"Hooligan. L'ultima parola" è la storia di Carlton Leach, uno dei volti della gradinata del West Ham, i muscoli della Inter City Firm, ma soprattutto la vicenda umana di un uomo che ha diviso la sua vita dove finanza, politica, spettacolo, calcio e criminalità si toccano senza incontrarsi mai pur incontrandosi sempre. Dalla sua infanzia passata nell'East-End di Londra, fatta di voglia di riscatto, velata di granata e blu, al giro della sicurezza nei locali, alle avventure nei meandri più torbidi delle esperienze umane, fino al suo rapporto con il mondo ultras italiano. Uno guardo nella vita privata, più intima e nascosta di Carlton Leach, un racconto autobiografico dove trovano spazio anche le voci di chi gli è stato accanto, giorno dopo giorno: parenti, amici, colleghi, fratelli. "Hooligan. L'ultima parola" il libro di Carlton Leach è pronto a portarvi nelle viscere di chi ha rischiato in ogni frangente della sua esistenza, un romanzo dove non esistono sconti di pena.
31 ottobre 2024
RON SAUNDERS. Hero and Villan.
Due sono le maniere per diventare un allenatore leggendario: o si costruiscono grandi squadre, mietendo successi a ripetizione, allenando club blasonati oppure si ottiene un risultato straordinario con un club storico ma in astinenza da trofei e poi all’apice del successo si saluta la compagnia abbandonando tutti.
Ron Saunders appartiene alla seconda categoria di trainers. Ron arriva dal Man City (dove non aveva lasciato tangibili tracce) nel 1974, prendendo il Villa in Second Division e questo è il suo score:
- Stagione ’74/’75: promozione dalla Second alla First Division e vittoria a sorpresa della Coppa di Lega (1-0 al Norwich, gol di Graydon).
- Stagione ‘75/’76: sedicesimo nella First Division
- Stagione ‘76/’77: quarto nella First Division, vittoria della Coppa di Lega al terzo replay contro l’Everton (3-2 gol di Nicholl e Little 2).
- Nelle stagioni ‘77/’78 e ‘78/’79 ottavo nella First Division
- Stagione ‘79/’80: settimo nella First
- Stagione ‘80/’81 Campione d’Inghilterra
- Stagione ‘81/’82: lascia la squadra nel febbraio ’82 per dissidi con l’insopportabile Doug Ellis.
Come si può ben notare l’importanza del lavoro di Saunders nella storia del Villa è fondamentale, perché nel giro di pochi anni ha riportato il team tra le prime otto squadre d’Inghilterra ed oltre alle due Coppe di Lega ha riconquistato il titolo dopo ben 71 anni. Già questo basterebbe per considerarlo, almeno nelle Midlands, una leggenda, ma il top lo raggiunge nell’anno 1982 quando in piena corsa per la Coppa dei Campioni molla tutto.
Il Gaucci made in UK, al secolo Doug Ellis, con le sue insopportabili ingerenze, aveva costretto quest’uomo tutto d’un pezzo a non terminare il magnifico progetto che stava costruendo.
Ci si chiede come sia stato possibile che Saunders con il suo carattere abbia allenato il Villa per sette stagioni di fila. E’ presto detto, nel regno incontrastato di Ellis al Villa Park, iniziato nel 1968 e tutt’ora in corso, c’è un meraviglioso gap che va dal ’75 all’81 quando il presidente era Sir William Dugdale, altro stile, altra signorilità.
Al ritorno di “deadly” Doug nell’82 fu subito rottura e nell’anno seguente Saunders prende posto sulla panca degli odiati Brummies del City, e come nei romanzi d’appendice il giorno di S.Stefano dell’83 batte il Villa 3-0 in un derby testa-coda, dove la coda era il City sia chiaro!
Andiamo a scoprire qualcosa di più di questo burbero personaggio.
La stampa dell’epoca lo riteneva un tecnico scarso tatticamente, che preferiva il tipico gioco britannico tutto pressing e palla lunga, e non gli perdonava il suo scarso feeling con quei giocatori che la stampa stessa considerava stars del Villa anni ’70. Qualcosa di vero c’è, in effetti quando i giocatori più importanti del team prendevano il sopravvento li cedeva, comprando giocatori poco noti o da ricostruire; così facendo manteneva il controllo totale del team. Tra le sue vittime più note lo storico capitano del Villa anni ’70 Chris Nicholl, John Gidman ed il bomber Eddy Gray, allora stella assoluta a cui preferì prima Deehan e poi il bisonte Peter Withe.
Ron utilizzava giocatori di cui si fidava ciecamente e nell’anno del titolo in 42 gare fece ruotare solo 14 calciatori; e cito come in un magico rosario: Rimmer, Swain, Gibson, Evans (7 gol), McNaught, Mortimer (4 reti), Bremner (2 reti), Shaw (18 reti), Withe (20 reti), Cowans (5 reti), Morley (10 reti); a disposizione Deacy, Williams e Geddis (4 reti).
Per approfondire ulteriormente il personaggio Saunders sentiamo cosa dissero di lui un giornalista e un suo giocatore:
Ray Matts, corrispondente da Birmingham per l’Evening Mail: "Con me è sempre stato gentile, con i colleghi londinesi assolutamente no. Saunders li disprezzava perché riteneva fossero troppo dediti all’estetica del football trascurando tattica ed efficienza. All’epoca della vittoria in campionato il suo Villa era opposto all’ Ipswich di Brian Robson (molto più gentile e diplomatico con i giornalisti) che aveva tutti i favori della stampa in virtù di un gioco più bello da vedere, e di giocatori di classe tipo Muhren, Mariner, Wark e Brazil; a lui questa cosa assolutamente non andava giù. Spesso mi raccontava storie incredibili riguardo il suo lavoro al Villa Park; cominciava le sue storie con "non dovrei dirtelo ma…" e finendo poi, dopo avermi regalato qualche scoop con un “…ma tu potresti dire che…” dicendomi in sostanza ciò che secondo lui era pubblicabile e ciò che non lo era. Tutto questo per proteggere i suoi ragazzi".
Gordon Cowans, storico centrocampista del Villa di quegli anni: "Ron soffriva il fatto che i media ignorassero il suo lavoro al Villa Park, non sopportava che lo tacciassero come un tecnico tatticamente scarso e quindi una volta, prima di una gara, si presentò nello spogliatoio con dei foglietti. In questi foglietti aveva appunti di tattica per tutti noi, e dopo averceli letti e pazientemente spiegati li stracciò, li buttò in un angolo e ci disse “Questa è spazzatura. Lavoriamo tutta la settimana su ciò che dobbiamo fare in campo, sui movimenti da fare e sugli accorgimenti da prendere quindi senza perdere altro tempo andate fuori, giocate e vincete perché potete farlo”".
Che altro aggiungere riguardo questo personaggio che sembrava uscito dal telefilm di George e Mildred, con un cappellino alla Andy Capp e con la tempra dura dell’uomo semplice e diretto?
Allenatori così ne esistono sempre meno nel baraccone calcio odierno, per questo talvolta è impossibile resistere al lasciarsi andare ricordando the good old days.
di Charlie Del Buono, da UK Football please
30 ottobre 2024
OLD FIRM. Senza termini di paragone..
Non cercate termini di paragone. Non lì troverete.
L’Old Firm resta un affare per stomaci forti. Noi ci limitiamo a galleggiare sulla superficie liscia del semplice antagonismo sportivo ma a Glasgow si scende in profondità, fino ai cromosomi di un popolo, fino alle ragioni di una comunanza forzata decisa dalla fame e dalle opportunità, il trionfo delle conseguenze non volute, l'eterogenesi dei fini. C'è una data d'inizio a tutto questo. Iniziate a cercarla a Gallowgate nel sud est della città. Edilizia popolare e negozietti che sventolano bandiere irlandesi mentre sui pub troneggiano scritte in onore dei “Lisbon Lions”. E qui che si riversarono gli emigranti provenienti dall'Irlanda a seguito della carestia delle patate scoppiata nella metà del XIX secolo. Ad attrarli il grande porto e i suoi stabilimenti. Un giorno fratello Walfrid, nome religioso di Andrew Kerins, irlandese di Ballymote, fu convocato dal suo arcivescovo che aveva in mente di creare ciò che aveva già preso piede a Edimburgo, ciò che già funzionava con l'Hibernian, ossia una squadra di calcio che raccogliesse fondi da devolvere in beneficenza ai bambini più sfortunati: “Poor Children's dinner table”.
Walfrid è entusiasta del progetto. Si darà subito da fare affittando per 50 sterline un lembo di terra accanto al cimitero di Janefield trasformandolo in un empirico campo da gioco e nel 1888, al grido di “viva San Patrizio”, nasce il Celtic Football Club: una “banda di poveracci” che tira calci a una palla accanto alle lapidi di un camposanto indossando una maglia biancoverde e un quadrifoglio sul petto. Con il tempo diventerà icona, simbolo, rifugio e eccellenza sportiva.
La massiccia iniezione di nuova manodopera provocò malumore nell’altra faccia della città. Quella protestante, presbiteriana, quella dei sermoni infuocati di John Knox a una platea che lo ascolta ma non si muove, perché farsi il segno della croce è da fanatici, da adulatori del Papa e delle sue politiche d'interesse, da superstiziosi cattolici. Le “braccia locali” si vedono sfilare qualche posto di lavoro e in fondo essendo cugini di genesi celtica sono troppo simili per non odiarsi. Ne nacque un attrito via via accresciuto e amplificato.
Nel 1872 erano nati i Rangers anche se alcune cronache non collimano con questa data. Quello che è certo e che nascono dalle idee di quattro padri fondatori. I fratelli Moses e Peter McNeil, Peter Cambell e William McBeath. I primi due sono figli di un giardiniere che lavorava presso la residenza estiva di John Honeyman, un mercante di grano. Per il nome si ispirano a un team inglese di rugby, per i colori al blu scozzese che gli anni a venire macchieranno di una britannicità palesemente ostentata da venature biancorosse, e i cori racconteranno della battaglia del Boyne e di quando Guglielmo d'Orange sconfisse il Re cattolico Giacomo II. Sedi vacanti e provvisorie per i primi anni poi dal 1899 tirano su i mattoni cremisi di Ibrox, il tribunale del popolo, lassù fra Govan e i brividi umidi dei cantieri di Gorbals.
1989/90.
Maurice John Giblin Johnstone, per tutti Mo nasce a Glasgow il 14 aprile 1963. Rossiccio di capelli, qualche lentiggine e lo sguardo di chi conosce le insidie della strada. E' cattolico oltre che calciatore promettente. E per uno nativo di quelle parti il Celtic sembrava la destinazione naturale. Ci arriverà nel 1984 e in tre anni collezionerà 140 presenze siglando 52 reti. Poi arrivano le sirene francesi e l'esperienza nel Nantes.
Nella Loira non smarrisce le sue doti di bomber facendo intendere di non voler più tornare, anzi no, improvvisamente rilancia il suo amore per il Celtic e dichiara che rivuole Parkhead. Frank Mc Avennie, il suo sostituto, se ne ritorna al West Ham. E Johnstone tornerà a Glasgow, sì, ma un attimo, ritorna nella parte blu. Soldi. Il primo giornale a darne la notizia è il Belfast Telegraph (tanto per far capire che una parte consistente di Old Firm si gioca in Irlanda del Nord). I Rangers sotto la pressione di Greame Souness vengono meno alla loro regola storica di non tesserare giocatori cattolici anche se a dirla tutta negli archivi dei Rangers pare ci siano stati precedentemente al “rosso” altri 15 giocatori cattolici nelle loro fila come per esempio il sudafricano Don Kitchenbrand ma l'impatto del profilo di Maurice Mo Johnstone non era certo eguagliabile. Souness risponderà alle domande dicendo:
“Sono scozzese e protestante, capisco certe cose, ma nel calcio come nel mondo moderno non devono contare, io ho il dovere di scegliere i più bravi e poi ho sposato una cattolica figuriamoci se avrò problemi ad allenarne uno”.
Il neo presidente David Murray avalla la scelta del “padrino di Edimburgo”. I tifosi no. Di ambo le parti. Per quelli del Celtic è un “Judas” un traditore. E mentre dall' East End volano offese e minacce, sui cancelli di Ibrox bruciano le sciarpe dei Rangers e vengono stracciati gli abbonamenti. Edminston Drive venne presa d'assalto.
Nemmeno una subdola regia occulta avrebbe fatto meglio, visto che il calendario riportava 13 luglio guarda caso nel bel mezzo delle marce orangiste. Johnstone fu costretto a difendersi da tutti. Da quelli dei Rangers e da quelli del Celtic. Per muoversi avrà bisogno di tre guardie del corpo. Stessa storia per la moglie e i quattro figli. Fu persino costretto a prepararsi da solo la divisa in quanto il magazziniere si rifiutava di farlo.
Billy McNeill, l'allenatore del Celtic, non avrà mezze parole: “Non lo posso perdonare e credo che nemmeno i fans lo faranno mai perché ha mancato di rispetto a tutti a noi e alla nostra causa”.
Ma nonostante tutto Johnstone dimostrerà una forza di carattere notevole. Sterline o meno giocare in quella situazione sarebbe stato impossibile per tutti.
Invece se ne andrà da Ibrox solo nel 1991 dopo aver segnato 46 reti ed essersi lentamente ingraziato il sostegno della gente.
Oggi le cose sono cambiate, il settarismo è più attutito.
In ogni caso evitate di segnarvi o di mimare flauti orangisti, non si sa mai. (Boruc e Gazza docet)
di Simone Galeotti
29 ottobre 2024
ROBIN FRIDAY, il George Best dei poveri.
Non ha mai giocato nella massima divisione inglese, non ha indossato neanche una volta la maglia della nazionale, non ha vinto nemmeno un trofeo. C'è di più, a 25 anni si era già ritirato dal calcio professionistico.
Eppure Robin Friday è un personaggio mitico, un cult hero del calcio d'oltre Manica.
Pare che fosse un fenomeno fin da bimbetto, tanto che attirò l'attenzione dei grandi club della sua città, Londra. Peccato che di bricconate ne facesse già da adolescente. In campo non passava la palla nemmeno sotto tortura, fuori aveva manifestato una certa passione per droghe e alcool, nonché aveva la pessima abitudine di rubacchiare qua e là. A 16 anni la prima esperienza in riformatorio, a 17 il matrimonio “riparatore” con una ragazza di colore. A quei tempi, parliamo di quattro decenni fa, le unioni interrazziali non erano usuali e in tanti, purtroppo, non le vedevano di buon occhio.
Con tutte le difficoltà del caso, Friday continuava a giocare a pallone, sebbene a livello amatoriale. Per tre stagioni mostrò i suoi colpi di genio nelle divisioni non league, divenendo famoso anche per qualche intemperanza di troppo (ben sette le espulsioni comminategli) e numerose bravate (una volta arrivò allo stadio in ritardo di una decina di minuti e, nonostante fosse palesemente ubriaco, realizzò la rete della vittoria).
Il suo talento non poteva passare inosservato e a gennaio del 1974 il Reading (all'epoca compagine di Quarta Divisione) lo mise sotto contratto. Il nostro eroe mise subito a segno grappoli di goal, per la gioia dei tifosi adoranti. Nell'arco di due anni e mezzo i Royals raggiunsero la promozione alla terza serie del football inglese.
Un giorno contro il Tranmere controllò il pallone con la stessa eleganza di Maradona o Pelé e da oltre venti metri scoccò un tiro fantastico che si insaccò sotto al sette. L'arbitro, il futuro internazionale Clive Thomas, si complimentò con lui dicendo che era il più bel gol che avesse mai visto. “Davvero? Dovresti venire qui più spesso, lo faccio ogni settimana” la replica di Friday.
Le marachelle non cessarono, anzi. Durante una partita scorse uno spettatore assaporasse del whisky da una fiaschetta e pensò bene di fare una capatina sugli spalti per chiedergli un sorso. L'arbitro prima gli mostrò il cartellino giallo, poi sentita la sua risposta (“era solo un assaggio prima della pinta al pub”) lo espulse.
Con il Reading – e la sua giovane consorte – le cose finirono male. Il doppio divorzio lo portò a Cardiff, in Seconda Divisione. Lui avrebbe preferito rimanere a Londra, dove Millwall e Crystal Palace avevano manifestato un certo interesse nei suoi confronti. Quando arrivò in Galles non si prese nemmeno la briga di pagare il biglietto del treno, che si dovette accollare il manager dei Bluebirds Jimmy Andrews.
Tuttavia Friday si fece perdonare segnando una doppietta all'esordio con il Fulham. In quel match ebbe l'ardire di strizzare i testicoli a un'icona come Bobby Moore, “precedendo” così Vinny Jones (che qualche anno dopo compì lo stesso gesto nei confronti di Gazza Gascoigne).
La passione, la voglia di dare il meglio di sé in campo – una volta contro il Charlton giocò oltre un'ora con uno zigomo fratturato – era offuscata di continuo dai soliti eccessi. Dopo la sconfitta contro lo Shrewsbury nella Coppa del Galles del 1977, devastò la sala da biliardo dell'hotel tirando le palle a destra a manca, praticamente in costume adamitico.
Quando non si presentò al ritiro pre-stagionale, Andrews decise che la misura era colma. Nonostante ciò diede a Friday un'ultima opportunità. Il fantasista se la spese malissimo. La sua prestazione nello 0-4 a Brighton fu disastrosa, condita da un gesto di estrema follia. Al quarto d'ora del secondo tempo si fece espellere per un calcio in pieno volto a Mark Lawrenson (al quale, vuole la leggenda, sembra abbia pure lasciato un “ricordino” puzzolente nella borsa).
Il buon Robin ne aveva ormai abbastanza del calcio. Si ritirò giovanissimo, si sposò e divorziò altre due volte, passando ogni tanto qualche mese in prigione. Nel dicembre del 1990, a soli 38 anni, gli fu fatale un attacco di cuore. La notizia della sua morte passò inosservata sui media nazionali, ma di Friday negli ultimi anni si sono riscoperte le “imprese” e sono rispuntati un po' ovunque gli aneddoti più curiosi. Una band di Cardiff, i Super Furry Animals, ha usato addirittura una foto che lo ritrae nell'atto di mandare a quel paese il portiere del Luton Milija Aleksic per il suo singolo The Man Don't Give a F**k.
Un titolo che sicuramente sarebbe piaciuto a uno della pasta di Robin Friday.
di Luca Manes
28 ottobre 2024
BACK TO THE “SIXTIES” - LNER, UNA LOCOMOTIVA CHIAMATA..
Le ferrovie hanno sempre giocato un ruolo fondamentale per i sostenitori, trasportandone migliaia, settimana dopo settimana su e giù per l’Inghilterra per seguire il proprio club.
Alla fine degli anni ’30 la London and North Eastern Railway Company decise di denominare venticinque delle sue locomotive con il nome di altrettanti clubs. I clubs erano tutti dell’area coperta dalla LNER, anche se non è tutt’ora chiaro perché alcuni clubs ebbero questo onore ed altri no.
L’elenco completo è il seguente: Manchester Utd, Manchester City, Newcastle Utd, Sunderland, Arsenal, Leeds Utd, Sheffield Utd, Sheffield Wed, Liverpool, Nottingham Forest, Leicester City, West Ham Utd, Tottenham, Huddersfield Town, Darlington, Everton, Norwich City, Doncaster Rover , Bradford PA, Bradford City, Middlesborough, Derby County, Grimsby Town, Hull City e Barnsley. Un aneddoto curioso riguarda la locomotiva chiamata Sunderland; nel 1937 la squadra del nord est raggiunse la finale di FA Cup e richiese alla LNER che fosse proprio la locomotiva “Sunderland” a guidare il treno speciale che doveva trasportare i tifosi biancorossi a Londra.
La compagnia accettò, ma un paio di giorni prima della finale ci si accorse che la locomotiva Sunderland si trovava in officina per delle riparazioni; così staccò la placca di ghisa con nome e colori del Sunderland e la montò su quella chiamata Derby County che fu inviata a destinazione. Solo molti anni dopo si scoprì questo sotterfugio ideato comunque a fin di bene dalla LNER.
Le locomotive in questione macinarono migliaia di miglia all’incirca tra la metà degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’60 quando, progressivamente, vennero sostituite da mezzi più moderni. Man mano che le locomotive venivano tolte dal servizio, le placche con il nome del club venivano staccate e donate al club stesso che solitamente le montava nel main stand. Personalmente ricordo di averne viste montate nelle tribune di West Ham, Doncaster Rover e Hull City. Le placche erano realizzate in ghisa, avevano forma semi ovale con il nome del club, un pallone nel centro ed uno sfondo con i colori sociali.
Questo fenomeno interessò anche il pittore G.S. Cooper, noto illustratore di mezzi di trasporto che dedicò una serie di dipinti a tutte le locomotive in oggetto, rappresentate solitamente in un immaginario scenario in cui passano vicino allo stadio del club in questione. Per terminare un’ultima curiosità: la locomotiva Darlington non doveva esistere ma il mezzo fu costruito proprio lì. Così i lavoratori delle locali officine produssero loro stessi una placca con il nome del club che fu montata sulla locomotiva e lì rimase.
di Gianluca Ottone, da "UK Football please" (giugno 2004)
26 ottobre 2024
"IL MIO ANNO PREFERITO" a cura di Nick Hornby (Guanda), 2008
Che cosa ci spinge a seguire dal vivo, per radio, sul televideo, o addirittura per posta, una squadra di calcio nelle sue non sempre fulgide prestazioni?
Da cosa nasce l'ossessione che ci lega alla nostra squadra del cuore? Attaccamento, esaltazione, fanatismo, ma anche sofferenza, patema, tormento: sono solo alcune delle molteplici sfumature che la passione calcistica può assumere e, quando a metterle sulla pagina sono brillanti scrittori, il lettore riesce ad assaporare il gusto di ogni emozione che il calcio riserva. Una raccolta di storie in cui la passione per uno sport amatissimo si sposa con il talento della scrittura, riuscendo a restituire quel miracolo di ingenuità, irrazionalità e disperazione che è l'essenza del tifo calcistico.
25 ottobre 2024
TOP LADS. Damiano Francesconi, un BHOY sotto ar Colosseo.
Salve. Mi chiamo Damiano, sono di Roma ed ho una smisurata passione per il calcio d'oltremanica fin dai primi anni 2000.
-Di quale squadra britannica sei tifoso e come mai?
Più che britannica mi sento di dire "scozzese" o, meglio ancora, irlandese. Penso che il riferimento sia abbastanza chiaro: CELTIC!
Il motivo è, va detto, molto particolare. Quasi inspiegabile a parole in quanto, questa mia passione biancoverde, è venuta fuori più per dei tratti e sentieri legati alla storia d'Irlanda rispetto al vero e proprio football. Sia chiaro, sono da sempre, un forte appassionato di calcio, ma quando si tratta di Celtic non ci si può soffermare al solo calcio giocato.
Come dicevo, essendo sempre stato appassionato di storia, ho sempre visto con grande interesse la questione sociale legata all'Irlanda. Spesso calcio, storia e questioni sociali, soprattutto oltremanica, si mescolano bene tra di loro e quindi, unendo tutto ciò, venne fuori questo mio ammiccamento per il Celtic.
La prima volta che vidi giocare i Bhoys (in TV) fu nella cavalcata di Coppa Uefa edizione 2002-2003 (persa in finale putroppo) contro il Liverpool ai quarti. La maglia Hoops a strisce orizzontali bianca e verde ed il Celtic Park suscitarono, in me, fin da subito, un forte fascino. Col tempo mi ritrovai a leggere innumerevoli libri riguardati il football e l'arcinota rivalità con i Rangers. L'Old Firm era, penso, la cosa legata al calcio più bella che io avessi mai scoperto all'epoca. Tutto ciò iniziò ad essere "condito" con letture legate alla questione irlandese. Solidarizzando più nei confronti del tricolore irlandese, venne da sè che il mio legame con il Celtic fu ancor più forte di quanto avrei mai potuto immaginare.
Siamo arrivati, oggi che ho 31 anni, al punto che la mia quotidianità, da tifoso, è data da un doppio battito di cuore per le mie due squadre. Una è quella della mia città natale, l'altra è sita, appunto, a Glasgow. Il Celtic è entrato a pieno regime nel mio vivere da tifoso. All'inizio, forse, era una semplice simpatia. Oggi è una costante sotto tanti aspetti non solo legati al campo di gioco. I Bhoys rappresentano, da sempre, un faro per gli ultimi e gli emarginati della società (soprattutto in Scozia ma non solo) ed anche le motivazioni per il quale lo stesso club nacque sono più che nobili.
-Come è iniziata la tua passione per il calcio britannico e quali sono le caratteristiche del calcio britannico che piu' ti piacciono?
La mia passione per il calcio britannico non iniziò, al contrario di ciò che si possa pensare, grazie al Celtic. A dare il via a questa passione fu merito di uno dei club più famosi al mondo. Trattasi del Manchester United. Ebbene, nei primi anni 2000, mi capitava di seguire (in tv o tramite giornali), di tanto in tanto, le gesta di questo club guidato da Sir Alex Ferguson. Vedevo questa squadra in maglia rossa che, ai tempi, era quasi totalmente "Made in UK". In quel periodo si trovava, molto spesso, a darsele di santa ragione, non solo a livello tecnico, con l'Arsenal di Wenger. Il fascino aumentava quando una squadra inglese o scozzese mi capitava di vederla in tv nelle competizioni europee. Quegli stadi, quei campi, quell'atmosfere. Che bellezza!
Con l'avvento di internet, leggendo su vari forum qua e là ampliavo sempre di più conoscenze legate al calcio da quelle parti. Ho un ricordo bellissimo e recentissimo di quando ho avuto il piacere di visitare il Craven Cottage del Fulham. Visitare quell'impianto era un sogno nel cassetto da sempre e, proprio di recente, ho avuto modo di realizzarlo.
Le caratteristiche del calcio britannico che più mi piacciono, tendenzialmente, sono le atmosfere ed il modo di vivere i match da parte dei tifosi. Facendo un paragone con il calcio nostrano, percepisco che, da quelle parti, il football sia parte integrante della quotidianità di una comunità. Se la tua squadra del cuore perde, oltremanica, i tifosi si arrabbiano senza dubbio, ma la cosa poi tende a scemare perchè, comunque sia, il proprio club non può essere discusso. Non a caso, a prescindere dalla categoria, gli stadi sono il più delle volte strapieni a tappo. Il senso di appartenenza territoriale è un fattore chiave. Da quelle parti la gente respira calcio sempre, magari accompagnato da una bella pinta. Nonostante il calcio moderno abbia cambiato (troppo secondo me) le vesti anche da quelle parti, l'anima è rimasta forse ancora intatta. L'anima, si sà, è data dai tifosi che altro non sono il cuore pulsante del football stesso. Quindi, probabilmente, ad oggi, le tradizioni, la passione e gli usi e costumi ancora resistono nel calcio britannico anche se la pelle, leggermente è cambiata anche a fronte, come detto, dei tempi moderni.
Atmosfere, stadi, territorialità e forte appartenenza. Questo è il calcio d'oltremanica per me!
24 ottobre 2024
"HOOLIGAN. Storia Violenta Del Tifo Inglese" di Indro Pajaro (Ultra Sport), 2022
L’hooliganismo è stato indubbiamente il fenomeno sociale più forte ed estremo fra quelli prodotti dal calcio, e in particolare dal calcio inglese.
Il documentatissimo saggio di Indro Pajaro ne descrive l’evoluzione, contestualizzandone storicamente le origini, il suo impatto sull’industria calcistica, le risposte governative per arginarlo e l’avvento delle sottoculture nell’Inghilterra post-bellica, che si rivelarono essenziali nel plasmare e definire i nuovi orizzonti del tifo violento. Ad agevolarne la diffusione, però, furono soprattutto i media, che amplificarono involontariamente i suoi effetti, diffondendo un immotivato panico morale. Ma a funestare il football furono anche impianti fatiscenti, club e istituzioni disinteressate a garantire adeguate condizioni di sicurezza e una pessima gestione dell’ordine pubblico. Il terribile mix di questi elementi risultò letale negli anni Ottanta, decennio chiave nel quale avvennero le più terribili tragedie negli stadi. Se quella dell’Heysel nel 1985 fece da spartiacque nella storia dell’hooliganismo, quella di Hillsborough del 1989 segnò il punto di non ritorno. Bisognava riformare tutto, e a fornire il manuale delle istruzioni ci pensò l’indagine del giudice Taylor, vero e proprio salvagente in grado di dare nuova vita a un movimento al collasso. La combinazione di leggi punitive e controllo, la trasformazione degli impianti, la responsabilizzazione delle società e un’alterazione culturale dei tifosi permisero a quello che fino ai primi anni Novanta era il più disastrato movimento calcistico europeo di diventare uno spettacolo, dentro e fuori dal campo. Non perché l’abbia voluto, ma perché è stato costretto.
Gli anni neri del BRISTOL CITY
Quella maturata nel maggio 2007 con la sconfitta contro l’Hull City, nel nuovo stadio di Wembley, nella finale dei playoff promozione dalla Championship alla Premier League con gol dell’intramontabile quarantenne Dean Windass è stata sicuramente una grande delusione per i tifosi del Bristol City, mai così vicini, negli ultimi anni, a un ritorno nella massima serie del calcio inglese.
Questa delusione, però, seppur grande, né niente se paragonata alle sofferenze che dovettero patire i supporter dei Robins tra la fine gli ultimi mesi del 1979 e il maggio del 1982.
Nel 1979 il Bristol City militava nella First Division, allora corrispondente alla nostra serie A e veniva da un ottimo campionato nella stagione precedente: al guida del team del sud dell’Inghilterra si trovava ormai da più di un decennio (avendo assunto l’incarico nel 1967) Alan Dicks e l’obiettivo della squadra era quello di conquistare un’altra tranquilla salvezza. I piani della dirigenza di Ashton Gate sembrarono subito prendere la strada giusta quando, dove il pareggio per 2-2 sul campo del Leeds all’esordio e la sconfitta casalinga contro il Coventry, Joe Royle e compagni infilarono due vittorie consecutive contro l’Aston Villa e sul campo del Wolverhampton, entrambe con il punteggio di 2-0. Dopo la sconfitta per 1-0 contro l’Ipswich Town, la squadra di Dicks riuscì a inanellare sei risultati utili nelle successive sette partite: il problema, però, è che di questi, ben cinque furono pareggi (l’unica vittoria fu quella per 1-0 sul campo del Coventry City, mentre la sconfitta arrivò ad Ashton Gate contro il Liverpool con il punteggio di 4-0). Il Bristol City, dunque, non navigava in acque tranquillissime di classifica e le cose vennero ulteriormente complicate dalle tre sconfitte contro Arsenal, Derby County e Middlesbrough intervallate dall’unico successo, con il punteggio di 3-1, contro il Leeds. L’affermazione in casa del Manchester City per 1-0 e il pareggio casalingo con il Bolton sembrarono ridare slancio al campionato e alle ambizioni di permanenza nella massima serie del Bristol City che però, nelle settimane successive fu costretto a scontrarsi brutalmente con la realtà dei fatti: gli uomini di Alan Dicks infatti incassarono infatti dall’8 dicembre 1979 al 2 febbraio 1980 ben otto sconfitte, interrotte soltanto il giorno di Capodanno con il 2-2 contro il Brighton & Hove Albion. I Robins ebbero un moto d’orgoglio tra il 9 e il 19 febbraio quando pareggiarono in casa contro il Nottingham Forest ed espugnarono poi, in uno scontro diretto per la salvezza, Goodison Park, sconfiggendo l’Everton per 2-1. Il calendario, però, non diede una mano al Bristol City che nelle seguenti quattro partite fu costretto ad affrontare Manchester United, Liverpool, Crystal Palace e Arsenal, racimolando soltanto un punto e tornando a staccarsi dalle posizioni che valevano la salvezza. Un distacco che ormai si era fatto incolmabile o quasi, ma che l’undici di Aston Gate ebbe quasi la forza di colmare con i pareggi per 3-3 contro il Derby County e per 0-0 contro il West Bromwich Albion e le vittorie per 1-0 sul Brighton & Howe Albion e per 2-1 in trasferta sul Bolton. Questo rush finale, però si interruppe bruscamente visto che il Bristol City inanellò tre sconfitte negli ultimi cinque match e a nulla valsero il successo per 3-1 sul campo del Middlesbrough e il pari per 0-0 nell’ultima gara della stagione sul campo del Tottenham. Il Bristol City, dunque si piazzò 20° su 22 squadre con 36 punti (5 in meno dell’Everton, ultima squadra a salvarsi) e dovette così abbandonare la First Division per cimentarsi, la stagione successiva in Second Division, equivalente alla nostra serie B.
La stagione 1980-81 si aprì ancora con Alan Dicks in panchina, ma l’avvio di campionato fu a dir poco disastroso, specie se si considera che il Bristol City era appena retrocesso: nei primi tre match arrivarono soltanto tre pareggi contro Preston North End, West Ham United e nel derby contro il Bristol Rovers. Il mese di agosto, dunque, non fu positivo per i Robins e si concluse ancora peggio di come già stesse andando con la prima sconfitta stagionale, il 30 agosto, in casa contro il Watford con il risultato di 1-0. Questo ko innescò una spirale negativa, visto che in settembre il Bristol City perse ben quattro partite consecutive, segnando peraltro solo una rete, a cui poi si aggiunse un quinto risultato negativo, il 4 ottobre, con lo 0-1 casalingo subito dal Grimsby Town. Tutto ciò, oltre a condannare il City a una posizione nelle zone bassissime della classifica portò anche a un ribaltone in panchina: via dopo tredici anni Alan Dicks e incarico di allenatore affidato a Bob Houghton. Il cambio di guida tecnica, almeno inizialmente, si rivelò proficuo per i Robins che espugnarono i campi di Luton Town e Newcastle e pareggiarono in casa contro il Bolton, un’altra delle retrocesse dalla First Division. Questa continuità di risultati positivi, però, venne subito spezzata dalla sconfitta casalinga contro il Wrexham, a cui seguirono il 2-2 contro il Derby County e un’altra battuta d’arresto (1-3) contro il Leyton Orient. L’8 novembre i Robins ebbero un moto d’orgoglio sconfiggendo in trasferta il Blackburn per 2-0, ma da quel giorno la vittoria mancò per più di un mese: dopo tre sconfitte e due pareggi, infatti il team di Ashton Gate tornò a fare bottino pieno soltanto il 13 dicembre con un 3-1 sul campo del Bolton Wanderers. Anche questo risultato, però, finì per rivelarsi un fuoco di paglia, visto che fu seguito da cinque pareggi nelle successive sei partite (tra l’altro i Robins non segnarono nemmeno un gol, visto che i pari furono tutti con il risultato di 0-0 e la sconfitta con il Cambridge venne caratterizzata dal punteggio di 0-1). A poco valse, dunque, l’affermazione per 1-0 sul campo dello Sheffield Wednesday il 7 febbraio 1981, tanto più per il fatto che a questo match vittorioso ne seguirono altri sette in cui il Bristol City riuscì a inanellare solamente due punti con i pareggi contro Grimsby Town e Swansea.
A questo punto (siamo a fine marzo 1981) la stagione è praticamente compromessa per l’undici di mister Houghton che ormai vede materializzarsi lo spettro della seconda retrocessione consecutiva: nelle sei partite che mancavano alla fine della stagione il Bristol City riuscì a migliorare il proprio rendimento con due successi (di cui uno per 3-2 nello scontro diretto contro il Cardiff), due pareggi e “soltanto” altrettante sconfitte, ma questo risveglio tardivo non bastò e così i Robins chiusero al penultimo posto con 30 punti (6 in meno del Cardiff, con i Blue Birds ultima squadra a occupare una posizione che garantiva la salvezza) e la retrocessione in Division Three. A sollevare parzialmente il morale dei tifosi di Ashton Gate la retrocessione anche degli acerrimi rivali cittadini del Bristol Rovers, che chiusero in ultima posizione: al di là dei campanilismi, però, la stagione 1980-81 è sicuramente una delle più nere per il calcio della cittadina del sud dell’Inghilterra.
Per il Bristol City, però, la lenta e inesorabile discesa non era ancora finita: due retrocessioni consecutive avevano condotto la società sull’orlo del fallimento e comunque ad affrontare gravi problemi economici. In ogni caso la squadra riuscì, per la stagione 1981-82 a iscriversi al campionato di Third Division, la terza serie del calcio inglese. In panchina, almeno per la prima parte della stagione, ancora Bob Houghton. L’inizio di campionato è incoraggiante per i Robins con due pareggi e due vittorie nelle prime cinque partite, ma le tre sconfitte con soltanto due pareggi nelle successive cinque gare, fecero capire ai supporter di Ashton Gate che ci sarebbe stato da soffrire, e parecchio, anche nella Third Division. Queste paure vennero momentaneamente allontanate dai due successi consecutivi ottenuti sul campo del Reading (2-0) e in casa contro il Lincoln City (2-1) a fine ottobre e accompagnati poi anche dal pareggio per 0-0 a Chesterfield. A novembre e dicembre, però arrivarono quattro sconfitte sui sei match disputati che fecero ripiombare la squadra in piena zona retrocessione: particolarmente “sanguinoso” fu il ko casalingo per 1-0 ad Ashton Gate contro il Bristol Rovers che, tra l’altro, stava veleggiando verso una tranquilla salvezza. Con l’inizio del 1982, per cercare di dare una scossa a tutto l’ambiente ci fu un altro avvicendamento in panchina con Roy Hodgson (poi divenuto allenatore dell’Inter e ora manager del Fulham) che prese il posto di Bob Houghton.
L’inizio dell’anno che avrebbe portato ai Mondiali di Spagna, però, non fu particolarmente incoraggiante, con una pesante sconfitta per 3-1 sul campo del Wimbledon (ora Milton Keynes Dons) e tre pareggi consecutivi. Febbraio fu invece un mese che il Bristol Rovers riuscì a chiudere con un saldo positivo (tre successi contro Walsall, Exeter City e Preston North End e due sole sconfitte). Per la truppa di Hodgson la salvezza, dunque, tornò a essere un obiettivo raggiungibile, ma ancora una volta, come già accaduto nelle precedenti stagioni, a spegnere del tutto le speranze si materializzò una lunga serie di sconfitte: furono infatti ben 10 in 12 partite (le prime sei consecutive) tra il 6 marzo e il 24 aprile 1982 con gli unici risultati positivi costituiti dai pareggi per 1-1 sul campo del Carlisle United e per 0-0 ad Ashton Gate contro il Chester City. Un ruolino di marcia assolutamente negativo che, a maggio 1982, portò all’accantonamento di Roy Hodgson a cui successe Terry Cooper, che rimarrà in carica fino al marzo del 1988, nonostante le grandi vicissitudini societarie di cui tra poco daremo conto. Cooper, comunque, non riuscì a fare il miracolo nonostante nelle ultime sei gare riuscì a racimolare tre vittorie, due pareggi e una sola sconfitta. Il 18 maggio 1982, così, il Bristol City con il pareggio 2-2 ad Ashton Gate contro il Doncaster Rovers chiuse la sua avventura in Third Division in penultima posizione con 46 punti, 7 in meno del Walsall e della zona salvezza, diventando così la prima squadra inglese a subire tre retrocessioni consecutive. L’impresa, se così si può chiamare, venne eguagliata qualche anno dopo, sempre negli anni ’80, dal Wolverhampton Wanderers.
A complicare ulteriormente le cose, la crisi finanziaria della società divenne irreversibile e venne dichiarata la bancarotta: il Bristol City riuscì però quanto meno a salvare la propria esistenza con la fondazione di una nuova società a responsabilità limitata, il Bristol City Football Club che ripartì, come da verdetto del campo, nella stagione 1982-83 dalla Fourth Division. Fondamentale, per la sopravvivenza dei Robins anche il gesto dei cosiddetti “Asthon Gate Eight” (Julian Marshall, Chris Garland, Jimmy Mann, Peter Aitken, Geoff Merrick, David Rodgers, Gerry Sweeney e Trevor Tainton), tutti giocatori dagli ingaggi elevati e che accettarono di dimezzare i propri contratti e di lasciare il club pur di garantire la sua sopravvivenza. Ed è dunque merito anche loro se il Bristol City ha rialzato la testa e ora, pur non avendo raggiunto i fasti di fine anni ’70, lotta stabilmente nelle zone medio-alte di classifica della Championship, la serie B inglese.
di Giuseppe Maiorana
23 ottobre 2024
Quando lo Stoke City faceva lo spendaccione...
Negli anni Settanta l’abitudine ormai inveterata dei club inglesi – non solo di Premier – di vivere al di sopra dei loro mezzi era ancora ben lontana dal manifestarsi.
I costi erano più contenuti, i dirigenti non vivevano alle spalle delle società, gli agenti non strappavano commissioni milionarie e soprattutto i giocatori non avevano contratti da nababbi. Certo, gli introiti erano minori, ma ce li si faceva bastare.
C’erano però anche allora delle eccezioni di rilievo. Una era senza dubbio rappresentata dallo Stoke City. Una realtà storica del calcio d’oltre Manica – nata nel 1863, è stata tra i membri fondatori della Football League – che per lunghi periodi ha trascorso scialbe stagioni lontano dalla massima divisione. Solo con l’enfant du pays Stanley Matthews negli anni Trenta i Potters riuscirono a sollevarsi un po’ dalla mediocrità che li contraddistingueva, senza tuttavia vincere nessuna competizione di rilievo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale arrivarono altre annate cupe e bisognò attendere fin verso la metà degli anni Sessanta per rivedere qualche sprazzo degli antichi bagliori. Merito, come spesso accade, di un manager valente come Tony Waddington, bravo a saper sfruttare al meglio l’esperienza di giocatori affidabili ma un po’ in là con l’età come Dennis Viollet, Maurice Setters e Jimmy McIlroy e a strappare alla concorrenza il fenomenale portiere campione del mondo con i Tre Leoni nel 1966, Gordon Banks.
Lo Stoke provò a recuperare il tempo perduto scalando posizioni in campionato e facendo strada nelle coppe. In FA Cup centrò due semifinali consecutive nel 1971 e nel 1972, trovando però sempre la strada sbarrata da un Arsenal d’antan (così forte che nel 1971 centrò addirittura il double). Ma nel 1972 i Potters riuscirono finalmente a mettere le mani sul primo trofeo della loro storia ultracentenaria, sconfiggendo 2-1 il Chelsea di Peter Osgood nella finale di Coppa di Lega.
Nel 1974-75 terminarono la First Division a soli quattro punti dal Derby County campione, orfano di Nigel Clough ma allenato dal suo pupillo Dave Mackay.
A difendere i pali di quella squadra c’era Peter Shilton, un altro portiere acquistato dal Leicester City, come Banks – nel frattempo ritiratosi per problemi di salute. La stella costata un mucchio di denaro – 325mila sterline, per l’epoca un vero e proprio cifrone – doveva servire a garantire il salto di qualità definitivo. A dirla tutta sarebbe stato meglio investire quei soldi in maniera più oculata, per esempio trovando un degno sostituto al centravanti John Ritchie (capocannoniere della storia dello Stoke con 171 reti), che proprio nell’estate del 1975 aveva deciso di appendere le scarpe al chiodo. Oppure lasciare quel denaro nelle casse societarie, visto l’uragano che si stava per abbattere sui poveri Potters.
La copertura assicurativa si rivelò tragicamente inadeguata, solo una piccola porzione dell’ingente fattura per i costi di riparazione. La dirigenza dello Stoke capì che erano finiti i tempi di vacche grasse, che i debiti andavano ripagati e anche di fretta. Bisognava vendere i pezzi pregiati dell’argenteria di famiglia. Jimmy Greenhoff, l’idolo della tifoseria biancorossa, si accasò malvolentieri al Manchester United, Alan Hudson passò all’Arsenal e Mike Pejic fu venduto all’Everton.
Nessuno si sorprese allorché già nel 1977 la squadra retrocesse in Second Division. Ci sono voluti decenni, ma ora gli Stoke hanno cancellato per sempre le ferite di quella terribile notte di burrasca che li mise in ginocchio, almeno dal punto di vista economico. Il revival biancorosso procede alla grande. Il team non pratica un gioco spettacolare, ma trasuda concretezza e solidità da tutti i pori, mentre la gestione societaria è quanto mai attenta.
Questa volta non basterà un colpo di vento per spazzar via i sogni di gloria.
di Luca Manes
22 ottobre 2024
"IL TEMPO DEI LUPI, i Wolves da Buckley a Cullis" di Joel Da Canal (Urbone), 2022
A volte la storia di un club cambia radicalmente quando un singolo personaggio incrocia il suo cammino e ne forgia il destino. Per i Wolves i personaggi sono stati due: un maestro e un allievo. Frank Buckley, il Maggiore, ha portato la sua filosofia nel club delle West Midlands, una squadra storica (tra i fondatori della Football League), ma incapace di uscire dalla mediocrità di inizio secolo. Stan Cullis, che dei ragazzi allenati da Buckley è stato il capitano e leader in campo, ne ha raccolto l’eredità e completato il lavoro, riempiendo di titoli la bacheca dei Wanderers. Due uomini legati non solo dall’amore per il calcio e per il gold and black, ma anche dalle esperienze belliche. Dai titoli sfiorati da Buckley ai trionfali anni Cinquanta di Cullis, dominatore del decennio insieme all’amico Matt Busby e al suo Manchester United. La nascita e l’evoluzione di una dinastia calcistica. Il visionario che ridestò dal torpore un antico gigante addormentato. L’allievo che incarnò in campo lo spirito del suo allenatore e realizzò in panchina i suoi sogni di gloria. Buckley e Cullis, due manager per un’unica grande storia gold & black.
L'epopea dei Tractor Boys.
L'ultima luce del giorno comincia a calare, sotto un cielo basso, plumbeo. I contorni delle cose scompaiono nella penombra. La linea dell'orizzonte si serra piano.
Scende la notte sul Suffolk. Non si vede più nulla. Gli uccelli tacciono.
Là dove si udiva gorgogliare un usignolo nella boscaglia, adesso non si percepisce alcun suono, alcun segno di vita. Solo silenzio. Villaggi, fiumi, alberi, vecchie cattedrali nascoste da querce secolari. C'è molta letteratura, in questa contea.
Ce n'è nei bow-window ordinati e composti, nelle minuscole, innumerevoli sale da tè, nei cottage tirati a lucido, nei negozietti di antiquariato in puro stile Miss Marple, nei pub col camino acceso in piena estate.
C'è letteratura, nel senso del decoro, dell' amore per l'arte. L'idea che in fondo la natura stessa sia espressione culturale. Eppure qui il paesaggio può avere tratti corruschi, se non brutali. Qui è nato George Orwell.
A Lowestoft sbarcò per la prima volta in Inghilterra il riservato capitano di marina polacco Jozef Korzeniowski, divenuto qualche anno dopo il più celebre Joseph Conrad. Penelope Fitzgerald vi ambientò il suo delizioso romanzo- rivelazione, 'La libreria'. Ci veniva anche Winston Churchill in vacanza: scendeva nel candido e rilassato Swan Hotel, il migliore della zona. E dopo i fatidici anni thatcheriani, anche qui la svolta: Ed è ancora il turno dell'intellettualità, quella che a Londra vive a Islington e ama mangiare pane, olio e una tonnellata di aglio. Così negli anni scorsi è arrivato buon ultimo Gordon Brown, attirando riflettori mediatici molto poco amati da queste parti.
La costa poi è uno scorcio di paradiso, anche quando il tempo è freddo, segretamente luminoso e il mare del nord appare minaccioso. Potreste avere l'impressione di trovarvi in un teatro a cielo aperto e rischiereste di non sorprendervi se davanti a voi il sipario naturale si aprisse, e compaia, dalla nebbia sospesa sul mare, la flotta olandese che il 28 maggio 1672 aveva aperto il fuoco contro le navi inglesi radunate nella baia di Soutwold.
Ma il Suffolk è anche Ipswich.
La città ha svolto un ruolo importante nella storia d’Inghilterra per quasi 1500 anni ed è stata il centro del paese per tutto il XVII secolo per chi voleva emigrare verso il nuovo mondo. Non solo, Ipswich ha saputo conservare tutte le traccie del passato, con i suoi splendidi edifici vittoriani, e altri ancora più datati in stile Tudor. Tanta storia insomma, e un centro pieno di vita con i suoi tanti bar, pub, cinema, teatri, chiese, e torri medievali dove antiche presenze fluttuano senza pace. E se avete qualche sterlina da spendere ecco il quartiere commerciale di Buttermarket. Ma impossibile scindere Ipswich dalla sua campagna. E campagna significa anche agricoltura, significa anche cavalli. Il più nobile e bello fra gli animali. E allora non poteva essere che un cavallo a rappresentare la locale squadra di calcio.
Una razza autoctona come simbolo del Ipswich Town Football Club: Il Suffolk Punch. Fu adottato nel 1972 a seguito di un concorso vinto da John Gammage il tesoriere del club, che nel tempo ha avuto vari restyling mantenendo però sempre la stessa conformazione a "scudo merlato" con la tonalità di blu preminente alternato dal giallo oro o dal rosso. L'unico cambiamento grafico consistè nella resa grafica del cavallo, reso più somigliante appunto all'equino regionale. Il sodalizio muove i suoi primi passi nel 1878 come semplice squadra amatoriale con il nome di Ipswich A.F.C., ricevendo nel 1892 la gradita visita di una delle squadre più in voga in quegli anni ovvero il Preston North End, seguita sei anni dopo da quella dell' Aston Villa.
Nel 1888 arriva la denominazione definitiva di Ipswich Town F.C., in occasione della fusione con l'Ipswich Rugby club. Si susseguiranno annate di tornei locali puntellati da qualche alloro, fino a che nel 1936 arriverà la consacrazione dello status di professionismo e nel 1938 l'iscrizione nel registro dei grandi della Football League. Ma ci stiamo dimenticando della casa, dello stadio che dal 1884 ospita i Tractor Boys: Portman Road.
Dove la polvere del tempo ne avrebbe di storie da raccontare. Fascino vecchio stile, sfuggente e arcano, un impianto che ha visto tutto e ancora anela alla gloria. Come quella grande, unica e sorprendente, del 1962 quando con Sir Alfred Ramsey in panchina qui arrivò niente meno che il titolo di campioni d'Inghilterra. Fu un autentica sorpresa. Sull' onda emotiva della promozione in First Division i Tractor Boys non reciteranno nessun ruolo da comprimario, saranno loro gli attori principali. Il capocannoniere del torneo vestirà proprio la maglia blu, si chiama Ray Crawford e forse un po' di blu lo porta da sempre nel cuore visto che è nato a Portsmouth. Metterà a segno qualcosa come 33 reti, coadiuvato dalla prolificità offensiva di Ted Phillips che raggiungerà anche lui un eccellente bottino personale fatto di 27 centri. Ma non stupitevi. Erano anni strani quelli, che profumavano di novità.
Mary Quant stava progettando la minigonna, esplodeva la pop art, i Beatles dopo il periodo tedesco iniziavano a raccogliere meriti e attenzioni, e il sogno di Martin Luther King conquisterà il nobel per la pace, nonostante in Vietnam esplodano i primi bagliori di una guerra crudele. Ad Alfred Ramsey a Ipswich hanno dedicato una statua, una via, e una tribuna. La sua era si concluse l'anno successivo alla vittoria in campionato.
Dopo l'esperienza europea in Coppa dei Campioni che terminò contro il Milan di Rocco, che poi avrebbe vinto la manifestazione a Wembley contro il Benfica. Quell' Alf Ramsey che quattro anni dopo regalò per la prima e unica volta la coppa del mondo al suo paese. Fotogrammi impressi a fuoco nei ricordi degli inglesi. Tasselli lucenti nel mosaico della memoria. Le maglie rosse, l'eleganza e la raffinatezza di Bobby Moore che quando giocava sembrava davvero un obelisco egizio in un recinto di barbari, l'“in or out” di Geoff Hurst, e perché no, anche un cagnolino dal nome simpatico: Pickles. In marzo mentre Scotland Yard sta impazzendo a causa del furto della coppa Rimet, ritroverà il trofeo nascosto in un cespuglio di un parco londinese. Per trovare la statua di Ramsey e Portman Road basterebbe semplicemente scendere alla stazione e fare qualche passo a piedi, oppure se siete dall'altro lato del fiume, superare l'Orwell, affiancare il Punch&Judy, un pub familiare e pittoresco in Grafton Road, proseguire senza lasciarvi tentare da una pinta di birra, immettersi in Princes Road, e appariranno i riflettori dello stadio e la sua struttura. E' apparirà anche un altra statua, altro bronzo, altra sagoma, altre lettere scolpite nel marmo, altri momenti magici per l'Ipswich Town. E' quella di Robert William Robson per tutti Bobby, nato a Sacriston a poche miglia da Durham il 18 febbraio 1933. Robusto, tenace, un sorriso sempre accennato, due occhi chiari che prima ti penetrano l'anima e poi si allontanano indefinitamente.
E' il quarto di cinque figli di una famiglia operaia. A pochi mesi dalla nascita si trasferisce a Langley nel profondo nord inglese, gente dura e orgogliosa, raffiche di vento, pioggia, ferro e miniere, dove il padre Philip aveva trovato un posto di lavoro. Si innamorerà del calcio e il sabato con qualche sacrificio si farà accompagnare a St. James's Park a vedere il Newcastle. Il ragazzo ha classe, nel 1950 arriverà il primo contratto da professionista con il Fulham, ma nonostante le prime sonanti sterline il padre voleva che continuasse a lavorare come elettricista. Perché non si sa mai, ed è sempre bene avere un mestiere in mano. E per po' riuscì a far convivere palloni e fili elettrici. Ma alla fine ovviamente si dedicò al calcio a tempo pieno. Fulham, quindi, ma anche WBA, e poi ancora Fulham, più 20 presenze e quattro reti con la nazionale di sua maestà. Il contatto con Ipswich arriva nel gennaio del 1969 dopo che l'anno precedente c'era stata una prima infarinatura nel ruolo di manager a Craven Cottage. Arriva a sostituire Bill McGarry che la stagione precedente aveva avuto l'onore di riportare i Tractor Boys nella massima serie. Dopo quattro stagioni mediocri, Robson condusse l'Ipswich Town al quarto posto nella First Division e al trionfo nella Texaco Cup nella stagione 1972-1973.
Ma le ciliegine sulla torta della sua esperienza a Portman Road dovevano ancora arrivare.
La prima è datata 1978. La data esatta, 6 maggio 1978. L'Ipswich vince la sua prima FA Cup. Un Ipswich Town che era stato bollato dai media come gli ingenui cugini di campagna, e che prima della finale sembrava avesse davvero ben poche possibilità di battere un Arsenal, che vantava Supermac, il micidiale attaccante Malcolm MacDonald. Eppure, Bobby Robson guidava una squadra che aveva concluso l'anno precedente al terzo posto in campionato e che nel cammino verso la finale aveva dimostrato carattere e buone geometrie, e che nel sesto turno si era presa l'ardire di fare sei reti al Den al cospetto degli sguardi torvi del pubblico di fede Millwall. Poi a Highbury contro il WBA venne guadagnata la chiave per le porte dorate di Wembley con un perentorio 3-1.
E' la squadra di Paul Mariner, capelli lunghi, faccia da pirata, malizia da vendere. Al 10' un suo tiro a botta sicura colpisce la traversa . Entrambe le compagini sono state perseguitate da infortuni, lo stesso MacDonald dei gunners ha lottato con un infortunio al ginocchio che successivamente lo indurrà addirittura a una fine prematura della sua carriera. L' Ipswich continua a attaccare. Vuole scrollarsi di dosso l'etichetta di perdente sicuro. Pat Jennings portiere dell' Arsenal compie un salvataggio incredibile sul giovane terzino destro George Burley. Sembra davvero stregata la porta dei londinesi tanto che John Wark centrerà per ben due volte il legno del montante. Wark è scozzese di Glasgow.
Fu scoperto dal talent scout George Findlay che dopo un provino fallito a Manchester lo portò a Ipswich. Grinta, baffo incolto, e sguardo di chi la sa lunga. Segnerà valanghe di reti. Non in quella finale, però. A risolvere il match ci penserà Roger Osborne su invito di David Geddis e a dirla tutta con la complicità del difensore in maglia gialla Willie Young.
La sua gioia fu talmente incontrollabile che un minuto dopo fu sostituito da Mick Lambert. Aneddoto curioso di una giornata indimenticabile per il club del Suffolk. Ma la gloria di quel pomeriggio di Wembley, sarà affiancata tre anni dopo da una soddisfazione che ancora oggi viene ricordata con grande affetto e un briciolo di stupore mai sopito dalle parti di Portman Road, ovvero la straordinaria vittoria nella Coppa UEFA del 1981. Il pass per la manifestazione continentale era stato acquisito grazie a un eccellente terzo posto in campionato alle spalle del Liverpool campione, e del Manchester United ottimo secondo.
Non era cambiata molto la squadra rispetto a quella che aveva trionfato in FA Cup tre anni prima. Il fascino del calcio totale olandese aveva portato due tulipani alla corte di Robson: Frans Thijssen e Arnold Murhen. Entrambi arrivano dal Twente. Entrambi centrocampisti. Sembrano due pittori fiamminghi della scuola di Van Eyck. Occhi luminosi e goliardia innata. Non dipingono a olio su tela, non hanno pennello e colori, ma porteranno ugualmente, sebbene su un rettangolo verde, la stessa visione e spazialità degli artisti di questa corrente pittorica. Si consolideranno Terence “Terry” Butcher, e Alan Brazil. Butcher “il macellaio” è un difensore centrale che nasce calcisticamente proprio a Ipswich. Un autentico colosso ghignante di quasi due metri. Sembra uscito da un corridoio della torre di Londra, dopo un intrigo ordito da Enrico VIII. Alan Brazil invece è un attaccante nato nel 1959, ricci clowneschi e la faccia da bravo ragazzo. Ma gli avversari non rideranno, nemmeno un po'. Segnerà 70 goal in 154 presenze con i blues. Il cammino europeo miete nei primi turni, Aris Salonicco, Bohemians Praga, e Widzew Lodz. Poi a provare a intralciare la strada ai Tractor Boys ci prova Monsieur Michel Platini con il suo Saint Etienne. Non ci riuscirà. Anzi sarà una disfatta per i francesi, come a Crecy come a Agincourt come a Trafalgar. Perderanno in casa e fuori, e sonoramente. Quattro a uno in Francia, Tre a uno in Inghilterra. In semifinale l'ostacolo si chiama Colonia. Le caprette.
E vuoi che nelle campagne del Suffolk si tema un piccolo gregge di undici uomini in bianco? Anche qui doppio successo. Uno a zero fra le mura amiche, uno a zero al Mungerdorf.
I pastori? John Wark e Terry Butcher. Arriva la finale, arrivano gli olandesi del AZ 67 di Alkmaar. I tornelli di Portman road nella gara di andata lasciano passare ufficialmente 27.532 spettatori.
Le porte difese da Eddy Treijtel, estremo difensore dell' AZ invece lasciano passare tre palloni. Sul primo c'è la firma di Wark sul secondo quella di Thijssen, sul terzo quella di Paul Mariner. Sembra fatta ma la gara di ritorno da giocare in Olanda potrebbe rivelare comunque qualche insidia. Sarà una partita tirata giocata allo stadio olimpico di Amsterdam, dove le marcature dei soliti Thijssen e Wark renderanno meno aspra la sconfitta per 4-2 ma che sopratutto garantiranno la vittoria, e una folla in delirio a Ipswich. Era il maggio del 1981. Io ero solo un bambino. Oggi Bobby Robson non c'è più, se l'è giocata fino alla fine. Non sempre le cose vanno come si vuole ma bisogna accettarlo. Ma quella foto in cui sorridente solleva la coppa è sempre un ricordo dolce. Così lontano, eppure ancora così presente, vivo. Sarà che sto invecchiando, che le mie memorie calcistiche sono come un romanzo. Sarà che è difficile far capire ai giovani la bellezza di quel calcio, e la nostalgia mi fa parlare più del dovuto. Ma c'è sempre bisogno di bellezza, di bellezza e di poesia, di aria fredda e di una sigaretta. Peccato che ho smesso di fumare.
di Simone Galeotti
21 ottobre 2024
GLENN HODDLE. The playmaker
È un po' di tempo che non guardo più volentieri le partite di calcio in Tv. Sembrano tutte uguali, scontate, prive di fantasia e piene di gabbie tattiche. Per chi è nato e cresciuto con il calcio romantico, con le giocate sopraffine, con la qualità come eccellenza e garanzia di spettacolo, sono davvero tempi duri. Era affascinante il calcio di una volta. Era bello inglese quello degli anni Ottanta. Quel calcio che magari non brillava in tecnica ma che era un continuo duello rusticano, una coperta romantica per le fredde serate invernali. Così ogni tanto colto dalla nostalgia, vado a curiosare su internet e mi vado a leggere qualche articolo sul calcio inglese. A volte mi affido a YouTube e vado a cercare qualche match remoto che mi porti felicemente indietro nel tempo. Ogni volta ne esco sbalordito.
Impressionato nel constatare che esistevano una sfilza di fantastici giocatori, tutti quasi sullo stesso livello: elevatissimo. Parliamo di giganti. Di calciatori sopraffini, fantasiosi, istintivi. Dei veri giocolieri. Atleti che avevano spesso una caratteristica comune; danzavano con il pallone tra i piedi senza dare mai l’impressione di forzare le cose. La “toccavano piano”. Accarezzavano la sfera di cuoio e con pochi tocchi o con un lancio calibrato, innescavano un contropiede vincente che poteva cambiare totalmente l’inerzia di una gara. Glenn Hoddle era sicuramente uno di quei tanti giganti. Collocazione Inghilterra. Londra. Tottenham. mezzala, regista, trequartista, a volte attaccante aggiunto? E chi lo sà. Questa era la vera difficoltà. Come collocarlo in mezzo al campo. Che posizione assegnarle. A me è sempre piaciuto immaginarlo come un Playmaker da dove tutto partiva e spesso tutto finiva. Come quel gol fatto al Watford dove in mezzo all’area tocca il pallone con il tacco e con una piroetta si libera per poi effettuare un tocco delicato sotto il sette a scavalcare l’incolpevole portiere Sherwood.
Glenn Hoddle ci appare come una cometa. Squarcia il cielo come un bolide. Esplode nel nulla. Diverso. Distante. Niente a che vedere con lo stereotipo del calciatore inglese fine anni Settanta. Catapultato in un calcio che era griffato brutalmente a quei tempi dal maledetto United. Il marchio a pelle, rovente, delle gomitate, degli interventi killler, dall’enfasi dei titoli dei tabloid locali
– the most brutal game ever played –
Lui era un lampo alieno sui campi di calcio. Irradiava luce in quelle latitudini piovose e spesso usciva vincitore dalle mischie fangose con giocate difficili che il suo genio rendeva semplici, ovvie. Alto, capello lungo, fisico asciutto, Glenn danzava in campo esibendo tutta la sua classe senza avere paura, con quello spirito sbarazzino e ingenuo che possiede chi proviene dai bassifondi. Era nativo di Hayes, una cittadina periferica di Londra e come letto su un articolo on line, sembrava essere nato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Già da piccolo sviluppa un talento incredibile per il calcio e sembrerebbe che mentre frequenta le scuole s’innamora degli Spurs e che due ex-glorie del Tottenham ammirando il suo talento lo misero sotto contratto come “apprendista”.
- Questo è il club in cui sono entrato quando avevo otto anni, ho firmato all’età di 12 anni e non l’ho lasciato fino a 28 anni. Gli Spurs sono il mio sangue -
Infatti, è solo questione di tempo. Il piccolo Hoddle brucia le tappe e a soli diciotto anni, fa il suo esordio dal primo minuto in First Division, contro lo Stoke City. Un esordio col botto dato che con un bolide da 25 metri sfonda la porta dello Stoke registrando così il primo di tanti meravigliosi gol. L’anno successivo gli Spurs retrocederanno dalla massima serie ma lui resterà fedele alla squadra. Scelta azzeccatissima perché in seguito, con la stessa maglia bianca, conquisterà vittorie e trofei. Saranno anni d’oro per il Tottenham che conquisterà due FA CUP consecutive nel 1981 e nel 1982 e la Coppa Uefa della stagione 1983-1984. Passa il tempo e acquista fiducia ed esperienza diventando il principe degli Spurs. Sembra muoversi con disinvoltura sul campo anche in modo sofisticato, virtuoso. Un enigma per chi lo deve marcare e anche per chi deve schierarlo in campo. Soprattutto per certi tipi di allenatori. Infatti, questa sua dote fu anche un limite nell’esperienza con la nazionale dei tre Leoni. Nella formazione inglese a centrocampo sembrava non esserci posto. Glenn veniva considerato un lusso che la nazionale inglese non poteva permettersi.
Era ancora giovane e forse anche per questo, gli si preferivano Bryan Robson e Ray Wilkins del Manchester United oppure l’esperto Trevor Brooking del West Ham. Bisogna aspettare qualche anno, i mondiali messicani e finalmente Glenn sale in cattedra entra in pianta stabile nella formazione e da lì alla fine sarà anche menzionato nell’11 di sempre della nazionale inglese. Giocherà 12 anni per il Tottenham Hotspur, poi emigra in Francia al Monaco dove qualche suo collega lo paragonerà ad un dio del calcio per poi fare ritorno in patria allo Swindon Town e infine al Chelsea. Ecco io di lui vorrei ricordare quelle giocate sublimi, quelle carezze infinite alla palla. Leggero e leggiadro e poi all’improvviso le verticalizzazioni in profondità o in campo aperto. Lo voglio ricordare per i passaggi e la visione di gioco senza rivali e quella capacità di tiro straordinaria. L’eleganza dei movimenti dentro quelle divise splendide degli anni 80 -90 e con quei calzoncini aderenti che corre e disegna traiettorie raffinate come farebbe un architetto. La visione panoramica, la bellezza delle idee, l’ingegno istintivo di sapere dove fosse il suo compagno mentre lui ancora era impegnato a scartare un avversario. Ci sono delle giocate di una fattura superiore, quasi brasiliane, lanci millimetrici di 30 o 40 metri diritti sul piede del compagno o là nello spazio preciso dove l’attaccante poteva attaccava la palla e faceva gol. Un’elegante precisione che ho rivisto solo una decina di anni dopo gustandomi Juan Sebastian Veron. Ecco forse l’unico vero rimorso è quello di non averlo mai visto dal vivo. Ma datemi retta, perdete 15 minuti della vostra vita per rivedervi che razza di giocatore era Glenn Hoddle. Fatevi questo regalo e poi vi sarà più chiaro che bello che era il calcio di quell’epoca. Un calcio di una tecnica oramai inarrivabile perché oggi c’è tutto, ricchezza, spettacolo, business, velocità, fisico ma l’istinto, la fantasia di quegli uomini che amavano fare i calciatori e che erano fatti della stessa pasta di chi gremiva le tribune e le curve degli stadi, non esiste più.
Datemi retta. Fatevi un regalo. Glenn Hoddle. One of the best. Buona visione e buon Football a tutti.
https://www.youtube.com/watch?v=r-BeVbsmZkYdi Alessandro Nobili
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