28 febbraio 2025

CRICKETERS OR FOOTBALLERS?



Nel 1984 un cittadino australiano si recò a Scunthorpe in visita ai cugini inglesi.
Durante la vacanza i parenti inglesi lo portarono ad assistere ad un match di calcio della locale squadra, lo Scunthorpe United, in quanto era incuriosito dal “soccer” sport che in Australia era alquanto poco praticato. Tutto avrebbe immaginato di vedere tranne che trovare in campo per gli “Irons” niente meno che Ian Botham (nella foto sopra), notissimo giocatore di cricket a livello internazionale, già capitano dell’Inghilterra.
Il cricket insieme al rugby è uno degli sports più diffusi in Australia ed infatti il nostro turista riconobbe immediatamente Botham e chiese conferma e spiegazioni ai cugini.
La conferma fu immediata, si trattava proprio del notissimo cricketer e la spiegazione apparentemente semplice: Botham si teneva in forma nei mesi invernali giocando a calcio!
Potrebbe apparire impensabile al giorno d’oggi che uno sportivo di alto livello pratichi un’altra disciplina nei mesi di sosta del suo sport principale ma ciò era alquanto diffuso in Inghilterra, soprattutto per quel che riguarda il connubio cricket-calcio.

Fin dalla fine dell’800 e fino, soprattutto agli anni ’70 del secolo scorso, molti sono stati i calciatori, professionisti e non, a dedicarsi con successo anche al cricket.
Il suddetto Botham è probabilmente uno degli esempi più noti, ma in questo caso siamo di fronte ad un ruolo invertito; Botham come già detto era infatti prima di tutto un cricketer per le contee del Somerset e del Worcestershire e nazionale inglese di cui fu anche capitano.
Tra l’altro detiene tutt’ora il record di wickets abbattuti per la nazionale, il suo ruolo era quello del “all-rounder” ovvero colui che svolge il compito sia di lanciatore che di battitore.
Con lo Scunthorpe, quindi da professionista, disputò undici incontri e molti di più a livello Non-League con il Yeovil Town.
Come detto l’elenco dei calciatori impegnati anche nel cricket è lunghissimo per cui qui di seguito vengono riportati alcuni dei casi più eclatanti.
Negli anni tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 spicca la figura di C.B. Fry che rappresentò l’Inghilterra in entrambe le discipline mentre era impegnato calcisticamente con Corinthian F.C. (amateurs), Portsmouth, Southampton e con le contee di Hampshire e Sussex per il cricket. Negli anni ’30 e fino allo scoppio della seconda guerra mondiale il notissimo Denis Compton, stella dell’Arsenal disputò ben settantotto “test matches” per l’Inghilterra segnando diciassette “centuries”, ricordando che una “century” equivale a mettere a segno ben cento punti in un incontro!
Anche suo fratello Leslie fu un eccellente giocatore dei Gunners e cricketer internazionale.
Ted Drake è ricordato dai tifosi più anziani del Chelsea per essere stato il manager dei Blues che nel 1955 guidò la squadra di Stamford Bridge ad aggiudicarsi il primo titolo di campioni d’Inghilterra. Ma Drake, negli anni ’30, fu apprezzato giocatore di Southampton e Arsenal e valido cricketer per il Hampshire County Cricket Club.
Possiamo anche citare Ron Tindall, footballer per Chelsea, West Ham, Reading e Portsmouth tra il 1953 e il 1969 nonché “all-rounder” per il Surrey C.C.C. di cui fu giocatore di First Class.
Il portiere del West Ham dei ‘60s, Jim Standen, che contribuì alla conquista della F.A. Cup del 1964 e della Coppa delle Coppe del 1965, era presenza fissa per la contea del Worcestershire nel ruolo di “bowler”, ovvero di lanciatore.
Altro portiere, questa volta scozzese, il rinomato Andy Goram era un eccellente cricketer a dispetto della modesta attitudine dei residenti a nord del Vallo di Adriano per il gioco del “bat’n’ball”.
Estremo difensore di Oldham, Hibernian e Rangers nonché della nazionale scozzese si aggiudicò tre “caps” con la nazionale di cricket del suo Paese affrontando l’Australia in tour nelle isole britanniche nel 1989.
E poi tanti altri, da Jim Cumbes (Aston Villa e Worcestershire) a Dave Bairstow (Bradford City e Yorkshire) a Graham Cross (Leicester City e Leicestershire) che nel 1975 contribuì alla vittoria del Leicestershire C.C.C. (per la prima volta) del County Championship.
Nuovamente un portiere, Steve Ogrizovic del Coventry City, fu eccellente cricketer con la contea del Shropshire e Chris Balderstone, pedina fondamentale nella promozione in massima divisione nel 1974 del Carlisle United, era un ottimo “batsman” per la contea del Leicestershire. Balderstone giocava a fianco del sopracitato Graham Cross nell’XI che si aggiudicò nel 1975 il campionato delle Contee e nel 1972 la Benson & Hedges Cup oltre ad essere convocato due volte dalla nazionale inglese.
Ma sicuramente può incuriosire il fatto che due campioni del mondo del ’66, l’indimenticato capitano Bobby Moore e il mattatore della finale, Geoff Hurst furono ottimi giocatori di cricket a livello scolastico e convocati dalla selezione delle Essex Schools .

In particolare Hurst (nella foto a fianco), tuttora detentore dell’onore di essere l’unico giocatore ad avere segnato una tripletta in una finale mondiale, era talmente bravo con mazza e palla da trovarsi ad un bivio: scegliere se proseguire come cricketer oppure passare al calcio nel quale era comunque valido. La scelta la conosciamo tutti, grande realizzatore con il West Ham e a fine carriera con il Stoke City nonché pedina inamovibile dell’Inghilterra di Ramsey.
Chiunque abbia a cuore le vicende dei “Three Lions” non può che essere grato per la scelta che fece…
Fino a circa la metà degli anni ’70 era alquanto diffuso assistere, durante la stagione estiva, a partite amichevoli o charity matches di cricket in cui i protagonisti erano footballers professionisti anche di massimo livello.
Bene o male quasi tutti in Inghilterra hanno praticato il cricket, chi a scuola chi per diletto in un parco o chi, come abbiamo visto, abbinando professionalmente il “bat’n’ball” al football.
Con l’aumento della congestione dei calendari calcistici, i sempre maggiori impegni dei calciatori a livello di club e nazionale oltre ai divieti delle società nel vedere i propri tesserati cimentarsi in altri sports che potrebbero causare loro infortuni, la figura del “cricketer footballer” è scomparsa.
Vi immaginate vedere un attuale top player di massima divisione o anche solo di “Championship” o “League One” (le orrenda denominazioni moderne per la care vecchie Second e Third Division…) che d’estate va in tour con la nazionale o prende parte al County Championship?
di Gianluca Ottone, estratto da "Shots and Kicks (Boogaloo Publishing)

27 febbraio 2025

"GLASGOW BELONGS TO ME. Ode ad una città dopo un paio di pinte" di Mauro Bonvicini & Francesco Basso (Eclettica), 2020

Esiste una Scozia che le guide turistiche ignorano e nella quale le cornamuse, i kilt e i castelli tanto amati dai turisti non sono che sbiadite immagini su cartoline in vendita fuori da qualche negozietto di souvenir. Una Scozia meno appariscente e meno glamour, ma non per questo meno affascinante. Anzi, forse proprio per questa sua ritrosia verso le orde che affollano il Royal Mile poche decine di miglia più a est, appare assai più genuina, sincera e, soprattutto, ammaliante. Una Scozia per pochi che ha in Glasgow la sua capitale. Chi vuole scoprirne le storie, i sapori, le tradizioni deve dimenticare i musei e lasciarsi piuttosto trasportare in una lunga notte di vagabondaggi tra strade, stadi e pub, entrando così in sintonia con la sua gente e con quello che ha da raccontare. Perché è solo dopo aver gustato un paio di pinte magari giù al vecchio The State che si può cogliere l'anima profonda di questa città e orgogliosamente dire, come recita una vecchia canzone, "Glasgow belongs to me".

26 febbraio 2025

MEN IN RED. KENNY DALGLISH



























Sulle questioni calcistiche Bill Shankly raramente sbagliava, ma quando un biondo scozzese quindicenne si presentò ad Anfield per un provino, il manager si lasciò sfuggire dalle mani quello che per molti divenne il più grande giocatore britannico di sempre. 
Era l’agosto del 1966, l’Inghilterra era fresca di titolo mondiale e Shankly stava forgiando la squadra che sarebbe presto diventata la più vincente della storia del calcio inglese.
Il biondino quel giorno giocò per la squadra B del Liverpool contro le riserve del Southport. Vinserò i primi per 1-0, ma il giovane scozzese non venne più ricontattato. Anni dopo Shankly lo rivide giocare e montò su tutte le furie. Mai errore venne pagato a prezzo cosi’ alto dal Liverpool. Bob Paisley dovette sborsare la cifra (record per il calcio inglese) di 440.000 sterline per assicurarsene le prestazioni nel 1977, dopo l’addio di Kevin Keegan.
Il biondino si chiamava Kenneth Mathieson Dalglish, per tutti Kenny.

Nato a Dalmarnock (zona est di Glasgow) il 4 marzo 1951, Dalglish crebbe nella zona del porto di Govan, a due passi da Ibrox Park. Il tifo per i Rangers fu una logica conseguenza. 
Il primo goal lo realizzò per la squadra della sua primary school, la Milton Bank. Poco dopo venne convocato per una selezione scolastica under 15 scozzese, segnando una doppietta al debutto nella vittoria per 4-3 contro una pari selezione nordirlandese. L’apparizione successiva avvenne contro l’Inghilterra e sul quotidiano “People” apparve un articolo dedicato alla partita in cui Kenny venne definito “un brillante giocatore”
Sul fatto che Dalglish sarebbe diventato un professionista nessuno nell’ambiente ebbe mai alcun dubbio. La domanda era: per chi avrebbe giocato? Egli avrebbe fatto carte false per indossare la maglia blu dei Rangers, dai quali pero’ non venne mai chiamato. 
Dopo infruttosi provini con il Liverpool (come abbiamo visto) ed il West Ham, Dalglish, figlio di un ingegnere protestante, si ritrovò alla fine ad indossare la maglia bianco verde del Celtic Glasgow.
La firma del contratto avvenne nel luglio 1967, non senza un episodio divertente. Sean Fallon, assistente del manager Jock Stein, raggiunse la casa dei Dalglish in auto insieme alla moglie Myra ed ai tre figli. Una volta arrivato, convinto di non impiegare molto tempo per la firma del contratto, pregò la famiglia di attenderlo in auto. Senonchè il povero Fallon ritornò con il contratto firmato solo dopo 3 ore, dovendo a quel punto fare i conti con il pianto dei figli affamati e con l’ira della moglie: quel giorno era il loro anniversario di matrimonio!
Dopo un primo anno passato in una squadra satellite, il Cumbernauld United, Dalglish divenne definitivamente professionista nel 1968, quando iniziò a giocare nelle riserve del Celtic, in un team di tale qualità tecnica da essere soprannominato “Quality Street Gang”
Tre anni dopo arrivò la promozione in prima squadra. A quei tempi il Celtic dettava legge, non solo in Scozia ma anche in Europa (nel 1967 fu la prima squadra britannica a laurearsi campione d’Europa, ai danni della favoritissima Inter e con una squadra composta solo di ragazzi nati a meno di 40 km dal centro della città).
Stein aveva sempre avuto un occhio di riguardo per il giovane Kenny. Alla fine gli concesse una chance schierandolo in un’amichevole contro il Kilmarnock. Il risultato finale di 7-2 non rappresentò certo una novità per il calcio scozzese, non fosse per il fatto che Dalglish segnò 6 goal!
Il 1971 fu un anno di soddisfazioni sportive ma non solo: Kenny fu testimone della prima delle tre grandi tragedie che segnarono la sua carriera di giocatore e poi di manager. Durante un “Old Firm” in cui Dalglish era in panchina, la vecchia Stairway 13 di Ibrox crollò, causando la morte di 66 tifosi. Nel 1972/73 Dalglish, ormai titolare fisso, fu il miglior marcatore della squadra con 41 goal stagionali, iniziando a manifestare il suo marchio di fabbrica: la capacità di difendere palla spalle alla porta. 
Nel 1975/76 venne promosso capitano. Nonostante la personale soddisfazione per l’investitura, quello fu un anno da dimenticare: Stein rimase gravemente ferito in un incidente stradale ed il Celtic non portò a casa trofei per la prima volta dopo 12 anni. La stagione successiva Stein ritornò al timone ed i biancoverdi conquistarono il double campionato-coppa di Scozia. Dalglish stava però meditando l’addio: i giorni in cui il Celtic era competitivo anche fuori dalla Scozia erano finiti da tempo e Kenny aveva voglia di misurarsi con nuove sfide, possibilmente in una piazza dove poter lottare per la Coppa dei Campioni.
Nel frattempo aveva esordito anche con la maglia della nazionale. Il debutto avvenne nel novembre del 1971 in una vittoria per 1-0 contro il Belgio. Partecipò ai mondiali del 1974 in Germania, fornendo prestazioni sicuramente al di sotto dei suoi standard ed assistendo all’eliminazione della pur imbattuta Scozia al primo turno. Nell’estate del 1977 arrivò l’immensa soddisfazione di un goal a Wembley, goal che contribuì ad una storica vittoria sull’Inghilterra.
Quella fu anche l’estate dell’addio alla sua terra: dopo aver vinto cinque campionati, quattro coppe di Scozia, una coppa di Lega Scozzese ed aver segnato 167 goal, Dalglish, ambizioso e bisognoso di nuove sfide, fece i bagagli e partì in direzione Merseyside
Il Liverpool aveva appena vinto la sua prima Coppa dei Campioni, battendo il Borussia Moenchengladbach per 3-1 a Roma, in una finale in cui aveva indossato per l’ultima volta la maglia rossa il grande Kevin Keegan. Dalglish venne scelto da Bob Paisley per prenderne il posto, tra le perplessità di una tifoseria che in Keegan adorava un idolo assoluto e che vedeva come una sorta di usurpazione il fatto che il neo arrivato scozzese indossasse proprio la maglia numero 7. Un goal a Middlesbrough dopo sette minuti nella prima partita di campionato ed uno contro il Newcastle all’esordio ad Anfield fecero sparire ogni perplessità. L’incontro di Supercoppa Europea tra Liverpool e Amburgo, la nuova squadra di King Kevin, segnò l’ideale passaggio di consegne: Dalglish giocò da protagonista una partita in cui il Liverpool stracciò i tedeschi con il punteggio di 6-0. Un nuovo amore, destinato a durare più di vent’anni, era nato.
La prima stagione fu un trionfo per Kenny, che mise a segno ben 30 goal, compreso quello che stese il Bruges a Wembley nella finale che regalò ai Reds la seconda Coppa dei Campioni consecutiva e a Dalglish la realizzazione pressoché immediata del suo più grande sogno professionale.

























Il dibattito su chi fosse meglio tra Dalglish e Keegan era più attuale che mai. Tommy Smith, vecchio capitano dei Reds, e Bob Paisley non nascosero le loro certezze: lo scozzese era il miglior giocatore che Anfield avesse mai visto.
Lo stesso talento non venne invece mai espresso con la maglia della nazionale scozzese. Sia nel 1974 che nel 1978 Dalglish giocò i campionati del mondo ad un livello nemmeno paragonabile a quello espresso in maglia rossa.
Dopo la Coppa del Mondo in Argentina lo scozzese contribuì con 25 goal alla conquista del titolo, ottenuto dopo aver conquistato 68 punti (record per l’era dei 2 punti a vittoria) ed aver concesso la miseria di 16 goal. Ciliegina sulla torta, il premio di Calciatore dell’Anno. Erano anni di gloria ad Anfield: il Liverpool si confermò campione nel 1979/80, vinse quattro Coppe di Lega consecutive tra il 1981 ed il 1984, portò a casa altri 3 campionati consecutivi tra il 1982 ed il 1984 e soprattutto altre due Coppe dei Campioni, conquistate a Parigi contro il Real Madrid ed a Roma contro i giallorossi padroni di casa. L’unica conquista mancata fu quella del double campionato-FA Cup. Dalglish fu uno dei maggiori protagonisti in queste conquiste. A suggello di ciò arrivò un secondo titolo di Calciatore dell’Anno nel 1983.
La stagione 1983/84 fu la più fruttuosa in assoluto: nel giro di pochi giorni arrivarono ad Anfield lo Shield di campioni d’Inghilterra, la Coppa di Lega e, come detto, la Coppa dei Campioni.

La stagione successiva era destinata a rappresentare un punto di svolta per Dalglish: alla vigilia della finale di Bruxelles contro la Juventus gli venne comunicato che il board del club aveva intenzione di assegnare a lui l’incarico di player manager, in conseguenza dell’annunciato ritiro di Joe Fagan. In conseguenza degli eventi dell’Heysel il Liverpool dominatore continentale si ritrovava escluso dalle competizioni europee a tempo indeterminato e con una squadra da ricostruire moralmente oltre che tecnicamente: queste le condizioni scoraggianti in cui Dalglish debuttava da manager. Ciò nonostante, Kenny porto ad Anfield anche il titolo 1985/86, togliendosi pure la soddisfazione di realizzare personalmente il goal decisivo contro il Chelsea a Stamford Bridge. Per completare l’opera, i Reds riuscirono in un’impresa mai realizzata in precedenza nella loro storia: battendo l’Everton a Wembley per 3-1 conquistarono la FA Cup, suggellando il primo vero Double in 94 anni di storia. 
Il titolo di Manager of the Year a quel punto non fu certo una sorpresa! La stagione successiva Dalglish scoprì quanto ripetersi fosse molto più arduo rispetto a vincere la prima volta. Per gli standard di Anfield fu un’annata fallimentare: arrivò sì un secondo posto – dietro l’Everton campione – ma non vennero conquistati trofei. A rendere ancor più amara l’estate del 1987, la partenza di Ian Rush direzione Torino, sponda Juventus. Il manager ricostruì l’attacco acquistando due giocatori che avrebbero impresso il loro marchio di fabbrica negli anni a venire: John Barnes dal Watford e Peter Beardsley dal Newcastle.
Nella stagione 1987/88 tutto girò a meraviglia in campionato per il Liverpool, che eguaglio il record del Leeds di 29 partire consecutive senza sconfitte (serie interrotta, manco a dirlo, a Goodison Park) e portò ad Anfield l’ennesimo titolo di Campione d’Inghilterra. Sfuggì invece il secondo Double consecutivo, per mano della “Crazy Gang” del Wimbledon, che nella finale di Wembley si rese protagonista di una delle più grandi imprese dell’intera storia del calcio, battendo i superfavoriti Reds per 1-0. A pochi anni dall’Heysel un altro tragico evento era destinato ad abbattersi sulla gente del Liverpool nella primavera del 1989: in seguito ai noti fatti di Hillsborough morirono 96 persone. Si trattò della più grande tragedia nella storia del calcio inglese, che portò all’introduzione entro pochi anni di stadi contenenti solo posti a sedere. La tragedia ebbe un forte peso nella decisione del manager di abbandonare il calcio alcuni anni dopo, ma nei giorni successivi Dalglish si comportò da vero leader e modello di umanità, non solo per i propri giocatori o per la propria tifoseria, ma per l’intera città di Liverpool. Fu lui ad organizzare le visite ai feriti in ospedale, a partecipare a numerosi funerali, a parlare nelle chiese, a visitare parecchie famiglie di superstiti dando loro un minimo di conforto. Si narra addirittura che più di una volta Dalglish sia stato svegliato nel cuore della notte da persone bisognose di sostegno morale, ricevendo in cambio ore di dialogo telefonico.
Dopo qualche tempo il pallone ricominciò a rotolare. Il Liverpool vinse la ripetizione della semifinale maledetta e conquistò la finale di Wembley, dove battè di nuovo l’Everton per 3-2 dopo i supplementari, con doppietta di Rush, nel frattempo rientrato dopo la fallimentare esperienza italiana. La vittoria venne naturalmente dedicata alla memoria delle vittime di Sheffield. Ancora una volta però il Double sfuggì dalle mani ai Reds, nella maniera più crudele possibile: nell’ultima decisiva partita Michael Thomas segnò per l’Arsenal a pochi secondi dalla fine il goal che strappò il titolo da Anfield mandandolo ad Highbury.

La stagione successiva vide il Liverpool riconquistare il campionato, mentre la corsa in FA Cup si concluse con una delle più incredibili partite della storia della competizione: il Crystal Palace, battuto per 9-0 ad Anfield in campionato, sconfisse i Reds per 4-3. Mercoledi 20 Febbraio 1991 il Liverpool incontrò l’Everton nel quinto turno di Coppa d’Inghilterra. Fu un match straordinario che terminò 4-4. La mattina seguente Dalglish partecipò ad una riunione di routine con il presidente ed il chief executive. Dopo venti minuti annunciò loro, senza preavviso, le immediate dimissioni. La notizia fece il giro del mondo nel giro di poche ore, facendo ripiombare i tifosi del Liverpool nell’incubo dell’estate 1974, quando fu Shankly a sorprendere tutti con l’annuncio improvviso del proprio ritiro. Ad amplificare il senso di sorpresa e smarrimento contribuì il fatto che il Liverpool era primo in campionato ed in corsa per il double. Addirittura non era nemmeno stata completata la sfida contro l’Everton in coppa! Dalglish descrisse sè stesso come una persona ormai giunta al limite della pressione umanamente sopportabile. La sua salute cominciava a risentirne e, come ebbe a dire al presidente Noel White, nei giorni delle partite aveva l’impressione che la testa gli esplodesse.
Purtroppo per il popolo Red non si ripetè quanto successe dopo le dimissioni di Shankly, quando il vice Paisley portò in pochi anni il Liverpool in cima all’Europa. Al contrario, questa volta l’addio del manager portò all’inizio di un periodo di declino durato interrotti con il Treble di coppe del 2001.

Otto mesi dopo il ritiro Dalglish aveva ritrovato la pace con sè stesso e la voglia di calcio era ritornata a farsi sentire prepotentemente; quando arrivò l’offerta del Blackburn, allora in seconda divisione, essa venne subito accettata. Nel giro di 3 anni i Rovers divennero campioni d’Inghilterra! Il trionfo arrivò, per un divertente scherzo del destino, proprio ad Anfield, dove la nuova squadra di Dalglish uscì sconfitta dal Liverpool, vedendosi letteralmente regalare il titolo dal Manchester United, che non andò oltre il pareggio ad Upton Park contro il West Ham. Un altro scherzo del destino si verificò quando Dalglish nel 1997 assunse la guida del Newcastle, succedendo proprio a colui il quale gli aveva lasciato la maglia del Liverpool vent’anni prima: Kevin Keegan. Nonostante una storica qualificazione alla Champions League ed il raggiungimento di una finale di FA Cup, Dalglish venne esonerato all’inizio della stagione 1998/99. Non meno negativa fu l’esperienza come Director of Football e poi come manager nel suo primo club, il Celtic Glasgow. 
La maniacalità nello svolgere il proprio lavoro rappresentò probabilmente sia la fortuna che la maledizione di Dalglish, in quanto lo portò sì a vincere come pochi altri (14 campionati tra Inghilterra e Scozia, come giocatore o come manager) ma, diventando con il tempo ossessione, lo portò a situazioni di stress emotivo che probabilmente gli impedirono di proseguire una carriera da manager nel modo in cui la sua enorme intelligenza - non solo calcistica – avrebbe meritato.
di Davide Pezzetti, da "UK Football please"

25 febbraio 2025

"L'ESTETA DEL SUBBUTEO" di Fabio Del Secco (Art Libri), 2024

Fabio Del Secco: Nel mio ultimo libro ho dedicato un'ampia riflessione a quella che, a mio parere, può essere considerata un'estetica del collezionismo, laddove con estetica si intenda l'esperienza sensoriale del "bello" (ovvero della rarità) ma anche la decodifica dei criteri che definiscono quel "bello", decodifica che nel libro identifico con la costruzione di una vera e propria Cultura del Subbuteo, incentrata sulla conoscenza, sullo studio e sull'approfondimento.
Nel libro infatti ho più volte sottolineato come l’esplorazione e la ricerca si siano rivelate strumenti imprescindibili nel processo di realizzazione e formazione di una mia cultura personale in materia di Subbuteo, una cultura attraverso la quale ho, a tutti gli effetti, rimodulato il mio concetto di slancio collezionistico, ridefinito adesso in una prospettiva sempre più selettiva e sempre più proiettata verso la scelta di pezzi che non siano solo rari ma anche concettuali, pezzi che sappiano trasmettere un messaggio e raccontare di un tempo lontano e di un mondo che non c'è più, e che assumano un significato ben preciso nel contesto di una collezione, la mia, che vira sempre più lontano dai consueti canoni di mercato. www.artlibri.it    

L'ALTRO GEORGE BEST.



Ogni appassionato di calcio inglese conosce George Best e chiunque si è avvicinato al mondo del calcio, anche marginalmente, ne ha sentito parlare almeno una volta. Fiumi di parole sono stati scritte sulla sua vita, sul suo modo di interpretare il gioco di calcio, sul suo essere star, sul suo rapporto alcool-donne, sul suo funerale. 
E’ stato fatto un film, inguardabile aggiungo io, qualcuno gli ha anche dedicato canzoni, e si vendono ancora t-shirt con il suo volto-icona. Io da amante del calcio britannico conoscevo Best anche se il massimo che avevo visto di lui in tv fino a qualche anno fa erano i suoi goal più famosi ed in particolare quello della finale della coppa dei campioni del 1968, ripetuto all’infinito, come se fosse stato il suo unico momento di gloria. Per molti, soprattutto giovanissimi, Best rappresenta la trasgressione, l’eroe dannato immerso in un mix di calcio, donne, soldi e alcool, l’esaltazione dello sballo, l’eccesso, il mito…
Per fare un paragone con la musica Best era il Jim Morrison del football. Tutto vero ma io volevo capirne di più e volevo una risposta esauriente alla mia domanda ricorrente: chi era in realtà George Best?

George Best nasce a Belfast, il 22 maggio del 1946. la sua è una famiglia modesta e numerosa, di quelle che sgobbano per tirare avanti, in un paese, l’Irlanda del Nord, a dir poco difficile. Il Belfast boy cresce in un quartiere povero, e coltiva la sua passione per il calcio. La madre di George, Anne, disse più tardi che assieme a George c’era sempre una palla. Intorno ai 15 anni la svolta: disputa una partita contro una squadra formata da ragazzi due anni più grandi. Segna due goal e fa ammattire il suo marcatore. A guardare il match c’è un osservatore del Manchester United, Bob Bishop, che annota il suo nome e spedisce un telegramma al grande Matt Busby, padre padrone dello United, sottolineando di aver trovato un genio. Convocato dai Red Devils George, in compagnia di un coetaneo che poi diventerà suo compagno di squadra, prende una nave e parte per Liverpool, poi con un treno raggiunge la stazione centrale di Manchester. Sale su un taxi e alla richiesta di George di essere portato all’Old Trafford l’autista risponde quale Old Trafford? A Manchester infatti ci sono due Old Trafford, quello famoso del calcio e quello meno famoso del cricket. Alla fine arriva in quello giusto ma l’impatto per lui è devastante, George è un ragazzino timido, ha nostalgia di casa, dopo un solo giorno nel nord dell’Inghilterra scappa e torna a Belfast. Ma i dirigenti dello United hanno intuito che sono di fronte ad un potenziale fenomeno, leggenda vuole che sia proprio il grande Matt Busby ad andare a Belfast a chiedere al ragazzo di riprovare. George, spinto anche dalla famiglia, si convince, torna a Manchester, e dopo due anni di 
“apprendistato” il diciassettenne venuto dal nulla ha la sua occasione, fa l’esordio in First Division contro il West Bromwich Albion, è il 14 settembre 1963 e nasce la stella immortale di George Best.
Io non mi sono soffermato sui suoi goal, sulle sue foto da copertina, sulle sue finte e i suoi dribbling, come la maggior parte dei tifosi di calcio fanno. Tramite internet e non solo mi sono documentato, ho analizzato filmati, sono andato a cercare decine e decine di siti in lingua inglese, letto libri, raccolto circa un migliaio di foto ed interviste rare. Ho cercato di comprendere l’uomo prima del calciatore, per capire cosa rappresentò l’essere Best per la sua generazione, la generazione per eccellenza, quella del rivoluzionario 68. Un uomo, Best, con un cognome da predestinato, divenuto eroe di un’epoca in cui tutto sembrava possibile, in una nazione, l’Inghilterra, che sul finire degli anni 60 è l’ombelico del mondo, fonte ed ispirazione di nuove tendenze in moltissimi campi, tra i quali la moda, la musica, la tecnologia e il football. George, senza ovviamente pianificarlo, diventa il re di un modo di essere anticonformista, capelli lunghi, sguardo fiero. Lo è anche il suo modo di giocare, che prima dei suoi atteggiamenti fuori dal campo, lo eleggono all’idolo indiscusso delle folle, il mattatore, il geniale intrattenitore del beautiful game. George in campo mette il cuore, la gente lo percepisce e incomincia ad amarlo alla follia. Non solo funambolici, ubriacanti dribbling e sublimi goal ma anche tanta generosità, tanta corsa, tanto sudore e mai il piede indietro nei tackle duri. E’ al tempo stesso primadonna e gregario, due giocatori in uno: la perfezione, il genio. Il tutto sotto l’aspetto di un ragazzo gracile, statura 1,72 ma forse proprio per questo leggiadro ed imprendibile nei suoi intuitivi spostamenti. A volte, mentre vola verso l’aria avversaria tiene stretto nel pugno il polsino della maglietta, le sue esultanze dopo un goal emozionano quanto il goal stesso, in un’epoca in cui dopo una rete si tornava a centrocampo dopo aver ricevuto una stretta di mano dal compagno di squadra. 
Non sono il successo, il denaro a motivare le scorribande di George in campo, lui gioca mettendo tutto se stesso in un’azione, in un tiro, in un bel cross per un compagno di squadra. Crea un modo di essere e i ragazzi lo eleggono a loro idolo. Io, per capire meglio il genio di Best, sono andato fino a Manchester. Ho passato ore ad osservare le sue foto private, le sue giocate meno conosciute, cercato di capire il suo modo di essere, letto nei dettagli i suoi libri, trovato aneddoti e per ultimo visto da vicino la sua maglia, i suoi scarpini, i suoi oggetti personali esposti nel maestoso museo situato all’interno del suo stadio, l’Old Trafford. 
George aveva molti soprannomi, era detto El beatle, Georgie, geordie, bestie, Belfast boy, the genius. Ho letto spesso, anche da penne di primo livello, che George era un grande calciatore ma poteva esserlo molto di più, che ha vinto trofei ma che poteva vincerne molti di più. Io, ma è solo una mia opinione personale, ho sempre digerito male queste considerazioni. George è stato un grande calciatore, punto. Non importa se è stato il più grande o poteva esserlo. Ha vinto campionati da indiscusso protagonista, classifiche cannonieri, una coppa campioni, un pallone d’oro partendo da un posto chiamato Cregagh Estate, Irlanda del Nord, dove sei fortunato se hai un lavoro per mangiare tutti i giorni. Era un ragazzo timido George, con la passione per il calcio, come ce ne sono migliaia in tutti i quartieri poveri del mondo. Lui aveva un dono e la vita, la sua stella, l’ha eletto a Dio delle folle calcistiche. Lui voleva correre dietro ad un pallone e così fece. Voleva far divertire, perché era consapevole di averlo quel dono e voleva condividerlo con chi aveva la sua stessa passione. Lo fece e se leggete le sue interviste sorvolando le solite frasi ad effetto che comunque a lui piaceva fare, capirete che George giocava per se stesso, per i suoi compagni, ma soprattutto per la gente, quella con la sua stessa passione. Era un ragazzo di una sensibilità enorme, spesso tormentato dai sensi di colpa nei confronti della sua famiglia dovuti alla sua enorme fama. Amava la sua gente ma ne era spaventato allo stesso tempo. Non è un caso il fatto che lui stesso ricordasse spesso nelle sue interviste il rumore della folla nel giorno del suo esordio. Si è goduto la vita George e non l’ha mai rinnegato. Ho letto mille volte che è stato travolto dalla sua stessa fama degna di una rockstar, che è stato il primo giocatore di calcio a diventare un’icona. Tutto vero, ma lui era George Best, era nato per diventare quello che è diventato e non si è sottratto al suo destino, nonostante a volte non capisse la morbosità generata dal suo personaggio. 
Ha vissuto da George Best mantenendo quel suo essere semplice nonostante i suoi molti eccessi. Al suo funerale c’erano 500mila persone e milioni di tifosi nel mondo hanno pianto la sua morte. Eppure non è di certo un uomo di quelli da prendere come un esempio, tutt’altro. Se la gente l’ha capito, spesso difeso, amato alla follia e tra questi ora c’è anche il sottoscritto, è semplicemente perchè la gente, quella con la passione pura per il calcio, quella che viene da dove veniva lui, capiva il suo eroe, nei suoi giorni di gloria ma soprattutto nei suoi momenti bui. Perché il calcio generato da Best era il calcio puro, ancora lontano anni luce dall’industria mediatica che è oggi. Se andate nei pub di Manchester e chiedete ai cinquantenni intenti a sorseggiare una pinta chi fosse George Best non ne troverete uno pronto a parlar male di quel ragazzo venuto dal nulla. Chi lo conosce superficialmente ripete come una moda le sue frasi celebri a base di donne, macchine e soldi. George se l’è goduta, eccome se l’è goduta la sua vita da George Best ma se andate a scavare in fondo al mito troverete un ragazzo timido che una volta divenuto il giocatore più famoso d’Inghilterra evitava di andare a trovare la sua famiglia, nonostante volesse, per non turbare la tranquilla vita dei suoi cari. Prima di morire la sua foto di un uomo con le ore contate, ridotto cosi a causa dell’alcool, ha fatto il giro del mondo. Non morite come me recitava lo slogan, la migliore delle pubblicità per la campagna anti alcolici. Fonti vicine a George, tra cui un compagno di squadra che gli ha parlato prima che lui, il grande intrattenitore entrasse in coma, raccontano che quella foto, quello slogan è stata in pratica un’estorsione. George non avrebbe detto non morite come me ma piuttosto rifarei tutto, me la sono goduta questa vita e rifarei tutto. La stampa ha glissato, preferendo la versione politically correct. Forse non sapremo mai la verità ma in fondo poco importa. 
Una delle sue ultime interviste è l’essenza del suo pensiero. Quel ragazzo dagli occhi azzurri nato nel 1946, figlio del boom demografico del dopo guerra, diceva che gli mancavano i giorni di gloria, come succede ad ogni ex calciatore. A chi gli ricordava che lui aveva fatto la storia dello sport più famoso del mondo lui rispondeva così: ”Boh, la storia... Io ho sempre giocato per piacere, per divertire me stesso e i miei fan". Quando ho iniziato io, l'Inghilterra era fantastica. Si cominciavano a portare i capelli lunghi, la musica era favolosa, la moda era meravigliosa e anche il calcio britannico non era male. Vincevamo le coppe europee e ogni anno una squadra diversa vinceva il campionato. Oggi invece ci sono solo Manchester United, Chelsea e Arsenal. Che noia...". Non si giocava con gli orecchini, i capelli colorati, i tatuaggi sui polpacci. Io, Di Stefano, Pelè, i miei amici dello United facevamo divertire la gente. Allora il calcio era divertimento... Penso che si dovrebbe sempre scendere in campo sorridendo ed è quello che facevo io. Oggi invece è tutto troppo maledettamente serio, perché ci sono troppi soldi, perché se perdi è la fine del mondo. E ti dico che se tornassi in campo oggi, rifarei tutto allo stesso modo, giocherei per far divertire il pubblico, e basta". 
Questo era l’altro George Best, un “ragazzo” che appena metteva piede in uno stadio, scaldava i cuori della gente.
di Christian Cesarini, da "UK Football please"

24 febbraio 2025

TONY CURRIE. Un pesce grande in una vasca piccola


























Personalmente ritengo che gli anni ’70 siano stati il periodo ove, piu’ di altri,e certamente molto piu’ di adesso, il calcio inglese abbia mostrato la quintessenza di se stesso. 
Infatti credo che gli elementi piu’ tradizionali e caratteristici, che fanno del calcio albionico un universo speciale, ebbero in quel tempo la loro massima purezza, prima della “contaminazione esterna” in atto ormai da molti anni. Probabilmente il mio giudizio e’ fortemente influenzato dal fatto che ho conosciuto e mi sono appassionato a questo mondo proprio in quegli anni. Tuttavia penso che molti altri fattori concorrano all’obiettivita’ della mia opinione.
Tra tutti questi elementi, le spiccate e consistenti personalita’ degli attori principali, leggasi “footballers”, che hanno calcato i campi della Football League, ne sono forse uno dei motivi principali. Tra le tante e variegate stelle pedatorie del periodo, ho sempre avuto una speciale predilezione per Tony Currie. Forse perche’ uno dei pochi che ha preferito tenere un basso profilo (a dispetto dei media) mostrandosi solo attraverso le sue gesta in campo, un atteggiamento nettamente in controtendenza con l’andazzo del tempo, da Best a Bowles, da Keegan a Charlie George, solo per citarne alcuni. 
Il fatto che Tony non abbia mai indossato le varie casacche di Manchester United, Arsenal o Liverpool, ma si sia messo in luce con squadre non di primissimo piano (il Leeds di fine anni 70’ non puo’ definirsi tale) contribuisce alla splendida e per certi versi affascinante figura del centrocampista dinamico ma tecnico di Edgware.
Nato infatti in quel sobborgo londinese il giorno di capodanno del 1950, il piccolo Tony vive un infanzia non semplice: il padre lascera’ la famiglia dopo pochi anni dalla nascita, e sara’ lo zio ad occuparsi di lui. Lo Shed di Stamford Bridge ospita spesso i due, entrambi ammirati dalle prodezze di Jimmy Greaves e Bobby Tambling, icone dei blues di quel periodo. Tony gioca bene al calcio, ma i club professionistici della sua area non se ne accorgono. Sara’ il Watford del suo futuro mentore Ken Furphy a proporgli un contratto nell’estate 1967, prima da apprendista e poi da professionista. Furphy, player manager degli Hornets, club di 3° divisione, ne intravede le enormi potenzialita’: lo plasma e lo educa tatticamente, trovandogli la piu’ idonea collocazione in campo per le sue caratteristiche. Currie e’ un grande faticatore in mezzo al campo, ma, collocato appena a ridosso dei due attaccanti, riesce a dare il meglio di se’, grazie ad un “ultimo passaggio” di classe cristallina ed un tiro dalla distanza mortifero. 
Nel suo primo campionato da professionista, a soli 17 anni, con la maglia gialla del Watford sigla 9 reti e colleziona 17 presenze. Arriva immediata e logica conseguenza la proposta di un club di maggiore rilievo, seppur di Second Division: lo Sheffield United. Per £27.500 il diciottenne Tony si trasferisce al Bramall Lane: e’ la conferma del suo ingresso nel grande calcio, una proposta irrinunciabile. Currie impersonifichera’ la resurrezione del club biancorosso dello Yorkshire, che nel 70-71 centra la promozione in First Division grazie soprattutto alle brillanti e continue prestazioni del biondo centrocampista londinese. 
Le stagioni a Sheffield (alla fine saranno 8) maturano il ragazzo e ne risaltano l’acume tattico. Conseguentemente i grandi clubs dell’epoca iniziano a bussare alla porta dello Sheffield United e sara’ cosi’ per tanti anni. 

Ma Tony non approdera’ mai ad un grande club, anche se non sempre per propria scelta. Per sua postuma ammissione preferi’ sempre sentirsi importante nel proprio club piuttosto che uno dei tanti, cioe’ “un pesce grande in una vasca piccola”. Personalmente ho sempre ammirato questa scelta, sinonimo di personalità e attaccamento alla maglia che si indossa. Currie arriverà anche in nazionale (17 caps) indipendentemente dalla maglia di club indossata e sara’ per sempre uno degli idoli piu’ amati dei fans biancorossi di Sheffield. 
Fu ribattezzato il Gunter Netzer inglese per la netta somiglianza di gioco con il grande centrocampista teutonico e per la piu’ lieve somiglianza fisica. La sua innata timidezza fuori dai campi di gioco fu tuttavia un piccolo limite per la sua carriera. Molto introverso e taciturno, Tony, al limite del triste, (Bowles, suo compagno in nazionale ricorda che non rideva quasi mai) probabilmente non si rese mai conto pienamente del talento innato che possedeva. Ma in campo si trasformava: ed aveva atteggiamenti nettamente contrastanti con il suo carattere, quasi istrionici. Una sorta di dottor Jekyll e Mr.Hyde. Esempio classico di come il nostro eroe si trovasse molto piu’ a suo agio con la palla tra i piedi che in mezzo alla gente.  Un altro grande limite di Currie furono i tanti, troppi infortuni che ne limitarono in parte le potenzialità; ma il suo modo di giocare era troppo generoso per essere immune da incidenti. Il 6° posto del 1974/75 fu il picco piu’ alto, sia dello Sheffield Utd, che di Currie, a livello di First Division. La storica partecipazione alla Coppa UEFA svani’ all’ultima giornata con uno 0-0 a Birmingham contro il City. 
Nell’Agosto del 76 Tony approda al vicinissimo Leeds United., ormai squadra lontanissima dai fasti degli anni precedenti, con l’ enorme responsabilità di non far rimpiangere i vari Bremner o Giles. Ma in maglia bianca Currie non lascera’ segni tangibili: tre stagioni costellate da infortuni e delusioni, accentuate dal declino lento ma inesorabile del club di Elland Road. Problemi di famiglia e la conseguente necessità di tornare a Londra, lo indussero ad accettare le proposte del Queens Park Rangers di Tommy Docherty, ma anche a Loftus Road, Tony, perseguitato da un malanno ad un ginocchio e da una caviglia in disordine, non riuscirà ad offrire il meglio di sè. Tuttavia, pur con una sola gamba, porto’ i Rangers alla finale di FA Cup del 1982 contro gli Spurs, ove fu capitano e protagonista sfortunatissimo. 
Nella finale, una punizione di Hoddle lo colpi’ in barriera e devio’ imparabilmente la traiettoria della palla che fini’ in rete. Nel replay (1-1 dopo la prima gara…bei tempi..) commise il fallo da rigore che sanci’ la vittoria del Tottenham. Non sempre, come sappiamo, le carriere degli eroi pedatori, soprattutto in Gran Bretagna, sono giudicate sulla base di vittorie e sconfitte. 
Currie e’ stato un idolo dei suoi tifosi, indipendentemente dalle vittorie.
di Fabrizio Miccio, da "UK Football please"

21 febbraio 2025

1954. QUANDO I WOLVES SALVARONO L'ONORE D'INGHILTERRA

In un precedente articolo si è raccontata l’epopea internazionale dei Wolves, pionieri nello sviluppo del grande calcio in notturna giocato contro avversari continentali. L’apoteosi di quell’epoca, e uno degli eventi che ha scritto la storia del calcio inglese, arriva nell’inverno del 1954, pochi mesi dopo il trionfo per 4-0 sullo Spartak Moscow.


Nel Novembre del 1953, mentre i Wolves volavano verso il primo titolo della loro storia, a Wembley arrivava l’Ungheria per sfidare l’Inghilterra in una partita amichevole che avrebbe cambiato la storia del calcio britannico. L’attesa era stata spasmodica, anche per la fama che precedeva la nazionale magiara, portatrice di un’interpretazione nuova e rivoluzionaria dello sport che proprio gli inglesi avevano inventato. 
In ogni caso, nessuno avrebbe potuto pronosticare l’umiliante 6-3 che Puskas & c. inflissero all’Inghilterra, capitanata tra l’altro da Billy Wright, capitano e condottiero dei Wolves. La durissima lezione ebbe grande risonanza anche al di fuori dell’ambiente calcistico, e prostrò l’intero movimento in uno stato di depressione. Condizione che si acuì nell’estate del 1954, quando l’Inghilterra aveva reso la visita, sperando di vendicare l’onta subita a Wembley. Era finita invece 7-1 per i padroni di casa, un risultato che aveva ulteriormente lacerato l’orgoglio calcistico e patriottico di un’intera nazione e aveva scritto la pagina più nera della sua storia sportiva. In patria, nel frattempo, i Wolves avevano vinto il titolo e proseguivano con successo la serie di ‘amichevoli’ notturne (di ‘amichevole’ in realtà c’era poco, con in palio onore e prestigio internazionale contavano quasi quanto Coppa e campionato) con le più forti squadre d’Europa, in una specie di Coppa dei Campioni ante litteram. In palio non c’è ancora un trofeo ufficiale, ma la risonanza di questi match li rende tutt’altro che amichevoli. La serie si era aperta con la visita della nazionale sudafricana, battuta per 3-1. Era poi toccato a Celtic, Racing Club di Buenos Aires, First Vienna, Maccabi Tel Aviv e Spartak Mosca, tutte sconfitte ad eccezione degli austriaci, che avevano pareggiato per 0-0. E così, quando viene annunciato che il prossimo avversario sarà la Honved di Budapest, l’attesa sale alle stelle in tutta l’Inghilterra. E’ l’occasione di ristorare l’orgoglio ferito di un’intera nazione, che tutta si schiera a sostegno dei Wolves.
L’importanza dell’appuntamento è tale che la partita è trasmessa in diretta tanto alla TV (il solo secondo tempo) che alla radio. L’impegno si presenta tuttavia difficilissimo, visto che la Honved schiera ben sei dei componenti di ‘quella’ nazionale ungherese. Quando le squadre entrano finalmente sul terreno di gioco in una fredda serata di Dicembre, 55,000 spettatori (è il dato ufficiale, ma le testimonianze dirette dei giocatori in campo parlano di numeri ben superiori) vocianti sono solo la punta di un iceberg di trepida attesa che si estende all’intera nazione. Alla guida delle due squadre due grandissimi, Ferenc Puskas e Billy Wright. Per il capitano dei Wolves, in particolare, questa partita rappresenta un’occasione unica per vendicare l’umiliazione patita con la maglia della nazionale, unico rappresentante del suo club a prendere parte (da capitano) al doppio confronto con l’Ungheria. L’inizio è prudente, le squadre si studiano e il gioco ristagna a centrocampo. L’entusiasmo è alle stelle, l’atmosfera magica ed eccitante, ma al 10° arriva la doccia fredda: Puskas mette al centro un calcio di punizione dal limite, Koscis anticipa la difesa e mette in rete il gol dell’1-0. Un minuto dopo i Wolves sciupano clamorosamente l’occasione del pareggio con Swinbourne, e sono puniti dal contropiede micidiale degli ungheresi, finalizzato in gol da Machos. 2-0 dopo nemmeno un quarto d’ora e i fantasmi di Wembley si materializzano sotto i riflettori del Molineux. I padroni di casa prima sbandano, poi riordinano le idee e riprendono a giocare, sostenuti da un pubblico che non vuole rassegnarsi alla sconfitta. Con il passare dei minuti la pressione aumenta, la Honved si fa vedere solo con sporadici contropiede ma sono i Wolves a sfiorare più volte il gol con Smith, Wilshaw e ancora Swinbourne. Ma il gol non arriva, complice anche la serata di grazia del portiere ungherese Farago, e all’intervallo il punteggio è sempre 0-2. Negli spogliatoi Stan Cullis cerca di tranquillizzare i suoi, che vede troppo nervosi e contratti. ‘Tornate fuori e cominciate a giocare come sapete’; così, secondo la leggenda, avrebbe concluso il suo discorso.


Che sia vero o no, la squadra torna in campo trasformata, e dopo 4 minuti accorcia le distanze: Hancocks penetra in area palla al piede ed è atterrato da Kovacs; è rigore, trasformato dallo stesso numero 7 dei Wolves. L’attacco si trasforma in assedio, sospinto dall’incitamento costante dei 55.000 del Molineux. I Wolves trovano due alleati preziosi in una condizione fisica che in quegli anni diventerà proverbiale e in un improvviso rovescio molto ‘British’ che spiazza i magiari. Puskas è costretto ad arretrare per trovare palloni giocabili, e nonostante qualche contropiede insidioso la difesa dei Wolves non si fa sorprendere. In mezzo al campo sale in cattedra Peter Broadbent, che detta i tempi di un’offensiva tambureggiante. La pressione dei Wolves è infine premiata al 76°, quando Swinbourne realizza il 2-2 che manda in delirio milioni di fans in tutta l’Inghilterra. Non è finita, ora sono gli ungheresi ad essere in confusione; due minuti dopo Smith scatta per l’ennesima volta sulla sinistra, salta due difensori e centra per Swinbourne che insacca alle spalle dell’incredulo Farago: 3-2. E’ l’apoteosi, ma anche l’inizio di un’altra partita; la Honved rompe gli indugi e si riversa in attacco, sono dieci minuti che sembrano non passare mai. 
I Wolves imbastiscono qualche contropiede, ma sono gli ungheresi a fare la gara.

Il triplice fischio dell’arbitro Griffiths arriva come una liberazione, il boato del pubblico scuote il Molineux dalle fondamenta. In proposito è suggestivo il racconto di Bert Williams, il portiere di quella squadra magnifica: ‘l’affluenza ufficiale fu di 55.000 spettatori, ma credo ci fossero molte migliaia di persone in più…ogni volta che i cancelletti d’entrata giravano, nell’ufficio centrale si aggiornava il contatore…che però si ruppe molto prima del calcio d’inizio, quando dentro c’erano già oltre 50.000 tifosi, altre migliaia rimasero fuori, facendosi passare le notizie da quelli dentro…le gradinate erano così piene che la gente non riusciva nemmeno a muoversi…se mettevi le mani in tasca, avresti fatto fatica a tirarle fuori, ma la cosa più incredibile fu che ogni volta che la folla si spostava per esultare o semplicemente cercare una visuale più aperta, molti perdevano le scarpe perché quelli dietro erano così serrati da montargli sulle suole e sfilargliele. Il giorno dopo feci un giro al Molineux e c’erano decine di scarpe sparse dappertutto. Un altro che assapora emozioni speciali uscendo dal campo è Bill Shorthouse, fra i primi a sbarcare sulle spiagge di Normandia nel giugno 1944. Arruolato nel 263° reparto del Genio Reale, Shorthouse era stato ferito al braccio e aveva temuto di non poter tornare a giocare e invece quella sera raccoglie anche i complimenti di Puskas, che al termine gli confessa di non aver mai giocato contro un avversario così brillante e resistente nel mettergli pressione quando aveva la palla. All’uscita del campo Wright incrocia Marosi, allenatore della Honved, che stringendogli la mano riconosce il merito della vittoria. Più tardi, Wright dichiarerà: ‘Sono orgoglioso della squadra. Tutti hanno giocato una partita magnifica, tutto è stato magnifico’. Il giorno dopo, l’impresa dei Wolves occupa le prime pagine di tutti i giornali; il Daily Mail titola con enfasi ‘I Wolves sono campioni del Mondo’, il News Chronicle ‘Grandi i Wolves, un’altra soddisfazione per l’Inghilterra: battuta la Honved’
E’ un sollievo per tutta la nazione, una rivincita attesa per mesi, una vittoria conquistata dai Wolves ma festeggiata da tutti. Nessuno dei 55,000 fortunati che quella sera assiepavano il Molineux dimenticherà mai quella partita, una delle pagine più gloriose della storia dei Wolves e di tutto il calcio inglese.
di Giacomo Mallano, da "UK Football please"

20 febbraio 2025

"SWINGING FOOTBALL. Storia, curiosità, aneddoti della Coppa Rimet 1966" di Christian Cesarini, 2017

Chi non ha mai sognato di avere una macchina del tempo? Da appassionati di calcio, vi siete mai chiesti in che evento, partita, epoca vi sareste catapultati? Che cosa avreste voluto vedere e vivere dal vivo? Chi segue la celebre serie tv inglese Doctor Who conoscerà il Tardis, una macchina con cui un signore del tempo chiamato il Dottore viaggia nello spazio attraverso un vortice temporale. 
Dove vi fareste portare dal Tardis esattamente? La nostra risposta è in questo libro: nei favolosi Sixties della swinging London e nel mondiale di calcio 1966! 
Racconterò in chiave prettamente inglese, narrando la parte sportiva delle sei partite giocate dai Three Lions dall'11 al 30 luglio 1966, passando anche e soprattutto per gli antefatti di quel mondiale e i tanti aneddoti e retroscena poco conosciuti al grande pubblico; cercheremo inoltre di approfondire e spiegare perché quello inglese fu il primo mondiale di calcio moderno, il capostipite delle manifestazioni che conosciamo oggi e che, ogni quattro anni, catalizzano e appassionano milioni di persone in tutto il mondo. A cinquant'anni di distanza da quell'evento, il mio vuole essere un omaggio all'unico mondiale di calcio vinto dagli 'inventori' del beautiful game: un riassunto evocativo di alcuni dei protagonisti, attraverso quel magico mese di luglio in cui l'Inghilterra e soprattutto Londra si elevarono, in ogni campo, a ombelico del mondo.
Ripubblicato nel 2020 con la casa editrice Kenness.
Swinging football. Storia e aneddoti della Coppa Rimet 1966

[DRESSERS]. La storia di FRED PERRY



























FRED PERRY …perché è bene conoscere la storia! 
Frederick John Perry (18 maggio 1909 - 2 febbraio 1995),è nato a Stockport nello Cheshire, è stato uno dei più grandi tennisti di tutti i tempi e tra nel suo lungo palmares sottolineiamo le tre vittorie a Wimbledon; tra le altre cose è stato anche campione del mondo di ping pong. Nonostante fosse un’icona del tennis mondiale e fosse adorato dal pubblico inglese, Perry viene descritto come opportunista ed egoista, tant’è che avrebbe potuto fare molto per migliorare questo sport, ma questo evidentemente non era nelle sue corde… 

Alla fine degli anni 1940 , Perry è stato avvicinato da Tibby Wegner , un calciatore Austriaco che aveva inventato un polsino anti-traspirante, Perry fece alcune modifiche e lo adattò a fascia per la testa. L’idea successiva di Wegner era di produrre una camicia sportiva, che doveva essere realizzato in cotone piquet bianco a maglia con maniche corte e bottoni sul davanti. Così fu lanciato a Wimbledon nel 1952, la polo Fred Perry, e fu un successo immediato, tant’è che come per Lacoste (di cui Perry era amico), il capo simbolo del marchio rimane appunto la polo. Il marchio è ora proprietà di una società giapponese, il logo è una foglia di alloro (in base al vecchio simbolo di Wimbledon), che presenta come segno distintivo una corona d'alloro sulla sinistra del petto; si distingue da Lacoste per il fatto che il logo è ricamato nel tessuto piuttosto che essere cucito come invece avviene per il piccolo coccodrillo francese. Fred Perry vide il successo della sua linea consolidarsi soprattutto negli anni Sessanta, allorché il marchio divenne molto popolare tra i giovani inglesi. 
Buona parte del movimento giovanile degli anni Sessanta era conosciuto col nome di Mod, abbreviazione di «modernist»; appartenendovi si seguiva tra l'altro un certo stile nel vestire, successivamente la F.P. fu usata anche dagli skinheads e dai primi casuals a Manchester, detti appunto Perry Boys. 

Ai nostri giorni è indossata da chiunque, anche se resta tra i brand favoriti di alcune sottoculture. (A.Dresser)
Interessante seppur con alcune precisazioni la storia sul sito ufficiale, parte dagli anni cinquanta e arriva ai giorni nostri, parla delle sottoculture di strada e del loro rapporto con la Fred Perry, ho tradotto solo la parte riguardante la fine degli anni settanta ed parte degli ottanta: i casuals! 

1. “…Al di fuori della musica, tuttavia, un modo intrigante di vestire stava prendendo forma sulle terraces, che sfidò lo status della F.P.. Per anni, i media avevano posato al loro attenzione sui fenomeni dei mods, punk e skinheads, mai avevano esaminato lo stile dei tifosi del football, se lo avessero fatto, avrebbero incontrato i casuals. La nascita del movimento casual è ancora la causa di molte discussioni tra londra e Liverpool. I primi dicono di averne inventato il look, mentre i secondi sostengono che è tutto nato sulle terraces di Anfield, la casa del Liverpool FC. Qualunque sia la verità, i casuals erano tifosi di calcio che nel tardo 1970 iniziarono ad indossare i jeans della Lois, scarpe Adidas (in particolare Stan Smith) o Puma e un nuovo taglio di capelli, ossia alla “Wedge”. La parte più importante del loro look era il busto, vestito da marche europee come Lacoste, Armani o Fila, comunque niente di britannico, come F.P. o altro. La passione per le marche europee si sviluppò grazie ai fan del Liverpol, la cui squadra era in quel periodo sempre qualificata per le coppe continentali. Questo permise ai fans di seguire la squadra all’estero e riportare in patria i brand conosciuti. Il desiderio di acquisire nuovi brand ci viene testimoniato nel 1981, durante la finale di coppa dei Campioni tra Real Madrid e Liverpool… La polizia francese consapevole della violenta fama degli inglesi all’estero venne messa in allarme rosso per eventuali incidenti tra opposte tifoserie, ma con loro enorme sorpresa, tutti gli inglesi andarono a fare shopping! Che i loro metodi di pagamento fossero un po’ dubbi venne confermato il giorno dopo, quando tutti i negozi interessati assunsero buttafuori e guardiani. Chi non aveva la fortuna di tifare per una squadra forte, seguiva la nazionale inglese, fu cosi che l’Inghilterra si riempì di marche europee e trainers tra le più disparate. I media nazionali rimasero all’oscuro di tutto, dato che non c’erano band o portavoci del movimento ad articolare azioni o obiettivi. Il casual è il vero culto nato dai giovani e quello che durò di più senza la rappresentazione dei media. Questa tendenza portò la F.P leggermente alla deriva, anche l’avvento dell’acid house a Londra nel 1987 non portò i benefici sperati, tant’è che alcuni si iniziarono a chiedere se la carriera di strada della F.P. fosse finita e che fosse il tempo ti tornare a Wimbledon…”

“La Fred Perry è stata una gran parte della mia giovinezza” Paul Weller
di Alberto Di Candia, https://dressersroma.com

19 febbraio 2025

MILLWALL. NO ONE LIKES US..


























“[...] Il mercoledì successivo giocavamo contro il Millwall al Den. Dei Lions si può dire quel che si vuole, ma di sicuro avevano un bel seguito a livello locale. In quasi tutte le città e le aree urbane d’Inghilterra ci si aspetta di vedere in giro ragazzi che indossano svariate maglie con i colori delle diverse squadre, con una certa prevalenza del club del posto. 
A Bermonsdey e in Old Kent Road non si vedono altro che maglie del Millwall. Prova evidente che la squadra è seguitissima dalla comunità locale. E che la paura fa novanta. Una volta – ci eravamo trasferiti da poco nella zona sud-est di Londra – stavo camminando lungo Leathermarket Street. C’era un bambino seduto sul muretto. Avrà avuto otto anni e portava una maglia del Millwall. Quando arrivai alla sua altezza mi fece: “Ehi, capo. Per che squadra tieni?”. “Per il Middlesbrough” risposi io, bello spavaldo. Era un piccoletto, di sicuro ce l’avrei fatta a evitarlo. Proseguii e quando l’ebbi superato di qualche metro lo sentii cantare: “Vai a firmare, vai a firmare, barbone. Tanto c’avete solo la disoccupazione”. Stupefatto, mi voltai. Quando vide che lo stavo guardando, il bambino si mise una mano in tasca e tirò fuori una monetina". Poi mi gridò: “Eccoti 10 pence, comprati una casa”

Non cito la fonte per maldestra dimenticanza. Ma insomma: “No one likes us, no one likes us, no one likes us, We don't care/ We are Millwall, super Millwall, We are Millwall from The Den”. Ho provato a mulinare intorno a questa asserzione ma non ci sono riuscito perché questa locuzione è la particella di Dio, il bosone di Higgs, perché se una delle domande principali che la fisica moderna si pone è quella da dove nasce la massa, la stessa cosa possiamo assumerla per tracciare i contorni del fenomeno Millwall
Non ci sono austere lavagne d’Università, tantomeno prodigiosi computer su cui collocarla, nel profondo, scuoiato, cementificato sud-est londinese dove rimonta l’eco dell’ansa del Tamigi; questa frase la trovi scritta sui muri anneriti di New Cross, sotto i ponti di South Bermonsdey, una locuzione nata come urlo di culto, pronta a riecheggiare dagli spalti del Den con la sua forza primordiale di eco identitario, vibrando come un suono antico che stemperandosi nell’aria rarefatta accumuna l'odore dei "docks", degli sfasciacarrozze, delle officine, dei depositi di gomme, e, soprattutto, la certezza di una vita: essere Millwall. 
Oh, Esattamente una squadra non la località. Il Millwall nasce più a nord da dove risiede attualmente. Nel 1885 vede la luce sulla Isle of Dogs, fondato da lavoratori scozzesi di una fabbrica di marmellata, La C&E Morton’s, creata da un certo James Thomas Morton ad Aberdeen nel 1849, per rifornire le navi di generi alimentari. Il blu come colore in onore della Scozia, terra d'origine. Dockers, diranno subito, Lions, grideranno alla fine del cammino della prima F.A. del novecento in cui la squadra fu eliminata solamente in semifinale dopo aver estromesso dalla competizione formazioni ben più blasonate, tanto da meritarsi l’accostamento con il felino. Il Millwall poi migrerà, anche se il termine migrazione in questo caso assume toni un po’ troppo enfatici, decisamente più da passeggiata, visto che lo spostamento si poteva misurare arrangiandosi con un buon metro da sarto; insomma, qualche centinaia di metri in linea d'aria. Qui scelsero un appezzamento di terreno, stipato tra gli angoli delle case, fra un intreccio di linee ferroviarie, angusti capannoni e vicoli bui. 
Era il 1910 e spuntava la sagoma ossuta del vecchio "Den", firmato Archibald Leitch e inaugurato il 22 ottobre alla presenza del presidente della FA Arthur Kinnaird. Raro, trovare una squadra così legata al proprio quartiere d'appartenenza. E quando l’amministrazione della tua zona vuole occuparsi del bene del tuo club allora parve davvero che il cerchio si accenda di fiamme e il leone, superbo, ci salti dentro varcando una sorta di futuro che potesse riservare emozioni nuove, diverse, non solo nell’adrenalina di una scazzottata o di una pinta di al Lord Nelson. Successe nel 1987. il Millwall annunciò un accordo di sponsorizzazione di quattro stagioni con il Borough di Lewisham del valore annuo di 70.000 sterline circa. David Sullivan, presidente del Consiglio comunale, si disse non solo orgoglioso di questa scelta ma anche convinto che ciò potesse migliorare la reputazione del luogo e diminuire le problematiche annesse alla frangia più accesa della tifoseria. A corredo dell’operazione, la benemerita proposta di regalare per ogni singola partita a venire 100 biglietti da dividere fra anziani e portatori di handicap. Non troppo convinto dell’intervento, si mostrò il leader locale del partito conservatore David Green, convinto assertore che tutti questi soldi erano uno spreco di risorse che non avrebbero risolto i problemi del posto. 

Tuttavia, cose volete, le speranze dei tifosi dei Lions di porre fine a 100 lunghi anni di attesa per una promozione in Prima Divisione, si dimostrarono argomento ben più convincente delle rare proteste. Il Millwall ai nastri di partenza del campionato di Seconda Divisione 1987/88 era allenato da John Docherty, toh, scozzese, ottimo suonatore di cornamusa a tre bocche, nato sotto le bombe del 1940. La svolta si nascondeva dietro il recesso, non quello fosco del Cold Blow Lane, ma in quello meno pericoloso delle trattative di mercato. Al Den si mosse artiglieria pesante. Per 85.000 sterline arriverà dal Portsmouth il centrocampista irlandese Kevin O’Callaghan, dal Gillingham, Tony Cascarino anch'egli irlandese con frammenti italiani, 190 centimetri inizialmente avviati verso la professione di parrucchiere e istruttore di yoga part-time, poi entrò nel settore giovanile dei Gills nel 1982, proveniente dal Crockenhill, in cambio di alcune tute da ginnastica e di ferri da stiro semirovinati. Con loro, George Lawrence dal Southampton, che forse aveva giocato una delle migliori stagioni di sempre in riva alla Manica ma sul quale i dirigenti dei Saints stavano cercando l’affare economico visto che in scuderia al “Dell” ormai stavano scalpitando Matt Le Tissier e Alan Shearer. 
Le 160.000 sterline dell’assegno di Reg Burr, presidente del Millwall, dissiparono ogni dubbio in proposito. Le altre pedine dello scacchiere di Docherty, erano Les Briley capitano e idolo grazie al suo stile coriaceo di centrocampista, in coppia con l’altra icona della linea mediana ossia Terry Hurlock detto “Gypo”, cespuglio di capelli ricci e orecchino d’oro, mancava la benda all’occhio ma sarebbe stato perfettamente a suo agio sulla prua di una nave pirata. Tutta gente da Millwall insomma. Concreti e con pochi fronzoli. Non solo. Là davanti zampettava istrionico un biondino di 22 anni, cresciuto dalle parti di Highams Park, che tanto aveva impressionato un osservatore del Millwall quando giocava per i dilettanti del Leytonstone & Ilford, e che a 15 anni era stato portato al Den: Teddy Sheringham, assoluto predatore della superficie racchiusa tra i lati di un rettangolo. In pochi dubitarono che quel Millwall non vincesse. Forse solamente il numero dei goal subiti rispetto alle altre dirette pretendenti poteva alimentare qualche dubbio. Ma la porta difesa da Brian Horne tenne sufficientemente bene. Il timbro sulla festa fu raggiunto alla penultima giornata in casa dell’Hull City e dopo oltre un secolo il Millwall finalmente se la poteva giocare anche con le grandi in campionato. E siccome nessuno lo prese sul serio, Teddy Sheringham cominciò a segnare sempre dentro la scatoletta del Den; segnò pure un giorno del 1988 quando il Millwall si prese troppo sul serio andando in testa alla classifica della Prima Divisione e il gommista all’angolo dello stadio cadde svenuto dopo aver bevuto 5 litri di birra.

“No one likes us, no one likes us, no one likes us, We don't care/ We are Millwall, super Millwall, We are Millwall from The Den”..
Questo blog viene aggiornato senza alcuna periodicità e non può quindi essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62 del 7/03/2001. L'autore dichiara inoltre di non essere responsabile per i commenti inseriti nei post. Eventuali commenti che siano lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, non sono da attribuirsi all'autore, nemmeno se il commento viene espresso in forma anonima. Le foto di questo blog sono pubblicate su Internet e sono state quindi ritenute di pubblico dominio. Se gli autori desiderano chiederne la rimozione, è sufficiente scrivere un'e-mail o un commento al responsabile del sito.