie Manchester United: 8 Semifinali: 2 ( entrambe vinte dallo United al replay ) Finali: 2 ( tutte e due vinte dallo United )

C'è tuttavia un'altra gara che secondo gli storici calcistici generò una certa antipatia tra i due club, seppur moderata rispetto ai nostri giorni. La partita in questione risale al 19 febbraio 1910 e nella storia del Manchester United ha una certa rilevanza in quanto fu la prima disputata dal club di Manchester all’Old Trafford, inaugurato proprio quel giorno. La realizzazione della casa dello United fu opera dell’architetto scozzese Archibald Leitch e all’epoca suscitò la curiosità di moltissimi appassionati di football, non solo della città di Manchester.

In quel 19 febbraio il calendario della first division inglese mise di fronte proprio Manchester United e Liverpool. I mancuniani guidati in campo dalla prima vera superstar del football (il gallese Billy Meredith) erano all’epoca di gran lunga la miglior formazione d’Inghilterra: campioni nazionali nel 1908 e vincitori dell’Fa Cup nel 1909. Davanti a 45mila e nonostante la grande motivazione dell’inaugurazione del nuovo stadio (all’epoca uno dei più grandi di tutta Europa) i reds di Liverpool sconfissero per 4 a 3 i rivali, rimontando il 2 a 0 iniziale a favore dei padroni di casa. Quella sconfitta nel giorno dell’inaugurazione dell’Old Trafford fu vissuta dagli sportivi di Manchester come un vero e proprio smacco e seppur la festa per la nascita dell’avveneristico stadio fu enorme, quella sconfitta (condita anche dal gioco molto duro dei reds) sancì il definitivo abbandono di speranza di vincere il titolo per lo United, rovinando in parte l’evento.

Di contro il Manchester United sistemò il conto in sospeso già nell’annata successivamente, quella 1909/1910. I Mancuniani si vendicarono con gli interessi vincendo il titolo della Football League all’ultima giornata proprio al cospetto del Liverpool. Una vendetta che fu soprattutto un suicidio dei reds, che nonostante il punto di vantaggio a 90 minuti dal termine fecero un clamoroso karakiri perdendo 3 a 1 ad Anfield contro l’Aston Villa. Un titolo perso all’ultimo istante, condito successivamente da frecciate polemiche tra i dirigenti delle due formazioni e che gettò altra benzina sul fuoco nel rapporto tra i club.

I musei, altra battaglia tra i due club. Quello dell’Old Trafford maestoso, quasi regale e strutturato con visite guidate ed ascensori, quello dei Reds meno sfarzoso, essenziale ma non meno ricco di trofei e cimeli, che tende ad unirsi in un'unica leggenda all’Anfield Stadium stesso. Diversi ma imperdibili entrambi, e chi c’è stato può confermarlo…
di Christian Cesarini
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