Vorrei potermi misurare, vorrei accettare la sfida. Mettetemi davanti ad un televisore e mostratemi uno spezzone di una partita di calcio. Diciamo: dieci secondi. Di una cosa sono certo: saprei sempre indicare se quei dieci secondi si riferiscono ad una partita giocata in Inghilterra, oppure no. Non sono, a differenza di chi scrive su questa simpaticissima pubblicazione, un vero fan del calcio inglese. Non seguo con costanza le partite, non tengo a memoria le formazioni, so a stento chi ha vinto l’ultimo campionato. Però amo il calcio inglese. Lo riconosco a pelle. Forse perché io sono nato – calcisticamente – in quella dolcissima estate del 1966, quando i Mondiali si giocarono in Inghilterra.
Forse perché, cascasse il mondo, gli occhi tagliati all’orientale di Gordon Banks, il portiere campione del mondo, non finiranno mai di scrutarmi. Sapete: io c’ero, davanti al televisore, quando nel 1970, ai Mondiali del Messico, il mitico Gordon decise che era il giunto di momento di compiere la più grande parata di tutti i tempi. Il ricordo è netto, preciso. E’ come fosse ora. Pelè si arrampica in cielo per colpire di testa il pallone che arriva dall’ala. Schiaccia la sfera verso terra, il pallone rimbalza ad un passo dalla porta e si prepara a gonfiare la rete. Il pubblico già esulta e Pelè sta già alzando le braccia al cielo.
Ma il portierone dell’Inghilterra si è alzato in volo ed è già catapultato sotto la traversa. Tira fuori il pallone dalla rete, nel vero senso della parola. Quando, qualche anno dopo, una notiziola di poche righe – scorta quasi per caso sulle pagine di un giornale – annunciò che Gordon Banks, portiere dello Stoke City, era rimasto gravemente ferito ad un occhio in un incidente stradale, provai una emozione vera. In quegli immensi maglioni – giallo quello della nazionale, verde quello dello Stoke City – il grande Gordon vivrà per sempre nella mia fantasia. Mi è capitato di rivederlo il grande Gordon, durante un bel servizio trasmesso da “Sfide”: questo è il calcio che amo, quello fatto di storie, di vittorie ma anche di malinconiche serate dopo la sconfitta.
Raccontava la sua vita, le amarezze che seguirono a quell’ incidente. Se ne stava in una modesta casetta della periferia inglese, mille miglia lontana dalle regge dorate di qualche calciatore che ben conosciamo. Sorseggiava un caffè in una cucina – poteva essere la cucina di milioni di inglesi, guardava i nipotini che correvano in ogni dove – e ho pensato che uno dei più grandi portieri di tutti i tempi era grande anche nello stile, orgogliosamente umile, con il quale raccontava sé stesso. Quindi, amici miei, non chiedetemi delle statistiche, chiedetemi delle emozioni. Ad esempio dell’unica partita di calcio che sono riuscito a vedere in terra d’Albione. Chiedetemi di quell’agosto 1978 – per le strade impazzava il punk e le note di “Never mind the bollocks” dei Sex Pistols (qualcuno saprebbe trovare un disco capace, oggi, di 33 trasformarsi in energia pura come successe a quello?) erano ovunque, amate ed odiate allo stesso modo – quando il sottoscritto decise che quel sabato pomeriggio, era il 19 di agosto, lo avrebbe passato ad Highbury.
Che ricordo? Il verde magico del prato di Highbury. Le tribune in legno. La polizia a cavallo. L’arrivo con la metropolitana, tra i cori dei tifosi. Una volta fuori dal vagone, nessuna possibilità di scelta. Una vera e propria fiumana umana ti sospinge, quasi volesse dispensare carezze, verso lo stadio. Dentro, finisco nella tribuna che sta dietro una porta. E’ quella dei tifosi più accesi dell’Arsenal (quelli del Leeds se ne stanno dall’altra parte, circondati da un bel po’ di poliziotti) e per novanta minuti non avrò nelle orecchie che i loro canti. Ritmati, ossessivi, calorosi. Come dimenticare? Passano pochi minuti e il Leeds segna. Là , nella tribuna in legno, davanti al verde magico dell’erba di Highbury, ho imparato cosa vuol dire avere fede calcistica. Perché quella rete subita è stata solo lo sprone a cantare con voce ancora più alta.
L’Arsenal giocava con Jennings, Devine, Nelson, Price (Kosmina), O’Leary, Young, Brady, Sunderland, Macdonald, Stepleton, Harvey. Questa è la mia Inghilterra del calcio. Potrei metterci poi qualche capatina in una libreria specializzata in cose di pallone, nel centro di Londra, alla ricerca del video di Portogallo – Corea del Nord: sempre Mondiali 1966. I coreani che avevano appena battuto l’Italia stavano vincendo tre a zero, a Liverpool, contro i lusitani. Poi Eusebio si ricordò di essere uno dei più grandi attaccanti di tutti i tempi e il Portogallo vinse 5 a 3. E’ bello rivedere quelle ancora incerte immagini in bianco e nero, qualche volta. Ed è bello ripensare che il caso mi avrebbe riservato un altro incontro strano. In quel di Washington DC, la capitale degli States, mi tolsi lo sfizio di assistere ad una partita del campionato americano. Meglio, soccer. Da una parte i Washington Diplomats, dall’altra la squadra di Toronto. In campo per mezz’ora anche un certo Cruijff nonché – udite udite – quel Ball che era l’ala destra dell’Inghilterra mondiale, nel 1966. Non so quanti anni avesse quel giorno il cui lo vidi dribblare sull’erba sintetica americana. Eravamo nel 1980, peraltro…
Ecco, questa è la mia Inghilterra nel pallone. Il maglione giallo di Banks, i denti minacciosi di Stiles, il genio di Duncan Edwards troppo presto spezzato nel cielo maledetto di Monaco, i cori dei tifosi, quel meraviglioso contatto tra il pubblico e i giocatori che solo il calcio inglese sa permettere.
E, adesso, le pagine di questa incredibile fanzine che osa persino chiedere il mio inutile contributo. Eccolo. Perdonatemi, se potete, cari amici che, ben più di me, sapreste riconoscere all’istante una partita di calcio inglese. Magica come poche altre cose. Vera. Come la vita che ci scorre accanto.
di Carlo Martinelli, da "UK Football please"
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