Da una vita? Non proprio.
Per era dalla metà degli anni Settanta che desideravo giocare in uno stadio inglese. Non possedendo le doti per poterlo fare da professionista, perchè non basta avere un buon piede sinistro per giocare a calcio, ma bisogna anche mettere il piedino nei contrasti e saper correre per più di cinque metri senza perderne tre rispetto al tuo diretto avversario, volevo trovare la maniera di farlo da amatore, forse non ricambiato, del calcio, e ancor più di quello inglese. Inutile stare a rievocare le occasioni che avevano originato tale passione, perchè è impossibile scegliere un solo elemento tra l'oscurità ammaliante delle tribune di Wembley durante i Mercoledi Sport invernali, il sole luminoso del prato dello stesso stadio per le finali di FA Cup o la massa brulicante sugli spalti di qualunque stadio si potesse scorgere nelle rapide, brevi, troppo brevi immagini che la Tv Svizzera, ma alcune volte incredibilmente persino la RAI caciarona e provinciale, ci mostravano.
Non conta l'origine, conta l'effetto, che mi porta in occasione del primo viaggio lassù, estate 1979, appositamente in agosto e non in luglio, a cercare in un negozio di periferia un completo dell'Arsenal della Umbro - i calzoncini ahimè mi vanno ancora bene perchè non sono più cresciuto, i calzettoni di qualità strepitosa hanno resistito a 27 anni di lavaggi - e, trovato il coraggio di uscire di casa in un quartiere orientato più verso gli Spurs che non i Gunners, recarmi al più vicino parco di quelli che mi avevano commosso, con i campi di calcio accennati dalla segnatura delle righe e le porte, portandomi appresso un pallone Mitre bianco bianco senza neppure una scritta se non quella discreta della ditta. Tiravo da solo verso la porta, sperando che nessuno mi vedesse, che nessuno mi facesse domande, che nessuno mi picchiasse.
Sempre rimasta, la voglia di provare la sensazione di giocare sul serio in uno stadio vero.
Nel 2000 avevo mostrato ai miei colleghi un depliant di Wembley che in occasione della chiusura dello stadio concedeva l'uso del prato a chiunque lo volesse, al prezzo non modico - tradotto al cambio attuale - di 14.000 euro per le due squadre, con tanto di arbitro FA e sosia della Regina Elisabetta a consegnare una finta FA Cup saliti i 39 gradini.
Per €14.000 chi li aveva, anche se distribuiti su 22 persone, e soprattutto come trovare 22 persone e reperire voli? Esaurite le idee per racimolare denari, e avendo un'attitudine del tutto inadatta al reperimento di sponsor (finirei per dargli dei soldi io...), avevo abbandonato.
Poi nel mio delirio da mai cresciuto, ho scoperto che il sito footballaid.com racchiudeva quel che desideravo: per beneficienza, dunque una bella maniera di scaricare i sensi di colpa, alcuni club inglesi mettevano a disposizione il loro stadio per un pomeriggio, e l'organizzazione dietro a Football Aid vi organizzava una partita tra due squadre vestite una con la divisa di casa ed una con quella da trasferta.
Ogni maglietta veniva assegnata all'asta, appunto per beneficienza, con uno schema prestabilito secondo il quale alcuni giocatori stanno in campo per tutta la gara ed altri subentrano al 46', pagando ovviamente meno così come coloro che sostituiscono. O povero me! Prima scelta sarebbe stata l'Upton Park, ma c'era un problema: le poche maglie per le quali avrei potuto evitare la figuraccia, ovvero tutte quelle dal centrocampo in su, evitando per le fasce perchè certamente i compagni di squadra inglesi si sarebbero aspettati un velocista-crossatore in corsa, costavano troppo, roba da non meno di 500 euro. Insomma, niente da fare. Aspettare un altro anno? Si, ma passati i 40 non è che uno possa prevedere che la propria forma fisica migliori di stagione in stagione, meglio dunque non perdere tempo e passare ad altro stadio ed altra squadra: colpo di fortuna, la combinazione perfetta tra stadio letteralmente leggendario come il Craven Cottage e squadra di seguito non strepitoso, dunque con maggiori possibilità di acciuffare una maglia decente a prezzo decente. Per farla breve: alla fine spunto con un 300 euro - versione per la futura moglie: 200. Ovviamente... - la numero 15, che consente di entrare dal 46' come seconda punta.
L'ideale perché nelle mie fantasie doveva andare così: non saranno tutti atleti strepitosi, per cui li faccio stancare nel primo tempo, e subentro quando qualcuno magari ha le gambe molli, e non si sa mai...
Sistemata la logistica grazie ad un provvidenziale volo Ryanair decisamente affrontabile come spesa - peccato poi per l'hotel, una catapecchia con temperature tropicali – è arrivato a fine maggio il giorno della gara. Accusando spesso una paradossale sindrome di auto-esclusione da straniero (in soldoni: sono convinto che gli inglesi non amino gli italiani e ne abbiano buoni motivi, per cui non cerco mai di fare troppo l'amicone), mi presento ai cancelli, effettuata la lunga passeggiata attraverso il Bishops Park. quasi con timore: presento il pass-giocatore, vengo indirizzato al corridoio che passa sotto la Putney End e arrivo in uno dei bar dietro la tribuna sul Tamigi, insomma la Riverside Stand, dove ancora un addetto con forte accento scozzese - Football Aid nasce lì - mi accoglie e invita ad entrare.
Ci sono i miei futuri compagni di squadra e i miei futuri avversari, quasi tutte con famiglia, impegnati a sorseggiare qualcosa. Cerco speranzoso di cogliere volti e fisici di persone oltre i 35 e male allenate, così che la mia forma precaria, allenata per mancanza di tempo solo su campi di calcio a 7, non mi faccia sfigurare troppo, ma vedo anche alcuni elementi che sembrano calciatori veri. Ahimè. Ovviamente - ovviamente per come sono di carattere - non parlo con nessuno e non mi avvicino a nessuno, e l'indicazione di andare verso gli spogliatoi è quasi un sollievo da quella situazione di imbarazzo. Altro che sollievo: diventa esaltazione quando ci fanno entrare nel nostro spogliatoio - io ho "comprato" la maglia azzurrina da trasferta, costava meno... - e tre posti dalla porta, sulla destra, vedo appena una maglia con il mio cognome. Porca miseria...
Per educazione vado poi a presentarmi a tutti gli altri, i quali o non ritengono che ci sia nulla di male o di strano ad avere un italiano in squadra o se ne strafregano, sta di fatto che nessuno dice nulla o commenta sulla mia provenienza. Scopro presto che il mio futuro partner d'attacco, Gary, inglesissimo di aspetto, statura e pure pancetta da birra, viene apposta da Los Angeles dove gestisce un paio di pub e dunque per fortuna non sono io il più esotico. Scruto ancora: due tizi piuttosto corpulenti, uno spilungone di gamba lunghissima, altri due tizi ben piantati e molto sicuri di sè, un armadio ambulante dal fisico scultoreo, quasi sovrappeso ma certamente non eccessivo, un ragazzo di chiare origini mediorientali. Rivestito in un mezzo secondo per la voglia di andare in campo, non riesco però ad evitare un batticuore quando metto piede per la prima volta sul prato, uscendo dal Cottage: erba soffice, splendida, di quelle in cui ci si vorrebbe rotolare, da cui non si vorrebbe mai uscire. Passo metà del riscaldamento a guardarmi intorno, cercando ogni tanto di impressionare i miei compagni di squadra con qualche tiro al volo, anche perchè non mi arrischio a fare controlli volanti, poi è il momento di tornare dentro, e dell'ispezione degli scarpini e dei parastinchi da parte dei due segnalinee, anzi di uno, perchè l'altro è un ragazzino preso probabilmente tra i parenti di qualcuno per defezione improvvisa dell'altro uomo in nero. Un mio collega, quello di apparenti origini mediorientali (scopro poi dal foglietto delle formazioni che si chiama Umar), per l'ingresso in campo dietro la terna arbitrale, con tanto di fotografo che riprende la scena, indossa una parrucca afro che lo innalza di almeno 15 centimetri, e più che altro non si capisce perchè lo faccia. Mi manca il fiato dall'emozione giù a correre verso il centro del campo, figuriamoci cosa potrà accadere dal 46' in poi.
Squadre schierate in linea, e... saluto al pubblico. Pubblico? Una settantina di persone: del resto, con quindici per squadra, se ognuno porta due amici/parenti/figuranti si fa presto a raggiungere quel numero. Uno di noi, l'ala destra Matt, simpatico skinhead - ma pure bello stempiato - ha addirittura una piccola claque in uno dei box privati, anche se non si capisce come possano esserci entrati, visto che si poteva sedere solo nella Riverside Stand.
Mi rilasso, perchè il mio turno arriverà solo dal 46'. Ma subito il mio mondo cambia: dopo al massimo tre minuti Umar in un contrasto duro si fa male alla caviglia, e nemmeno il fisico da culturista lo aiuta. Fuori, non ce la fa. L'allenatore, o meglio il responsabile di Football Aid addetto alla squadra "ospite", si volta verso noi tre panchinari e mi fa cenno di entrare. Io non so cosa fare: rigido nel seguire le istruzioni come sono sempre, gli faccio notare che mi spetta giocare solo nel secondo tempo, ma non c'è verso, ed entro in campo, ben contento e ben emozionato, cercando di mascherare entrambe le condizioni. Robbie Herrera, ex giocatore del Fulham chiamato - è un classico, per le partite di Football Aid - a dare una mano ad una delle due squadre, mi chiede se posso sostituire Umar nello stesso ruolo, ovvero ala sinistra, ma gli dico che ad occhio e croce è meglio se lo spilungone, Ian, si allarga sulla fascia, ed io passo in mezzo come seconda punta. Ma avrei potuto essere anche prima, o terza, che il risultato non sarebbe stato diverso: per i primi quindici minuti ho le gambe di marmo dall'emozione, e la palla viaggia sempre lontanissima, la vedo a malapena, mi passa sopra, a destra, a sinistra, mai vicino, e per non fare figure meschine mi dedico almeno alla marcatura a uomo. Finalmente tocco il pallone con un anticipo di testa su una rimessa laterale, ma non ricordo ora neppure dove sia finita. Herrera ad un certo punto mi dà palla in area sulla sinistra, io vado incontro a 5-6 metri dalla linea di fondo, controllo ma il difensore centrale, correttamente, mi spinge e io non riesco a girarla in mezzo. Però mi sento meglio, le gambe progressivamente pesano meno, ed avrei persino voglia di ricevere il pallone tra i piedi. Succede dopo una ventina di minuti: passaggio al limite dell'area al centravanti Gary, che me la tocca indietro leggermente alta. Riesco in qualche maniera a controllarla di esterno sinistro, in pratica un mezzo tacco, e quando ricade la faccio rimbalzare e... insomma, nella mia testa si svolge in rapida sequenza un ragionamento che fa così: Qui è già tanto se toccherai un altro pallone, dunque tira ora, sennò quando lo farai? È. Tiro di controbalzo... male eseguito, la palla rotola molle verso il portiere, mentre Ian, sulla sinistra, mi fa notare che un semplice passaggio filtrante lo avrebbe messo solo davanti al portiere. Ian? Portiere? Visto niente.
In quel momento ho visto solo la porta e l'enormità vacua della Hammersmith End dietro di essa. Passiamo in svantaggio 1-0 su gran tiro dal limite di un avversario, e lì il nostro regista, il corpulento Simon, fisico che sarebbe eccessivo perfino per un difensore centrale, si scatena, aumentando il ritmo (ahimè), portando palla, cercando triangoli. Sulla destra Matt corre molto, in mezzo al campo Neil, non molto alto, con una bella pancia ma efficace, copre molto ed effettua anche un tiro che sarebbe finito certamente nello specchio della porta - ah, che sano luogo comune - se non fosse stato per una deviazione.
A pochi minuti dall'intervallo Matt effettua un cross, un difensore respinge sempre in quella direzione, altro cross, la palla mi sembra proprio arrivare tra i due difensori centrali, proprio verso di me... ma mi rendo conto che sono circa sul disco del rigore, e mi sembra troppo lontano per indirizzarla bene. Salto, la colpisco con la fronte (ricordati, non chiudere gli occhi È mi dico saltando) cercando perlomeno di mandarla verso la porta, poi ricado. Mi alzo e vedo che è calcio d'angolo.
Ma che è successo? Lo saprò solo dopo, guardando sul sito web (www.mattnuttallphotography.co.uk, partita Fulham 2005, pagina 24, foto 513 e 514, per chi non ci crede...) del fotografo, che pure nello scatto della mia inzuccata non ha inquadrato bene e mi ha... tagliato la testa: il mio colpo di testa, seppur lento, era abbastanza angolato, e il portiere ci è arrivato proprio per un pelo, toccandolo in angolo. Stavo per segnare senza accorgermene... Sul corner altra situazione a rischio, nel senso che la palla mi passa davanti rimbalzando, ma ad altezza impervia, e credo che il bello sia finito lì: arriva l'intervallo, ho giocato i miei 45' pagati, tornerò a sedere.
Ma al ritorno dagli spogliatoi l'allenatore mi chiama e mi chiede perchè non sono in campo: ho pagato per un tempo ed ho giocato un tempo. E’ gli dico. Ma ti ho fatto entrare io, dunque vai dentro ora, è questo il periodo per cui hai pagato!. Sinceramente, non me lo faccio dire due volte, perchè quel quasi-gol mi ha messo appetito: Ian si siede - era lui che dovevo sostituire - e Umar, rimessosi a nuovo, rientra, non perché dovesse "riprendersi" i 45' pagati, ma perché aveva pagato sia per la maglia numero 8 sia per quella numero 14 (!), da centrocampista difensivo, mentre il suo posto sulla fascia viene preso dal numero 17 Nigel, uno a cui a prima vista non avrei dato un penny: magrolino, pelatino, l'aria buona. Si, buonanotte: è invece bravissimo, rapido, tocchi di prima e buoni movimenti, per cui dopo qualche minuto capisco che è meglio se lui si accentra come seconda punta, mentre io retrocedo a fianco di Simon, che non perde un colpo, e giochiamo con una formazione sbilanciata ma efficace. Per fortuna mi riescono alcuni passaggi, tra cui uno che taglia la difesa e lancia - per modo di dire, non è il suo mestiere dato il fisico - Gary che però non se la sente di fare contropiede, e andiamo in gol tre volte: tiro da fuori di Simon, tocco di Nigel di sinistro incrociato, tocco di Nigel di esterno sinistro, pallonetto da appena fuori area, su uscita del portiere. Chiude Gary con un destro ravvicinato, qualche minuto dopo quella che mi era parsa una grande occasione: palla dalla destra che taglia il campo, la mancano in tre e dietro arrivo io controllandola in corsa, o in quello che corsa si può definire considerando il mio stato. In teoria davanti - a 30 metri, però - c'è solo il portiere, giù penso se è il caso di colpire con un pallonetto quando sento il fischio. Fuorigioco. Vabbè che nessuno che sia in fuorigioco pensa mai realmente di esserlo, ma ero partito da dietro e c'era stato il tempo per tre persone per "bucare" la palla e poi la bandierina l'ha alzata il ragazzino-sostituto, insomma non ero in fuorigioco e mi hanno impedito di segnare (o di fare una figuraccia uno contro uno...). Scherzi a parte, la nostra vittoria 4-1 è meritata e infatti il "loro" portiere, Steve, viene votato Man of the match per i "bianchi", mentre Nigel è giustamente premiato da noi.
Avrei voluto fare di più, avrei voluto rigiocare immediatamente per correggere gli errori, ma intanto mi sembrava surreale essere lì a bordo campo con i calzettoni abbassati sui parastinchi, ad applaudire ringraziando il pubblico, a dare la mano ad avversari e compagni di squadra, a fare tutto quel che può fare un quarantenne che ha 350 euro da spendere per vivere fantasie allevate fin da quand'era bambino, ed un po' se ne vergogna, un po' no, così come è stato abbastanza imbarazzante utilizzare 16.000 battute di testo e varie pagine di questa fanzine per descrivere una partita di valore tecnico inferiore a quello di tante che vedete la domenica mattina passando in auto lungo le strade di periferia.
Ma lo rifarei, allora? Certo. Domani. Anzi, oggi.
di Roberto Gotta, da UKFP (maggio 2006)
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