23 dicembre 2024

SECOND CITY DERBY. Aston Villa-Birmingham City.






















Londra, Manchester, Glasgow, Liverpool queste sono, forse, le città principali dove vengono giocati i derby più affascinanti del Regno Unito. Sarebbe riduttivo pensare che, nel Regno Unito, ci sono solo determinati derby. Infatti ci sono varie città, contee e campagne in cui vengono giocati derby locali molto affascinanti. Certamente, un Arsenal – Tottenham ha sempre un altro sapore rispetto ad un Nottingham Forest – Notts County, oppure un Celtic – Rangers ha più importanza di un Cardiff – Swansea o ancora un Liverpool – Everton ha più risonanza di un BIRMINGHAM CITY – ASTON VILLA. Non è pura casualità che quest'ultimo sia stato scritto tutto in maiuscolo anzi è qui che vogliamo soffermarci.

Il titolo dell'articolo dice tutto, infatti molto spesso parlando con persone che non hanno molto intendimento del calcio d'oltremanica quando si parla di Derby anglosassoni i soliti citati sono quelli di Londra, Manchester, Glasgow o Liverpool. A Birmingham vi è una rivalità molto accesa che forse (secondo il modesto parere dello scrittore dell'articolo) meriterebbe di essere conosciuta più nel dettaglio in quanto se ne parla molto poco nonostante sia uno dei più infuocati.
Second City Derby, è questo il nome della rivalità tra il Birmingham e l'Aston Villa dove i due club del Midlands sono generalmente considerati come i rivali più feroci l'uni degli altri, anche se questo derby ha perso di valore tra il 1988 e il 2002, quando le due squadre erano in divisioni differenti. Durante quel periodo, la più grande rivalità locale del Villa era con il Coventry City, mentre i rivali principali locali dei Blues erano il Wolverhampton Wanderers ed il West Bromwich Albion.

I club si sono incontrati per la prima volta il 27 settembre 1879. La partita fu giocata su un campo al Muntz Street che fu per un po' di tempo il campo di gioco del Birmingham. Il match finì 1-0 per i Blues registrato. Il Villa vinse la prima partita tra i due club, nel secondo turno della Coppa d'Inghilterra a Wellington Road nel 1887, con quattro gol a zero, ed in campionato in Prima divisione nella stagione 1894-95 per 2-1.
Nel campionato 1925 al Villa Park fu giocata una partita che rimase nella storia di questo derby. La partita vedeva i padroni di casa in vantaggio 3-0 ma, a dieci minuti dalla fine, il Birmingham ha segnato tre reti, da lì si capì subito il valore di questa rivalità.
Lo scontro più significativo si ebbe in vista della finale di Coppa di Lega 1963, che si svolse poco dopo che l'Aston Villa aveva battuto il Birmingham City 4-0 in campionato. I Blues s'imposero con un 3-1 complessivo sulla doppia finale vincendo così la League Cup.
Durante la fine degli anni 70 e fino ai primi anni 80 sia Villa e Blues si è ritrovarono nella prima divisione ed entrambe le squadre ebbero alcuni successi memorabili in questa divisione. 

Nel 1980-81 il Villa vinse il titolo di Prima Divisione. I Blues vinse, poi, in un memorabile 3-0 al St Andrew dopo il trionfo Coppa dei Campioni Villa nel 1982. 
Entrambe le squadre hanno subito, poi, un incredibile declino. Il Birmingham ebbe l'onore di vincere per 3-0 una battaglia per non retrocedere al Villa Park nel marzo 1986, ma quella stagione i Blues retrocedettero comunque. Ma, comunque sia, Villa li avrebbe seguiti la stagione successiva successiva. 


























La promozione in Premier League del Birmingham nel 2002, vide i fans molto impazienti per i derby di campionato che non si verificavano da 15 anni. I Blues, quella stagione, vinsero entrambi i derby (3-0 e 2-0). In entrambe le partite vi furono errori dal portiere dell'Aston Villa Peter Enckelman, tra cui un gol segnato direttamente da una rimessa laterale di Olof Mellberg. In quella partita si verificarono numero episodi di violenza tra le due tifoserie. 
Nel marzo 2003, nel corso di un derby al Villa Park, due giocatori del Villa furono espulsi. Uno fu Dion Dublin che si trovò coinvolto in una rissa contro Robbie Savage del Birmingham, mentre l'altro fu Joey Guðjónsson per uno spericolato tackle su Matthew Upson.

La stagione 2003-04 di Premiership vide due partite con due pareggi, 0-0 e 2-2. Il pareggio per 2-2 ha visto Blues recuperare un due gol al 90° minuto da Stern John . Entrambi i match vennero giocati all'ora di pranzo al fine di evitare comportamenti di violenza tra i tifosi che avessero assunto molta quantità di alcool. Nella stagione successiva il Birmingham è tornato a vincere, con il 2-1 al Villa Park poco prima di Natale ed il 2-0 in casa a marzo. In quella occasione il portiere dell'Aston Villa, Thomas Sørensen, fu protagonista di due clamorosi errori in entrambe le partite, anche se i suoi errori non hanno direttamente influito sui rispettivi risultati in quanto l'Aston Villa non giocò alla grande quelle partite. 
Nella Stagione 2005-06 di Premiership, il Villa batté i Blues in Premiership, grazie ad un gol di Kevin Phillips. Questa è stata seguita da un'altra vittoria dell'Aston Villa il 16 aprile 2006, Domenica di Pasqua, dove il Villa vinse 3-1 grazie a due gol di Milan Baroš e una rovesciata da Gary Cahill. Il Birmingham retrocedette nel 2006, ma successivamente venne promosso nel 2007. Nel novembre 2007 fu ancora la volta dell'Aston Villa che vinse il suo terzo derby consecutivo con una vittoria per 2-1 al St. Andrews (stadio del Birmingham). Anche in quella occasione vi furono violenti scontri fuori dallo stadio e, dopo la partita, rimasero feriti più di venti agenti di polizia.




















Il derby del 20 aprile 2008, invece, si concluse con una vittoria di 5-1 per Aston Villa al Villa Park. L'Aston Villa ha continuato a dominare nei derby. Infatti, nella stagione 2009-10 di Premier League, il Villa vinse sia all'andata che al ritorno. Il primo match di quella stagione ha avuto luogo il 13 settembre 2009 al St Andrew, e si è concluso 1-0 per Aston Villa, con la rete di Agbonlahor al minuto 85. Stesso risultato nel ritorno dove il Villa s'impose per 1-0 al Villa Park grazie ad un rigore di James Milner nel minuto 82.
In quelle partite, dell'ottobre e dicembre 2010, al Villa Park (Premier League, 31 ottobre) e di Sant'Andrea (Coppa di Lega, 1° dicembre) vi furono gli ennesimi episodi di violenza tra i due gruppi di sostenitori. Quei giorni numerosi furono gli arresti. Nella prima partita, ci sono state scene di violenza al di fuori del Villa Park e vi fu una piccola quantità di arresti tra cui un gruppo di supporter del Birmingham City. 
Nel secondo incontro (dove la violenza toccò picchi di “ultra-violenza”) dopo che il Birmingham aveva battuto il Villa per 2 -1 in casa, molti sostenitori Blues invasero il campo al fine di affrontare i tifosi rivali dell'Aston Villa. Si videro seggiolini delle gradinate volare sul campo da una parte all'altra. Ci sono stati anche violenze prima e dopo la partita dove venne attaccato un pub di Birmingham da alcuni tifosi teppisti dell'Aston Villa, gli eventi sono stati descritti come una “zona di guerra” da un fan che era alla partita. Il Birmingham City venne successivamente multato di 40.000 sterline dalla Football Association per aver omesso il giusto controllo dei loro fan.

Leggendo l'articolo viene da pensare, chiaramente, che questa rivalità sia sul campo che fuori ha molto più il valore di una semplice partita ma, nonostante tutto, spesso non è uno dei derby più conosciuti o più seguiti poiché ci sono altre partite che hanno un “determinato” valore, anche, mediatico. 
Nel Regno Unito non si finisce mai di scoprire e le scoperte di carattere calcistico, non so voi, ma hanno sempre un qualcosa di STRAORDINARIO.
di Damiano Francesconi

21 dicembre 2024

FIRST Division🇬🇧, il calcio inglese di una volta..

Quando pensi al calcio inglese cosa pensi?, 
Al fascino dei vecchi piccoli stadi, alle pinte nel pub con gli amici, al match programme della partita, alle ends che si muovevano ondeggiando ai goals della propria squadra, il pallone 18 panels rigorosamente bianco, il portiere con la maglia verde ed i pantaloncini come quelli dei compagni, il profumo forte degli hot dog con la cipolla nei dintorni dello stadio oppure l'amarissimo Bovril, per i più "vecchi" i rumorosissimi turnstiles oppure.. i totalisator a lato dei campi di gioco?
atmosfera unica, irripetibile..

Ecco FIRST Division, un punto di riferimento di chi ha vissuto tutto questo e chi lo sogna..

20 dicembre 2024

I WOLVES DAL DOPOGUERRA AI PRIMI FLOODLIGHT MATCHES.





Nel 1946, con la fine della guerra, anche il calcio, come tutte le attività, riparte faticosamente.
La stagione 1946/47 è difficile e tormentata, ma la voglia di voltare pagina, di divertirsi e darsi a cose più leggere e liete è troppa. Sono gli anni della ricostruzione, anche per lo sport più popolare del Regno Unito; molti club hanno sospeso l’attività, diversi stadi sono stati distrutti dai bombardamenti tedeschi, un’intera generazione di calciatori è stata decimata dalla guerra. E’ quasi tutto da rifare, ma l’entusiasmo è grande, e all’ombra del Molineux si coniuga con la competenza e la lungimiranza di una dirigenza che proprio in questi anni pone le basi del periodo più glorioso della storia del Wolverhampton Wanderers.

Nel 1939, all’alba delle ostilità belliche, i Wolves avevano loro malgrado scritto una pagina storica del calcio inglese, perdendo per 4-1 la finale di FA Cup contro la ‘cenerentola’ Portsmouth. E’ uno smacco che i Wolves provano a vendicare subito, ma nel 1946-47 cadono ancora una volta sul traguardo, chiudendo il campionato al 3° posto, ma con un solo punto meno del Liverpool campione. Il manager è Ted Vizard, succeduto nel 1944 alla leggendaria figura del Maggiore Frank Buckley. Quella squadra annovera tanti talenti, il più grande dei quali, Stan Cullis, sciocca tutti a fine stagione annunciando il ritiro dall’attività agonistica per diventare vice di Vizard.
Nel 1948 Cullis diventa manager al termine di una stagione mediocre (i Wolves finiscono il campionato al 5° posto), e apre quello che sarà il ciclo più glorioso della storia del club. 
Il successo arriva subito, nelle forme della FA Cup, conquistata a Wembley nella finale contro il Leicester. Contro una squadra di categoria inferiore, i Wolves non ripetono l’errore del 1939 e dominano il match davanti ai 99.500 spettatori di Wembley. I gol di Pye (2) e Smyth fissano il 3-1 e quantificano la netta superiorità della squadra di Cullis. 
Il successo è un perfetto manifesto della rivoluzionaria filosofia calcistica di Cullis, convinto assertore di un gioco diretto fatto di passaggi di prima, lontano dal calcio ‘palla al piede’ allora dominante. Un modello tattico che però non funziona altrettanto bene in campionato, dove i Wolves finiscono 6°. Per Cullis, però, è proprio la conquista del titolo nazionale che comincia a diventare un’ossessione. Il manager era infatti in campo nelle ultime due stagioni prebelliche, quando i Wolves erano finiti per due volte al 2° posto. E l’ossessione si acuisce nel 1949/50, quando la squadra termina la First Division a pari punti con il Portsmouth (53) ma vede sfumare il titolo per la peggiore differenza reti. Una beffa atroce, resa ancora più amara dalla sconfitta in FA Cup per mano dell’Arsenal. Sembrano le premesse di un grande ciclo, ma le due stagioni successive non mantengono le promesse, e i Wolves finiscono lontano dalla vetta; nel 1952/53 comincia la riscossa, con la squadra di Cullis che finisce al 3° posto.
E proprio in questo periodo, destinato a culminare con il sospirato titolo della stagione 1953/54, la dirigenza dei Wolves si conferma all’avanguardia, decidendo di dotare il Molineux di riflettori per consentire il gioco anche in notturna. I Wolves sono fra i primi club ad andare in questa direzione rivoluzionaria, aprendo di fatto una irripetibile stagione di grandi match internazionali in notturna, prodromo e modello delle coppe europee che saranno varate dopo qualche anno. Non è tuttavia una decisione che incontra il favore immediato delle istituzioni calcistiche nazionali. Tanto la Football League che la Football Association negano ai Wolves il permesso di disputare match ufficiali di campionato o di coppa in notturna, limitando così il possibile impiego della nuova infrastruttura di illuminazione alle gare amichevoli. 
La dirigenza del club non rinuncia però a realizzare la propria avveniristica visione, e incarica la France’s Electric Ltd di Darlaston di realizzare il migliore impianto possibile sulla 18 L’onore di inaugurare l’illuminazione è inizialmente riservato al Celtic Glasgow, con cui è concordata un’amichevole per il 14 ottobre 1953. Succede però che la messa a punto dell’impianto è completata prima del previsto, e la dirigenza dei Wolves decide di approfittarne, posticipando alla sera del 30 settembre la prestigiosa amichevole contro la rappresentativa nazionale del Sud Africa, originariamente programmata per il pomeriggio dello stesso giorno. Stimolare la curiosità di vedere finalmente in opera i riflettori artificiali con una partita internazionale, assai poco frequente in quegli anni, è un’altra grande intuizione della dirigenza del Molineux.
L’attesa della vigilia è tale da oscurare anche il clamoroso 8-1 rifilato al Chelsea il sabato precedente, con il grande Johnny Hancocks autore di una tripletta. Il ‘Football in Technicolor’, come definito da alcuni mezzi di informazione, è ufficialmente inaugurato alle 7.45 serali di mercoledì 30 settembre 1953, davanti a 33.681 appassionati. 
L’attesa non è solo per lo spettacolo dell’illuminazione: il Sud Africa è squadra vera, nel pieno di una tourneè di grande successo, nel corso della quale ha pareggiato 2-2 con l’Arsenal e con il Birmingham County FA, battendo invece per 4-0 una rappresentativa amatoriale, 3-1 il Charlton e 4-2 il Norfolk FA. Per i Wolves è quindi un test probante, oltre che l’ideale coronamento della trionfale tourneè compiuta in Sudafrica nel 1951, con dodici vittorie in altrettante partite, sessanta reti realizzate e solo cinque subite. In un clima di grande sportività e rispetto reciproco, le squadre entrano in campo guidate dai rispettivi capitani Ross Dow (Sud Africa) e Eddie Stuart (Wolves). Per Stuart, nato proprio in Sudafrica, è un grande onore concessogli da Bill Shorthouse, all’epoca capitano della squadra. In campo, alcuni dei nomi entrati nella storia del club, protagonisti fra l’altro della rincorsa che porterà pochi mesi dopo al primo sospirato titolo. Billy Wright, Jimmy Mullen, Johnny Hancocks, Roy Swinbourne, l’ancora dilettante Bill Slater, Peter Broadbent sono nomi che ancora fanno sospirare I fedelissimi del Molineux, e in questa serata regalano sprazzi di grande calcio, liquidando gli ospiti sudafricani con un secco 3-1 firmato dai gol di Mullen, Broadbent e Swinbourne.




















Al termine del match, fra reciproci attestati di stima e scambio di doni, la dirigenza assapora la perfetta riuscita dell’evento, annunciando per l’immediato futuro altre grandi serate di calcio internazionale che confermino la crescente reputazione dei Wolves fra i grandi club del continente. Un mesetto dopo, di fronte a 41.820 spettatori, lo spettacolo si ripete, ospite il Celtic. Si gioca ancora di mercoledì, per non interferire con il campionato, e Cullis si concede addirittura un primordiale assaggio di turn-over. In porta Nigel Sims sostituisce Bert Williams, in difesa rientra Shorthouse mentre il 17enne Bobby Mason esordisce con la casacca Old Gold. Soprattutto, però, in campo va Tennis Wilshaw, reduce dalla doppietta segnata al Galles nel giorno dell’esordio con la maglia della nazionale inglese. Wilshaw conferma il momento di grazia realizzando la doppietta che nella ripresa fissa il 2-0 finale. Nel primo tempo, tuttavia, il Celtic (pure privo del talentuoso Jock Stein) impressiona per la velocità della manovra e la precisione dei passaggi, pur non trovando mai lo spiraglio giusto per battere la magistrale difesa guidata da Billy Wright e Slater, due accomunati dal singolare record di non essere mai stati ammoniti in tutta la carriera. Dopo la sfida con gli scozzesi, il Molineux aspetterà quasi sei mesi per riaccendersi in notturna. 
Con il titolo quasi conquistato, l’occasione è però di quelle di assoluto prestigio: arriva il Racing Club di Buenos Aires, grande d’Argentina nel pieno di un tour europeo che porta i ‘Cancioneros de America’ (così chiamati dal canto che usano intonare prima delle partite) in Italia, Jugoslavia, Spagna e Belgio, a sfidare i più grandi club del momento. La curiosità è alimentata anche dal calcio giocato dal Racing, completamente diverso da quello inglese e anche da quello ‘coloniale’ dei sudafricani; un calcio fatto di possesso palla e passaggi corti, ritmi bassi e pochi cross verso il centro dell’area. La forza e la velocità dei Wolves hanno però la meglio anche su avversari così ‘diversi’ da quelli affrontati settimanalmente. L’esordiente Doug Taylor apre le marcature ma Pizzuti pareggia dopo pochi minuti. Nella ripresa la superiore preparazione fisica dei Wolves emerge e prevale, e i gol di Deeley e Mullen fissano il punteggio sul 3-1 finale.

Un altro grande successo di grande prestigio seppure senza valore ufficiale, ma comunque un degno coronamento di una stagione straordinaria. Arriva infatti il tanto sospirato titolo, ancor più bello perché soffiato ai rivali di sempre del W.B.A., secondo a quattro punti. In estate si giocano i Mondiali svizzeri, e i Wolves restano protagonisti fornendo alla nazionale inglese le grandi firme Billy Wright, Dennis Wilshaw e Jimmy Mullen. 
Fra agosto e settembre la squadra di Cullis prosegue il suo personale campionato internazionale per club facendo visita al First Vienna FC (battuto 2-0) e al Celtic (3-3 in un match ad alta tensione). Soprattutto, però, il 29 settembre il Molineux ospita in notturna una fantastica Charity Shield fra Wolves e W.B.A., trionfatori della FA Cup 1954. Ne viene fuori un classico del calcio inglese, un 4-4 che elettrizza ed entusiasma gli oltre 40.000 spettatori. I Wolves vanno avanti 4-1 grazie ai gol di Swinbourne (2), Deeley e Hancocks, ma subiscono nel finale il ritorno dei Baggies trascinati da uno strepitoso Ronnie Allen, futuro manager proprio dei Wolves ed autore di una tripletta. 
Due settimane dopo il Molineux ospita un’altra ‘prima volta’, con la prima visita di un club dell’Europa continentale, l’Austria Vienna. Cullis è costretto ad effettuare diversi cambiamenti rispetto alla formazione ‘tipo’, spostando addirittura in attacco Bill Slater. Il generoso difensore dà il massimo per non far notare la bizzarria della sua posizione, ma non riesce ad andare ad un palo colpito di testa. Il portiere austriaco Schmeid fa il resto, opponendosi a tutto quanto gli arrembanti Wolves gli tirano addosso, assurgendo al ruolo di eroe e consentendo ai suoi di uscire imbattuti dal match, primi a riuscirci nella nuova era dei floodlight matches. La rivincita dell’Old Gold non tarda però ad arrivare; a farne le spese gli israeliani del Maccabi Tel Aviv, travolti due settimane dopo con il clamoroso punteggio di 10-0. Roy Swinbourne è l’eroe della serata, realizzando una tripletta, ma è tutta la squadra a girare al meglio, producendo una superba prestazione di calcio offensivo. Il momento di grazia, peraltro, era iniziato già in campionato, con un clamoroso 4-0 rifilato al WBA quattro 20 giorni prima. 
Ed è un momento che prosegue per tutto il 1954, con le vette dei match contro Spartak Mosca e Honved Budapest. Sull’onda della crescente attenzione dei mezzi d’informazione, infatti, il Molineux ‘in notturna’ diventa una sorta di ‘salotto buono’ del grande calcio europeo, e molti club si candidano ad affrontare i Wolves, la cui reputazione cresce di pari passo. A metà novembre arriva quindi il turno del temibile Spartak Mosca, reduce dalle clamorose vittorie contro Standard Liegi, Anderlecht e Arsenal.

Negli anni ’50, in piena guerra fredda, la visita di una squadra sovietica aggiunge al confronto anche una valenza politica, caricando la partita di un’attesa quasi spasmodica. La dirigenza decide quindi di rendere il match ‘all-ticket’, scatenando una frenetica caccia al biglietto. Sono addirittura installati riflettori supplementari per consentire alla BBC di trasmettere in diretta televisiva il match. Il 16 novembre l’evento finalmente ha luogo, davanti a 55.184 spettatori. Il primo tempo (chiuso sullo 0-0) fa correre brividi sulla schiena a Bert Williams, salvato per due volte da salvataggi sulla linea dei suoi difensori.
Lo Spartak gioca la palla con grande precisione e risponde colpo su colpo al classico gioco offensivo dei padroni di casa. Nella ripresa, gradualmente, la superba preparazione fisica dei Wolves prevale, e finalmente al 62° Wilshaw supera Piraev dopo che il portiere russo gli rimpalla il primo tentativo. Ora lo Spartak soffre, ma resiste all’incessante spinta dei Wolves, spronati da un pubblico incontenibile. Nel finale la diga sovietica cede, e Hancocks (2) e Swinbourne trovano la via della porta, dando al risultato proporzioni esaltanti anche se forse eccessive per quanto di buono fatto vedere dallo Spartak. Il 4-0 onora al meglio una delle prime dirette televisive della storia, e proietta le sgargianti casacche color oro dei Wolves nell’immaginario sportivo di tutta l’Inghilterra. 
Forte di quest’aura di imbattibilità, la ‘sfida finale’ arriva il 13 dicembre 1954. Avversario la Honved Budapest, succursale di quella nazionale ungherese che ha inflitto al calcio inglese la più grande umiliazione della storia, superando i maestri prima a Wembley con un sonoro 6-3 e poi a Budapest con un ancor più pesante 7-1. Ai Wolves è dunque affidato l’orgoglio calcistico di un’intera nazione, da riabilitare in 90 minuti. 
Ma questa è un’altra storia, anzi questa serata è LA storia, e magari la racconteremo la prossima volta…
di Giacomo Mallano, da "UK Football please"

19 dicembre 2024

TOP Lads. Marco Xen (Manchester City)





































Eccomi qua, che dire, sono Marco Xen, trevigiano fiero con una grande passione legata al calcio, milanista dalla nascita per quanto riguarda il calcio italiano, sponda Manchester City (dal 2011) per quanto riguarda il calcio inglese.

-Di quale squadra britannica sei tifoso e come mai?
I perché io mi sia affezionato ai citizens sono ben due, il primo è legato allo storico film "Jimmy Grimble", il secondo dovuto a Sergio Aguero, diventato per me una specie di idolo da quando è arrivato alla corte dello storico manager Roberto Mancini.

-Come è iniziata la tua passione per il calcio britannico e quali sono le caratteristiche del calcio britannico che piu' ti piacciono?
Ho sempre avuto la passione per il calcio britannico fin dai tempi dove le partite di Premier League venivano trasmette su Tele+, prima del passaggio definitivo a sky. All'epoca tutte le squadre avevano il loro fascino, con i loro splendidi stadi e con la magica atmosfera che rende ancora oggi la Premier League il miglior campionato al mondo.
Gli ulteriori aspetti che più mi hanno portato a supportare questa squadra e di per sè il calcio britannico sono l'impeccabile organizzazione e dialogo con i propri tifosi.

Da anni viaggio in prima persona per assistere alle partite in casa e trasferta dei citizens facendo parte della magica branch ufficiale italiana riconosciuta dal Manchester City: "Milano Blue Moon", ogni viaggio per me ha lo stesso sapore della prima volta, una emozione unica.

18 dicembre 2024

ANGLO-ITALIAN CUP

Cari Amici, colgo l’occasione per parlarvi di una affascinante e, purtroppo, dimenticata competizione : la Coppa Anglo-Italiana
Sicuramente nota ai lettori più “ anziani “, meno a quelli più giovani..Il Torneo Anglo-Italiano venne ideato alla fine degli anni Sessanta da un allora famoso manager italiano di nome Gigi Peronace che per rafforzare i rapporti fra le leghe professionistiche calcistiche inglese ed italiana decise di portare avanti questo progetto. Uomo di spiccate doti diplomatiche, Peronace, era nato in provincia di Catanzaro e in gioventù aveva vestito la maglia della Reggina ricoprendo il ruolo di portiere. L’idea di creare questo torneo gli sorse dopo la guerra cominciando ad organizzare incontri calcistici fra le rappresentative armate inglesi ed italiane.

Laureatosi in Ingegneria a Torino, venne presto a contatto con l’ambiente Juventino e grazie alla sua conoscenza della lingua inglese divenne l’interprete degli allenatori inglesi Chalmers e Carver, contribuendo all’acquisto da parte della società torinese di campioni come Hansen, Praest, Hamrin e Charles.

Nel 1966 venne assunto dalla Federcalcio italiana e nel 1970 diede via al Torneo di cui vi sto parlando. Ad esso partecipavano inizialmente formazioni di richiamo, ma non di vertice e col passare del tempo addirittura squadre di Serie B italiane ed inglesi. 
La prima edizione venne vinta dallo Swindon Town che superò in finale il Napoli per 3-0 durante un match sospeso varie volte per gravi incidenti.. 
Morto a Roma nel 1980, Peronace ricevette l’onore di vedere dal cielo il Torneo intitolato a suo nome sei anni dopo. L’interesse degli appassionati italiani e anche di quelli inglesi non riusciva però proprio a decollare. Vuoi per i rispettivi impegni in campo nazionale ed internazionale, vuoi per la scarsa attenzione che gli organi di stampa e gli sponsor riversavano su una competizione che comunque ritengo stimolante. Dopo una prima interruzione di due anni il torneo venne riservato a formazioni semiprofessionistiche ed in seguito venne addirittura abolito il meccanismo che prevedeva la finale mista !
Dopo l’ennesima interruzione del 1986, si riprese nel 1993, anno che ha visto la vittoria della Cremonese a Wembley contro il Derby County, al cospetto di migliaia di tifosi anglosassoni. 
Nel 1996 calava il sipario sulla competizione, con il match tra il Genoa ed il Port Vale, conclusosi 5-2 per gli italiani. Riassumendo, le uniche vittorie britanniche del torneo sono dello Swindon Town ( 1970 ), Blackpool ( 1971 ), Newcastle United ( 1973 ), Sutton United ( 1979 ) e Notts County ( 1995 ). 
I “ football programmes “ relativi ai matches di Anglo-Italian Cup sono molto rari e bellissimi. In quasi tutti troviamo informazioni assai dettagliate sulle squadre partecipanti e i testi sono in italiano ed inglese (e pensare che in Italia non si sono mai degnati di dedicare qualche brochure calcistica celebrante questo evento !). 
Per esempio, nella brochure del 1978 si parla di un giovane militare italiano (Peronace, appunto !) che nel 1944 organizzò una partita tra una rappresentativa militare di Sua Maestà e la Reggina, che inflisse un durissimo 6-0 agli inglesi mettendo in crisi il Comando Alleato in Calabria.
Il Sergente di Fanteria Tom Harrison ricevette l’ordine tassativo di cancellare l’onta sportiva appena subita. Egli riuscì a convincere il Comandante di Marina, Ray Westwood (grande giocatore del Bolton), a disputare la rivincita contro la Reggina, ma nel match (disputatosi il 10/9/1944) le grandi parate di Peronace difesero uno storico 0-0. L’undici inglese oltre a Westwood e ad un giocatore di cui ancora oggi non si conoscono le generalità comprendeva Shippley, Taylor, Moss, Walker, Gilmour, McKnight, Pickering, Harrison e Stuart. 

33 anni dopo questi incontri, il “Sun“, su richiesta di Peronace, pubblicò le foto delle formazioni che giocarono nel 1944 per riunire i protagonisti di allora in una indimenticabile giornata di sport ed amicizia. Alla morte di Peronace, Ugo Cestani (Presidente Lega Nazionale Italiana Semiprofessionisti) prese in mano le redini dell’organizzazione e con l’appoggio dell’“Alitalia“ e della “ Talbot “ tirò avanti per qualche anno stabilendo buoni rapporti col Segretario della Isthmian League ( Alan Turvey ) ed il Segretario della Southern Football League ( Bill Delow ). 
La Coppa Anglo-Italiana era alta 19 pollici e fu disegnata dal Gioielliere della Corona d’Inghilterra, Mr. Garrard. Per quanto riguarda la mia esperienza personale ho “rischiato“ solo una volta di seguire la squadra della mia città, l’Ancona, a Wembley, ma in semifinale l’Ascoli ha clamorosamente ribaltato il risultato nel derby di ritorno. Non restano certo memorabili le partite della squadra dorica in Italia contro i vari Notts County, Middlesbrough, Sheffield United, Luton Town e Bolton Wanderers, partite che hanno richiamato pochissimi spettatori e botte da orbi (in campo, e fuori).
Chiedere al tecnico Cacciatori, che dopo uno di questi incontri ha perfino rischiato di perdere un occhio a causa di una rissa selvaggia. Ma rimane comunque il sapore di internazionalità che squadre di misero blasone invidiavano ai grandi Clubs internazional. 
E’ un vero peccato che questa stimolante occasione di sodalizio sportivo sia stata offuscata, negli anni, da squadre rattoppate, quasi unicamente interessate alle vicende calcistiche locali e contornate da tifosi poco preparati e spesso, violenti. Perdonaci Caro Gigi..
di Vincenzo Felici, da "UK Football please"

17 dicembre 2024

PETER MARINELLO. Such a talent, such a waste





























Se Nick Hornby nel suo famoso: “Febbre a 90” dedica, nonostante le sole 51 presenze in maglia “Red and White”, più di qualche riga alla tua carriera una motivazione, per quanto intima e celata, deve esserci.
Peter Marinello arriva all'Arsenal nel lontano 1970 per una cifra vicina alle 100 mila sterline scatenando immediatamente polemiche e diatribe, vista anche la giovanissima età del ragazzo. L'esordio è contro i rivali di sempre del Manchester United e in soli 15 minuti di gioco, il 20enne arrivato dall'Hibernian, realizza la sua prima rete in First Division mettendo a sedere ben due difensori dei Red Devils. Riprendendo però, la tanto bistrattata Legge di Murphy: “Se qualcosa può andar male, andrà male” da quel fortunato 10 gennaio infatti, da un punto di vista sportivo e non, la vita del ragazzo di Edinburgo prese una piega negativa quanto imprevedibile. Passare da essere una futura stella del calcio mondiale ad autentica vittima della società degli anni '70/'80 è stato molto più facile di quello che possa sembrare.

Peter Marinello, dopo il ritiro, non ha mai, particolarmente, amato rilasciare interviste, è stato proprio un eccesso di fama ed attenzione mediatica a rovinare la sua carriera, è difficile quindi trovare dichiarazioni o confessioni del “The Next George Best”. Nel 2007 però, sorprendendo un po' tutti, ha pubblicato una sua discussa autobiografia intitolata: “The Fallen Idle” dove ripercorre con un pizzico di nostalgia una delle carriere più irragionevoli di tutti i tempi.

Senza dover per forza risultare di parte o eccessivamente romantici, la motivazione della scelta si trova esclusivamente nella: difficile situazione finanziaria della famiglia, la depressione della moglie, la tossicodipendenza del secondogenito ed il fallimento della catena di nightclub da lui stesso fondata.

Una parabola discendente ricca di aneddoti curiosi ed improbabili: la proposta di Tony Hatch e Jackie Trent di incidere un disco per rilanciare la propria carriera da calciatore, l'amicizia con Alan Ball con il quale una sera, spinto dai prodigi dell'alcool, decise di acquistare un cavallo da corsa, l'illogico, per una personalità come la sua, trasferimento in America prima di concludere definitivamente la carriera.
Gli infortuni, tormentato per anni da un problema cartilagineo, la scarsa tenuta mentale oltre che fisica, l'eccessivo amore per alcool hanno reso impossibile non solo un'esplosione da un punto di vista sportivo ma anche un'esistenza serena per uno dei talenti più tormentati di sempre.
Bertie Mee, che ebbe l'onere/onore di allenare l'Arsenal dal 1966 al 1976, prima di morire gli confessò che forse: ”I might have got it wrong with you” decisamente più memorabile di un gol all'esordio all'Old Trafford.
di Eduardo Accorroni

16 dicembre 2024

BRIAN CLOUGH, il migliore a non aver mai allenato l'Inghilterra


























Sono stati 44 giorni d'inferno, quelli di Brian Clough alla guida del Leeds United. 
Era il lontano 1974, ma sembra solo l'altro ieri, grazie all'acclamato libro Damned United di David Peace - astro nascente delle letteratura britannica -, da cui hanno tratto anche un film di buon successo al botteghino a Londra e dintorni.
Clough, ahimè, non c'è più dal 2004, mentre il Leeds langue nella seconda serie del calcio inglese. 50 anni fa, però, il buon Brian era uno dei tecnici più ambiziosi e di successo del Regno mentre il team dello Yorkshire si era appena laureato campione d'Inghilterra per la seconda volta in cinque anni. Il problema era che oltre alle doti tecniche - che senza dubbio giocatori del calibro di Billy Bremner e Norman Hunter avevano in abbondante quantità - i Whites usavano fin troppo spesso scorrettezze e mezzucci più da squadra sudamericana che inglese. Colpa della gestione del manager precedente, quel Don Revie passato nel luglio del 1974 alla panchina della nazionale dei Tre Leoni? Abbastanza probabile.

O almeno così la pensava Clough che, reduce da un brillante periodo al Derby County, raccolse la sfida di sostituire il da lui mai troppo amato Revie provando subito a mettere in chiaro le proprie idee riguardo al suo predecessore. Peace ci narra di un primo faccia a faccia con i giocatori a dir poco esplosivo, in cui il tecnico accusava sostanzialmente i suoi nuovi dipendenti di aver vinto il campionato in maniera sporca. "Potete buttare le vostre medaglie nel secchio della spazzatura, perché le avete ottenute imbrogliando" è la frase che gli viene attribuita dagli storici del football. Lo spogliatoio, ovviamente, andò subito sul piede di guerra. Il conflitto, durissimo e senza quartiere crebbe in modo esponenziale, alimentato dai cattivi risultati del Leeds sul campo da gioco.
Clough passò una sfilza di notti insonni a ingurgitare alcool - viziaccio che si portava dietro dai tempi di quando giocava centravanti di sfondamento a Sunderland - e fumare una sigaretta dopo l'altra. "Non c'era nulla di preordinato, non mettemmo in atto nessun piano per cacciare l'allenatore. Certo, non ci sentivamo a nostro agio, mentre con Revie eravamo tutelati e per questo davamo il 100 per cento": così ha dichiarato di recente al Guardian Peter Lorimer, fantasioso centrocampista scozzese e tra le punte di diamante di quella squadra bella e dannata. Sia come sia, il regno di Clough all'Elland Road terminò bruscamente dopo soli 44 giorni, con la compagine dello Yorkshire in piena zona retrocessione e i tifosi infuriati. Roba da mandare in fumo una carriera.

E invece Cloughie, come lo chiamavano gli amici, decise di rincominciare tutto dal Nottingham Forest, ovvero i rivali storici del Derby. Forse dopo l'esperienza al Leeds il passaggio al "nemico" delle East Midlands dovette sembrargli una cosa da niente. Come è andata a finire nella città di Robin Hood lo sanno forse tutti gli appassionati di calcio dai trentacinque anni in su: il Forest vinse un campionato da neopromossa e due Coppe dei Campioni consecutive. Possiamo solo immaginare il piacere che deve aver provato il nostro Brian ad alzare quel trofeo che nel 1974-75 i "dannati" avevano solo sfiorato, perdendo in modo molto controverso la finale con il Bayern Monaco di Gerd Muller e Franz Beckenbauer.

Spirito libero, dotato di una innata vis polemica e di una sportività da vero britannico, Clough divenne nell'arco di pochi anni una vera icona non solo per i fan del Nottingham, che lo idolatravano, ma anche per tutto il movimento del football inglese. Dopo 18 anni al timone della squadra, nel 1993 si ritirò, anche a causa del suo fisico ormai compromesso dall'abuso di alcool, oltre che dalla delusione patita per la retrocessione del suo amato club. Il testimone è poi passato al figliolo Nigel, prima attaccante di buone qualità al Forest e al Liverpool e, appesi gli scarpini al chiodo, tecnico del Derby County. Club che però di recente gli ha dato il benservito.
Chissà, forse tra qualche anno lo vedremo sulla panchina del Nottingham, dove proverà a ripetere le imprese del padre. Un compito veramente improbo.
di Luca Manes

13 dicembre 2024

TOP LADS. Roberto "Rab Bhoy" Ruggieri (Celtic Glasgow)



Ciao sono Roberto "Rab Bhoy" Ruggieri

-Di quale squadra britannica sei tifoso e come mai?
CELTIC GLASGOW, inizialmente (da fine anni '70, tramite un articolo sul "Guerin Sportivo" di quel periodo) per una motivazione "puerile" ... mi piacquero molto le caratteristiche divise "hoops" biancoverdi senza numero sul retro della maglia ma sui calzoncini ... poi, nel corso del tempo, venendo a conoscenza (tramite riviste e libri, a quei tempi il web era una realtà "astratta") non solo delle imprese calcistiche di questa squadra ma soprattutto per il significato sociale che essa rappresentava e rappresenta ho trovato molti punti di immedesimazione e quindi è stato un logico corollario diventarne tifoso

-Come è iniziata la tua passione per il calcio britannico e quali sono le caratteristiche del calcio britannico che piu' ti piacciono?
Tramite la lettura di riviste come il summenzionato "Guerin Sportivo" negli anni '70 e tramite le vicende delle squadre d'oltremanica (non solo quelle del Celtic ma anche, ad esempio, del Liverpool e del Nottingham Forest ... le finali di Fa Cup inglese anni '70 - una di tutte, Arsenal vs Manchester Utd del 1979 - seguite in diretta televisiva sui noti network italiani (e confinanti) dell'epoca, inoltre, nei primi anni '80 c'era un programma - "Football please" mi pare fosse il titolo - televisivo sui circuiti televisivi privati italiani che rendicontava settimanalmente delle vicende agonistiche dell'allora "First Division" inglese nonché delle coppe nazionali.

Le caratteristiche che più mi piacciono sono la passione, quasi la devozione (talvolta oggettivamente esagerata) che ogni tifoso, di qualsiasi squadra, ha per la stessa ... e poi, ovviamente, l'atmosfera degli stadi ... ho frequentato abbastanza "Celtic Park" ma anche in qualche occasione "Hampden Park" e gli stadi del Dundee Utd e Kilmarnock ... ho degli amici o conoscenti che hanno frequentato altri stadi in Inghilterra ... la piacevole ed emozionante percezione (mia e loro) è quasi sempre la stessa ... per quanto riguarda il Celtic, soprattutto nelle competizioni europee, è un qualcosa (per esperienza diretta) di molto coinvolgente per un tifoso di una squadra calcistica.

12 dicembre 2024

"YOU'LL NEVER WALK ALONE" di Rocco De Biasi (Shake), 1998

“You’ll never walk alone”, l’inno della Kop, la curva dei tifosi del Liverpool, è un emblema della cultura dei supporter d’oltremanica. Il mito del tifo calcistico inglese, se da un lato si concretizza nell’immagine violenta dell’hooligan, dall’altro trae forza dal culto dello stadio, dai rituali e dalle modalità di incitamento collettive, corali e spettacolari che, negli anni Sessanta, influenzarono gli spettatori degli stadi in gran parte dell’Europa. Che cos’è cambiato in Inghilterra dopo le tragedie dell’Heysel e di Hillsborough? È davvero ancora attuale la vecchia immagine stereotipata dell’hooligan? Perché le centinaia di fanzine calcistiche autoprodotte rappresentano un’autentica innovazione?

A questi e ad altri interrogativi rispondono alcuni tra i più interessanti sociologi britannici e francesi, offrendo al lettore italiano il nuovo scenario di una cultura calcistica in trasformazione.


JOHN WHITE ,IL FANTASMA DI WHITE HART LANE




























21 luglio 1964. Qualcuno, dalla finestra del Golf Club di Enfield, sta chiamando John White. Vuole semplicemente farlo rientrare in tempo prima che incominci a piovere. Il cielo non promette niente di buono, si è fatto scuro, ammorbando l’aria di una penombra vellutata. 
I tuoni rimbombano da un capo all’altro dell’appezzamento sportivo.
“John…, andiamo…!”
John sente, ma quelle nuvole nere non gli mettono apprensione. Pensa che sarà il solito temporale estivo, niente di più, dieci minuti di nubifragio e poi il sole farà di nuovo capolino fra le nubi facendo brillare come gemme le gocce sui fili d’erba di Crews Hill. Vuole completare il "putt". Si sistema meglio il "flat cap" di cotone sulla testa, assume la posizione corretta e imprime la giusta energia al “pudding”, la mazza leggera da “green”. La palla sfiora la buca, fermandosi beffarda sul bordo della stessa. John fa una smorfia di disappunto mentre intanto è iniziato a piovere forte. Agli infissi del circolo non c’è più nessuno e l’intensità del rovescio svela e risvela i contorni dell’edificio rendendolo indecifrabile abbaglio. John decide di deviare verso un boschetto limitrofo cercando rifugio sotto i rami di un faggio circondato dal bagliore livido dei lampi. Si rannicchia John, cerca di ripararsi. Quante volte suo nonno gli aveva detto di non mettersi mai sotto un albero quando incominciava una burrasca? Quante volte? E John aveva imparato, correndo a perdifiato verso il paese, correva sulle pietre umide, in mezzo all’erica e alla ginestra, dove si raccontava vivessero dei piccoli elfi che spiavano gli orchi senza occhi del sottosuolo. Stavolta non l’ha fatto e un po’ se ne rammarica. Lo coglie un presentimento che non finirà di percepire. La vita di John White finisce lì, la mattina del 21 luglio del 1964 a 27 anni, recisa, stroncata da un fulmine caduto a pochi metri di distanza. 

Non ci sarà bisogno di medium e sedute spiritiche, perchè John White era già un fantasma ancor ‘prima di morire. Lo chiamavano “Ghost”, già curioso, lo avevano battezzato così, lassù nel nord di Londra, ammaliati dalle sua velocità, arrivando al punto, (si enfatizzava nel crepuscolo delle tribune), da rendersi invisibile eppure in grado di materializzarsi nei pressi del compagno in difficoltà per ricevere il passaggio. Un precursore se vogliamo, un giocatore argenteo a livello mentale che elucubrava in termini di spazio ben prima di Johan Cruyff. La storia di John White incomincia a Musselbrugh, un pugno di casupole annerite che Edimburgo tenta di abbracciare ma ci rinuncia perché la campagna è abile a scongiurare il suburbio. Secondogenito di una famiglia operaia, John White a quindici anni diventa apprendista falegname e nel frattempo stravince le corse campestri locali fino al giorno in cui l’Alloa Athletic se ne interessa cercandolo per sottoporlo a un provino con il pallone. Il ragazzo è smilzo, una faccia da eterna matricola, una costellazione di lentiggini sotto i capelli biondi quasi platino. Lo prenderanno, si, John è preciso, ha inventiva e corre dannatamente svelto nonostante i terreni siano spesso saturi e le scarpe gli pesino come macigni. In breve indossa la maglia del Falkirk, finché nel 1959 viene acquistato dal Tottenham per 22mila sterline nonostante la titubanza del manager degli Spurs Bill Nicholson, non particolarmente impressionato dallo scozzesino.
“Troppo magro, troppo esile, non reggerà i ritmi e la fisicità del nostro campionato..”
A sfumare le perplessità di Nicholson ci penserà Dave Mackay, compagno di squadra del ragazzo in nazionale. In poco più di dodici mesi White passerà così dalla seconda divisione scozzese al massimo campionato inglese in uno dei club più prestigiosi. A Londra White trova un Tottenham reduce da un disastroso piazzamento dopo aver perso nel corso della stagione il tecnico Jimmy Anderson per problemi di salute. Lo aveva sostituito Nicholson che però non era immediatamente riuscito ad alzare il livello di gioco della squadra. Un inizio poco memorabile per colui che sarebbe diventato uno degli allenatori più longevi e vincenti nella storia degli Spurs. White parte interno sinistro di centrocampo, passando all’ala destra nella stagione della storica doppietta campionato-FA Cup. Quel Tottenham è la squadra di Dave Mackay, del capitano Danny Blanchflower, dell’ariete Bobby Smith e ovviamente di John “The Ghost” White, l’uomo-ovunque. 
Raggiungono la semifinale di Coppa dei Campioni contro il Benfica ma i lusitani con un pizzico di fortuna infrangono il sogno del Tottenham. Tuttavia 12 mesi dopo White e compagni diventano la prima squadra inglese a vincere in Europa travolgendo, il 15 maggio 1963, al De Kuip di Rotterdam, l’Atletico Madrid per 5-1 nella finale di Coppa delle Coppe. La rete del raddoppio la firma proprio White con un sinistro chirurgico che transita attraverso una selva di gambe e si insacca in rete.

Poi arriva quell’incidente assurdo, inconcepibile. A 27 anni lasciò una moglie – Sandra, figlia dell’allenatore in seconda del Tottenham Harry Evans, e due figli piccoli, Mandy e Rob. In realtà il numero corretto dei suoi bambini sarebbe tre ma dell’esistenza di Stephen Roughead-White, concepito durante il periodo in cui prestava servizio militare a Berwick nel KOSB (King's Own Scottish Borderers, divisione di fanteria dell’esercito britannico) si verrà a sapere solo quarant’anni dopo. C’è una foto di quella vicenda. Una fotografia in bianco e nero, incrinata, sbiadita, rimasta nascosta dentro un baule polveroso. Si vede una coppia innamorata. Lui è vestito elegantemente e avvolge un braccio protettivo intorno a lei che indossa un cappotto alla moda e una sciarpa che le copre i capelli ma non la bellezza. 
E' la storia tra Helen McLean, 19 anni di professione lavandaia per l’esercito, e John White all’epoca militare 23enne. Helen rimase incinta ma John, non si sa perché, incominciò a negare, smettendo di frequentarla. Tutto sarebbe rimasto sepolto se Robert White, il figlio avuto successivamente da John, non avesse scritto un libro sul padre intitolato “il fantasma di White Hart Lane” che, prove alla mano, ha costretto la madre di Stephen a confermare ciò che Rob e la famiglia sospettavano. Stephen, il figlio non riconosciuto di John, affermò che la rivelazione al pubblico fu un sollievo piuttosto che una sorpresa perché ormai, dopo un travaglio non da poco, era a conoscenza dell'identità del vero padre.

"Purtroppo non riesco a pensarlo come ad un uomo leale. Per essere un uomo devi essere responsabile delle tue azioni. Se non sei preparato a farlo, allora sei un vile.”
Rob incontrò Helen in Lamb's Laundrette, guarda caso nei pressi della Caserma di Berwick, per un appuntamento. Helen le disse che all'epoca dei fatti John aveva anche fissato una data di matrimonio ma improvvisamente, senza spiegazioni, non lo vide più.
"Piangevo ogni giorno. Mio padre martellò di pugni i cancelli della caserma, chiedendo di parlare con John, ma non lo hanno mai lasciato entrare. E quando nell'ottobre del 1959, John firmò per il Tottenham, lasciando l'esercito e trasferendosi a Londra tutto finì ma non mancarono strascichi e pettegolezzi”
Durante una partita scolastica Stephen viene avvicinato da un amico malizioso:
"Io lo so perché sei un buon calciatore, perché tuo padre era un calciatore.”
Ogni dubbio svanì quando a 16 anni Stephen fece una scoperta sbalorditiva mentre rovistava in un armadietto in soffitta. Trovò un certificato di nascita giallognolo, malconcio: il suo. 
Il nome del padre, scritto con inchiostro rosso, diceva John White.
"L'ho rimesso subito nella busta, l'ho chiusa di nuovo e non ho detto niente a nessuno".
Ma i ragazzi del pub che frequentava continuavano in velate battute per verificare se lui sapesse costringendolo ad andarsene fuori singhiozzando. Alla fine sua madre si convinse a confermare: "Stephen ascoltami, Davey (il marito di Helen) non è tuo padre.”
Stephen restò sereno, non alzò nemmeno gli occhi, le disse tranquillamente che già lo sapeva, e mentre lo diceva, per un attimo, nell’angolo più buio della casa prese forma un evanescente figura bianca.

11 dicembre 2024

BILL SHANKLY, la leggenda dell'allenatore scozzese che cambiò la storia del Liverpool.

Fosse ancora tra noi, Bill Shankly avrebbe compiuto più di 110 anni. Invece sempre a settembre, il 29 di 43 anni fa, ci ha lasciati.

























Lo ribadiamo, nella Merseyside, sponda Reds, è un simbolo, un'icona immortale, una divinità oggetto di una sorta di culto della personalità. Shankly è il Liverpool, o meglio è colui che ha fatto sì che una squadra e una società allo sbando spiccassero il volo per diventare uno dei club più conosciuti e vincenti al mondo.
Insieme ai suoi grandi amici Matt Busby (Manchester United) e Jock Stein (Celtic), Shankly ha rappresentato l'avanguardia di una meravigliosa generazione di tecnici scozzesi figli della working class. Il suo paesino di origine, Glenbuck, era terra di minatori, mestiere che lui e i suoi quattro fratelli si risparmiarono grazie al football. 
Bill arrivò a vestire la maglia della nazionale ma la sua carriera professionistica fu fermata dalla guerra. La sua ex squadra del Preston North End gli ha dedicato una tribuna dello stadio appena rimodernato. Il faccione sorridente di Shankly, infatti, campeggia nell'omonima End. All'Anfield Road, invece, c'è una sua statua davanti alla mitica Kop e uno degli ingressi dell'impianto è stato battezzato Shankly's Gate.
Shankly divenne famoso anche per il suo ferreo credo socialista, nonché per le battute taglienti e i gli spassosi aforismi. Quando fu nominato manager dei Reds affermò che avrebbe plasmato «una squadra invincibile, così dovranno mandare un team da Marte per batterci». Peccato che all'epoca, era il 1959, il Liverpool fosse tutt'altro che invincibile. Nel 1954 era retrocesso in Second Division dopo una stagione disastrosa - «memorabile» un 1-9 rimediato contro il Birmingham - e durante cinque stagioni passate nel campionato cadetto le sue prestazioni avevano lasciato molto a desiderare.

L'esordio di Shankly non fu dei migliori: un rotondo 0-4 interno contro il Cardiff City. Il tecnico scozzese ci mise tre anni per riportare i Reds in prima divisione, ma solo una stagione per vincere un titolo atteso da quasi 20 anni. La sua prima grande squadra aveva raggiunto i vertici del calcio inglese grazie al gruppo al gioco «palla a terra». Shankly fu uno dei primi a curare la componente psicologica dei giocatori, sapendo gestire alla perfezione i suoi ragazzi anche fuori del campo di allenamento di Melmwood. La base del suo ragionamento era che quando uno degli undici mandati in campo si trovava in difficoltà, spettava ai suoi compagni aiutarlo e sostenerlo proprio come avrebbero fatto tra loro i minatori di Glenbuck.

Un altro dei suoi grandi meriti fu quello di contornarsi di assistenti di grande valore: Bob Paisley e Joe Fagan, ovvero i suoi successori sulla panchina dei Reds e coloro che raccolsero i frutti di quanto da lui seminato. La messe di vittorie della metà degli anni Sessanta continuò con un altro campionato nel 1966 e una FA Cup (la prima nella storia del Liverpool) nel 1965. Allora la Kop, la gradinata più famosa del pianeta, poteva ospitare ben 28mila tifosi, tutti in piedi e stipati in pochi metri quadrati di spazio. Tra quei 28mila e Shankly si instaurò subito un rapporto di amore incondizionato. Narra Peter Thompson, uno dei fedelissimi dello scozzese, che un sabato il manager si presentò negli spogliatoi solo un quarto d'ora prima del fischio d'inizio e con i vestiti in disordine. Si era fatto un giro nella Kop, dove i tifosi gli avevano dimostrato in maniera fin troppo calorosa il loro affetto. I racconti sui biglietti regalati ai fan sprovvisti si sprecano, così come la battute salaci sui cugini dell'Everton. «A Liverpool ci sono due squadre forti: il Liverpool e le riserve del Liverpool», è una delle più celebri. 
Se la fin troppo abusata «il calcio non è una questione di vita o di morte, ma molto di più» è invece presa in prestito dal mondo del football americano, c'è un'altra frase che spiega alla perfezione come Shankly vivesse in maniera totale il calcio. 
Ai giornalisti che gli chiedevano se fosse vero che aveva portato la moglie a vedere una partita del Rochdale (squadra del Lancashire che militava nelle divisioni minori) come regalo di anniversario, il grande Bill rispose: «No, era per il suo compleanno. E poi non mi sarei mai sposato durante la stagione calcistica. Ad ogni modo era la squadra riserve del Rochdale...».

Aveva la passione del Subbuteo Shankly e prima delle infuocate sfide col Manchester United era solito radunare i suoi giocatori davanti al panno verde. Lì passava in rassegna gli avversari in miniatura, uno ad uno, cominciando dal portiere Alex Stepney. «Questo non sa giocare», diceva. E se lo metteva in tasca. Così con tutti gli altri fino a lasciare sul campo solo le controfigure di Dennis Law, George Best e Bobby Charlton. «Se in 11 contro 3 non siete in grado di batterli, allora non avete il diritto di indossare la gloriosa maglia del Liverpool»

L'empatia con il popolo biancorosso continuò anche nei sette anni in cui i Reds rimasero a bocca asciutta, prima di centrare una doppietta campionato-Coppa Uefa nel 1973 e una Coppa d'Inghilterra l'anno successivo.
Nell'estate del '74 Shankly annunciò a sorpresa le sue dimissioni. Alla base della decisione c'era un eccessivo accumulo di stress e la voglia di passare più tempo in famiglia. In realtà sembrò pentirsi subito, tanto da continuare a frequentare quotidianamente il campo dall'allenamento di Melmwood, tra l'imbarazzo del nuovo allenatore Bob Paisley e della società. La dirigenza decise allora di vietargli l'ingresso, scatenando le ire sue e dei tifosi.

Il rapporto con il Liverpool non si sarebbe mai più ricomposto. Sette anni dopo il suo addio al calcio, morì a causa di una crisi cardiaca. Una perdita di portata incalcolabile per la Liverpool di fede biancorossa, ma molto sentita anche nel resto del paese, tanto che il Congresso del partito laburista gli rese omaggio tenendo un minuto di silenzio. Per i kopites, i frequentatori della curva del Liverpool, lo scozzese rimane un punto di riferimento, una guida. «Shankly vive per sempre», scrissero su uno striscione la domenica dopo il suo funerale. 
Fosse ancora tra noi, chissà quante battute caustiche avrebbe regalato in questi anni di corporate football. Ma forse si sarebbe accanito di più sul New Labour di Tony Blair.
di Luca Manes
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