Quante volte avrete sentito un tifoso di una squadra di calcio, forte o debole non importa, pronunciare con grande enfasi la frase “ah, se tal dei tali avesse segnato quel gol” oppure “se l’arbitro tizio avesse dato quel rigore”, quasi come se quegli eventi non verificatisi, vuoi per presunte colpe altrui o per un apparente scherzo del destino, avrebbero potuto contribuire a cambiare non solo la storia di quel club, ma di una intera fetta della storia del calcio. E’ invece certo, e non siamo gli unici a pensarla così, che se un maledetto incidente aereo non avesse falcidiato le fila di una meravigliosa nidiata di campioni, il Manchester United avrebbe mietuto ancor più successi, arricchendo un albo d’oro che a tutt’oggi fa comunque la gioia dei supporter bianco-rossi. Certo, senza la tragedia consumatasi sulla pista dell’aeroporto di Monaco di Baviera il 6 febbraio di 60 anni fa, il mito dei Red Devils, della squadra che rinasce dalle sue ceneri come una sorta di fenice del football, sarebbe più “ordinario”, più simile a quello delle altre grandi dinastie calcistiche del pianeta.
Meglio così, ci viene da pensare. Gli appassionati inglesi e del resto d’Europa avrebbero visto per altri anni le mirabili imprese dei Busby Babes, i “bimbetti” di Matt Busby, placido allenatore scozzese, in seguito divenuto Sir per meriti calcistici, capace di far resuscitare un club agonizzante, che dopo la Seconda Guerra Mondiale si ritrovò con le casse vuote e lo stadio squassato dalle bombe tedesche, e di portarlo ai vertici in patria e all’estero. Il Manchester United con un mix di giocatori navigati e giovani promesse, poi sfiorite troppo presto, tornò al successo già all’inizio degli anni Cinquanta. Ma il capolavoro di Busby e del suo assistente e responsabile delle giovanili Jimmy Murphy fu poi quello di plasmare una squadra da sogno fatta di ragazzetti in buona parte nati e cresciuti a poche centinaia di metri dall’Old Trafford. Ragazzetti destinati a fare epoca, così bravi che non ci misero molto a dettare legge nell’allora First Division – quella che oggi chiameremmo Premier League – vincendo due campionati consecutivi nel 1956 e nel 1957. La stampa li soprannominò subito Busby Babes, narrandone le gesta con ammirazione ed entusiasmo. Tra di loro c’erano un non ancora stempiato e già fortissimo Bobby Charlton, lo scapestratello ma talentuoso Eddie Colman e soprattutto Duncan Edwards, the Tank, un superlativo mediano che nel dicembre 2007 è stato eletto dai tifosi miglior giocatore di sempre nella storia del club.
La stagione 1957-58 doveva essere quella della consacrazione definitiva, grazie ad un primo, storico successo in Europa su cui tutti all’Old Trafford erano pronti a scommettere. Busby aveva capito che per entrare in pompa magna nell’olimpo del calcio serviva il trionfo nell’allora Coppa dei Campioni, quella competizione osteggiata dal presidente della Football League, Alan Hardaker, preda di manie isolazionistiche che adesso fanno sorridere ma a quei tempi avevano il loro peso – tanto che il Chelsea fu dissuaso dal partecipare alla prima edizione della manifestazione, datata 1955/56.
Ironia di un destino quanto mai beffardo, fu proprio una trasferta europea a trasformare in dramma la bella favola di quel Manchester United fatto di giovani fuoriclasse. Di ritorno da Belgrado, dove un pirotecnico pareggio per 3-3 contro la Stella Rossa davanti ai 50mila del Marakana aveva assicurato ai Red Devils il passaggio alle semifinali della Coppa, la squadra con il suo seguito di dirigenti e giornalisti fu costretta a fare scalo a Monaco di Baviera. La bufera di vento e neve che tormentava la città tedesca non convinse il comandante dell’aereo che doveva riportare a casa i Busby Babes che forse era meglio lasciar perdere e rimanere in Germania ancora per qualche ora , in attesa di una schiarita. Al terzo tentativo di decollo il velivolo si schiantò rovinosamente sulla pista imbiancata da cumuli di neve e andò ad urtare con un’ala un deposito di carburante. Tra le macerie dell’aereo, smembrato e parzialmente in fiamme, rimasero i corpi senza vita di sette Babes e di altre undici persone, tra dirigenti del club e giornalisti. Non ce la fece l’alter ego in campo di Busby, l’indomabile capitano Roger Byrne, così come si spensero Eddie Colman, il prolifico attaccante Tommy Taylor ed i giovanissimi Mark Jones (24 anni), David Pegg (22) e Liam Whelan (22). Come spesso capita nel caso di simili incidenti, una delle vittime non sarebbe dovuta essere lì. Geoff Bent fu convocato per la trasferta solo perché Byrne non era sicuro al 100% di poter scendere in campo.
Duncan Edwards smise di lottare dopo due settimane di straziante agonia, quando l’intera Inghilterra aveva già pianto tutte le sue lacrime per una squadra già assurta a simbolo di un Paese capace di lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra.
Nel frattempo, il 19 febbraio, il Manchester United era tornato in campo in un Old Trafford lacerato dal dolore per disputare il quinto turno di Coppa d’Inghilterra, mettendo su una formazione composta da parecchie riserve e alcuni giocatori presi in prestito. Il programma di quella partita, però, recava lo stesso undici spazi vuoti al posto dei nomi degli idoli di casa. In realtà a battere gli Owls quel giorno c’erano anche due superstiti di Monaco, Bill Foulkes e Harry Gregg. Altri scampati, Jackie Blanchflower e Johnny Berry, finirono anzi tempo la loro carriera, mentre il carattere dell’allora poco più che ventenne Bobby Charlton rimase per sempre segnato dal ricordo di quell’evento luttuoso.
E Sir Matt? Busby rimase giorni a combattere contro la morte, così malridotto che inizialmente nemmeno suo figlio Sandy fu in grado di riconoscerlo. Le ferite nell’animo furono però le più dure da guarire. Busby era oppresso da una colpa tanto grande quanto ingiustificata: non essere riuscito a proteggere i suoi ragazzi.
In tanti hanno accostato la sciagura del Manchester United a quella del grande Torino. Molti addetti ai lavori hanno fatto notare che il Toro non si è mai del tutto ripreso da Superga, lasciando definitivamente il predominio cittadino e non solo ai cugini in bianco e nero. Il Manchester United, invece, seppe prendere alla lettera lo spirito della fenice, simbolo scelto per ricordare la sciagura dell’aeroporto Reim. Busby mise su un'altra squadra fenomenale, ispirata dalla grinta di Nobby Stiles, dalla classe di Bobby Charlton, dai numeri di Dennis Law ma soprattutto dal genio assoluto del Belfast Boy, il migliore di nome e di fatto: George Best. Il sogno di dominare l’Europa del pallone sarebbe divenuto realtà sotto la luce dei riflettori del tempio di Wembley – quello delle due torri e non dell’arco – durante una calda serata della fine del maggio 1968. A soccombere per 4-1 dopo i supplementari nella finale di Coppa dei Campioni c’era il Benfica di Eusebio. Con dieci anni di ritardo, i Red Devils erano diventati campioni d’Europa e Busby e Charlton potevano finalmente abbracciarsi in un misto di felicità e commozione. Avevano onorato in modo degno la memoria di chi non c’era più per colpa di un maledetto incidente aereo.
di Luca Manes
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