16 novembre 2024

FIRST Division🇬🇧, il calcio inglese di una volta..

Quando pensi al calcio inglese cosa pensi?, 
Al fascino dei vecchi piccoli stadi, alle pinte nel pub con gli amici, al match programme della partita, alle ends che si muovevano ondeggiando ai goals della propria squadra, il pallone 18 panels rigorosamente bianco, il portiere con la maglia verde ed i pantaloncini come quelli dei compagni, il profumo forte degli hot dog con la cipolla nei dintorni dello stadio oppure l'amarissimo Bovril, per i più "vecchi" i rumorosissimi turnstiles oppure.. i totalisator a lato dei campi di gioco?
atmosfera unica, irripetibile..

Ecco FIRST Division, un punto di riferimento di chi ha vissuto tutto questo e chi lo sogna..

15 novembre 2024

"Il Mio Viaggio In Inghilterra" di Ivan Ambrosio (Urbone) 2020

"Cosa sarebbe successo se non ci avessi mai provato? Dove sarei oggi se avessi abbandonato tutti i miei sogni? È difficile rispondere a queste domande. A distanza di anni, la cosa certa è solo una: l’Inghilterra mi ha cambiato la vita." 
Dalla Premier League alle più sconosciute leghe inglesi. Dalla magia di Stamford Bridge al piccolo Sandygate, lo stadio più antico al mondo. Da nord a sud, da ovest a est. Treni, bus e metropolitane. Tanti incontri speciali, da Sir Alex Ferguson e Pepe Guardiola fino a Colin Baker, volontario dell’Exeter City. Pub, birra e football. Un’avventura senza fine, racchiusa tra le pagine di questo libro: 52 racconti di viaggi e di vita, alla scoperta del football e di me stesso.

TOP Lads. Enrico Milani, un Mackem in riva al lago d'Iseo.

Sono Enrico Milani, bresciano tifoso dal 1990 del Sunderland. Nato nel 1973 proprio qualche giorno prima della nostra ultima vittoria di un trofeo, la FA Cup. Seguo da sempre le vicende dei Black Cats e in Italia non tifo nessuna squadra, a dire il vero seguo unicamente il campionato in cui milita il Sunderland e per il resto non ho interessi (mondiali, europei o varie coppe continentali).
-Come è iniziata la tua passione per il calcio britannico e quali sono le caratteristiche del calcio britannico che piu' ti piacciono?
È iniziata nel 1990 guardando tv koper capodistria e conoscendo in campeggio sul lago di Garda delle ragazze..di Sunderland.
Adoro la velocità e i tackles duri e soprattutto la passione dei tifosi. Ormai il football vero è solo un ricordo perché adesso anche la è quasi solo business. Per questo le mie trasferte son quasi principalmente per vedere vecchi amici. Il risultato è divenuto secondario.
- Raccontaci cosa avete organizzato in passato con il club che hai creato Black Cats of Italy..
Abbiamo organizzato triangolari e quadrangolari di calcio amichevoli con altri branch.  Siamo stati a molte partite sia a Sunderland che in trasferte in tutta l'Inghilterra. Abbiamo partecipato al ritiro pre-campionato sul lago di Garda del Sunderland una decina di anni fa. Siamo stati organizzatori di un mini-torneo a Sunderland tra noi e tifosi locali, con ricavato da devolvere in beneficenza. 
E proprio della beneficenza siamo grandi sostenitori, avendo organizzato tantissimi eventi e raccolto negli anni più di 20 mila euro (12 mila solo nell'evento ROAD TO STADIUM OF LIGHT, viaggio in bici da me affrontato nel 2015). 
Bellissime le raccolte fondi fatte insieme ai nostri rivali italiani del Newcastle. Tutte gli anni a giugno facciamo un super raduno dei tifosi europei del Sunderland qui sul lago di Iseo dove abbiamo la nostra sede nel NO STRESS PUB di Sarnico.

14 novembre 2024

Hillsborough 1989.

Prima di parlare dell'inizio credo sia giusto partire dalla fine. 
Dal momento in cui 97 tifosi hanno lasciato questa terra avvolti dai colori di quella bandiera che tante volte ha sventolato per loro a scrivere idealmente nel vento l'orgoglio del popolo che rappresenta. 
La bandiera con il “Livebird”, uccello mitologico metà cormorano e metà aquila. Per tutti la fenice della Mersey. Quella fenice che sembrò chiudere le sue ali e posarsi leggera sulle bare di tutte quelle vittime innocenti, come a fermare in un caldo abbraccio la passione di una vita. Ma il legame con la squadra non si spezza neppure nel culto della sepoltura. Chi resta, fissa simboli e momenti come tributo alla memoria per gli sfortunati che non ci sono più. Come elemento identificativo del loro passaggio sulla terra: l'onore di essere appartenuti con intensità al cuore di un club, e un merito terreno che richiede tutta la visibilità possibile, ben oltre la dimensione temporale. Verso l'eternità. Come eterna sarà l'immagine struggente del terreno di gioco dell' Hillsborough completamente ricoperto da un placido mare di mazzi di fiori, di messaggi di dolore. Come i cancelli d' ingresso della maledetta Leppings Lane, su cui saranno addossati cappellini, sciarpe, gagliardetti. 
Non solo del Liverpool. Ci saranno tutti, proprio tutti. Edera multicolore sulle rovine del calcio. Santuario improvvisato di un pellegrinaggio continuo. Pellegrinaggio popolare, autenticamente popolare. Dolore, lacrime e rimpianti.


Ma di cosa stiamo parlando? E' giusto fare un piccolo ma doveroso passo indietro per chi non ha ancora capito, per i più giovani o per chi in ogni caso non mastica tutti i giorni pane e football.
E' il 15 aprile 1989. Sheffield. 
La città dell'acciaio, costruita su 7 colline nei pressi del fiume Sheaf che a Sheffield ha regalato il nome. La città della squadra di calcio più antica del mondo, lo Sheffield F.C.. Data di fondazione 1857. Notte dei tempi. Dopo, solo dopo, arriveranno lo Wednesday e lo United. 
Civette e lame. Hillsbourogh e Bramall lane.
E' un pomeriggio insolitamente soleggiato nel South Yorkshire. In aprile generalmente la pioggia non fa mistero di essere particolarmente generosa in quelle terre. Nel sobborgo di Owlerton, pochi km a nord ovest dal centro cittadino c'è la casa dello Sheffield Wednesday. Hillsbourogh appunto. Ad essere esatti la seconda casa delle civette, inaugurata il 2 settembre 1899 dopo l'abbandono dell' Olive Grove.
C'è da giocare la semifinale di F.A. Cup, la celeberrima coppa d'Inghilterra che nel periodo dell'isolamento continentale, dovuto ai fatti dell'Heysel ha assunto un importanza e un valore ancora maggiore. E ciò è tutto dire....
Come da tradizione la partita deve svolgersi in campo neutro e a giocarsi l'accesso ai fasti di Wembley arrivano due club che se non sono formalmente acerrimi rivali sicuramente non nutrono l'un per l'altro grandi simpatie. Liverpool e Nottingham Forest. 
Per il Liverpool in quegli anni è diventata una piacevole abitudine arrivare alle fasi finali della manifestazione, e spesso anche di aggiudicarsi l'ambito trofeo. I tricky trees del City Ground invece non salgono i 39 gradini del royal box per ricevere la “coppa” dal 1959. Trenta anni esatti.
Ho accennato prima all' Heysel. Finale della coppa dei campioni 1985 a Bruxelles, di fronte Liverpool e Juventus. Trentanove morti. Una tragedia in proporzioni umane. Una mazzata in provvedimenti disciplinari. Il movimento calcistico inglese è escluso dalle competizioni europee per cinque anni.
Le ripercussioni interne sono altrettanto pesanti. In quello stesso anno la Lady di Ferro al secolo Margareth Thatcher approva lo “Sporting Event Act” dove si ratifica l'abolizione della vendita di alcolici negli stadi e nei parcheggi limitrofi. Nel 1986 arriva un'altra ingiunzione. Si tratta del “Public order act”, ovvero, guai a comportarsi in maniera non consona anche se non violenta. Ai tribunali viene conferita ampia autonomia in merito. Non sarà sufficiente. Non perché si tratti di prescrizioni inutili, ma perché se per prime vengono a mancare le capacità organizzative tutto il resto sono solo inutili dettagli.
Quel 15 aprile incomincia male sin dalle prime ore del mattino. Lavori in corso sulla M62 ostruiscono e ritardano l'afflusso del pubblico, segnatamente quello proveniente da Liverpool. Ma la contingenza viaria del traffico che scorre a rilento non è niente di fronte alla leggerezza con cui viene deciso di distribuire i settori dello stadio alle due squadre e ai rispettivi tifosi. Non ci scordiamo che otto anni prima sempre a Hillsborough, e sempre per una semifinale di coppa d'Inghilterra avvennero incidenti in occasione di Tottenham-Wolverhampton. Fortunatamente non gravi nel bilancio, ma che comunque obbligarono il club tenutario dell'impianto ad intervenire sulla struttura.
Ma tutto sembrava dimenticato. Tutto pareva rimosso dalla memoria. Chi non guarda agli errori del passato è destinato a ripeterli in futuro. E “Cassandra” aveva già lanciato la sua profezia. Derisa. Inascoltata.





















La capiente “Spion Kop End” che conteneva all'incirca 21.000 spettatori viene assegnata alla “Travelling Kop” del Nottingham Forest, squadra che notoriamente ha un seguito di pubblico meno numeroso del Liverpool, mentre al club di Anfield Road sarebbe spettata la dirimpettaia “Leppings Lane” con i suoi 14000 posti. Piccola e angusta. 
Basti pensare poi che in totale gli ingressi riservati ai tifosi dei reds saranno solo sei, contro i sessanta dei supporters del Forest. A poco più di mezz'ora dall'inizio del match la situazione in curva appare relativamente tranquilla. Ci sono famiglie intere con bambini molti dei quali alla loro prima trasferta. Si parla di come farà giocare la squadra Dalglish, di come si comporterà il “redento” Ian Rush reduce dalla penosa esperienza italiana. 
Qualcuno discute se ci sarà intesa fra Ronnie Whelan e John Barnes. Altri scommettono che il goal decisivo lo segnerà Aldrige. Tutti sognano di andare a Wembley.
I problemi iniziano a manifestarsi quando cessa l'intasamento stradale e la M62 riversa sullo stadio tutti i sostenitori del Liverpool, e improvvisamente ci si rese conto della marea umana che stazionava all'esterno della Leppings Lane. Si presume approssimativamente 5000 persone. Iniziò a salire la tensione. 
All'interno dello stadio nel frattempo si incominciano a scandire cori, a cantare “You'll never walk alone”. Fuori montava l'impazienza, c'era chi iniziava a spingere, chi a lamentarsi della calca eccessiva. Una pressione enorme. La polizia andò letteralmente in corto circuito non aspettandosi di dover gestire una situazione così complicata. E qui scattò una decisione. Terribile e fatale. Per smaltire la congestione le forze dell'ordine decidono di aprire un grosso cancello d'acciaio posto nei pressi di un tunnel che conduce all'interno della curva. Il “Gate C”. Sarà come aprire le porte dell'inferno. In genere, in questi casi, ufficiali di polizia a cavallo si sistemano all'ingresso con la funzione di avvisare ed evitare pericolosi sovraccarichi. Per motivi ancora ignoti ciò non successe quel pomeriggio. Entrano tutti. Con e senza biglietto Il gate scarica una quantità di tifosi di gran lunga superiore alla capienza, e in breve non avendo nessuna via di fuga gli spettatori a ridosso del terreno di gioco vengono spinti verso le recinzioni. Le famigerate “Fences”. Fu un massacro. 
Calpestati, spinti, soffocati. Un olocausto di ferro e corpi. Di morte. E altra morte colpisce gli sventurati rimasti schiacciati nel tunnel. Il tutto mentre l'incontro è già cominciato da sei minuti. Lunghi, interminabili, paradossali. Perché nessuno si era accorto delle dimensioni di quello che stava accadendo a pochi passi dal rettangolo verde, se non purtroppo i diretti interessati. Poi un funzionario di polizia capisce che c'è qualcosa che non va e richiama l'attenzione dell'arbitro. Per la cronoca il signor Ray Lewis. E arriva un fischio anomalo. Tanto insolito da sembrare quasi triste. Stridulo complemento sonoro in mezzo a urla e invocazioni. La partita viene interrotta. Ma la polizia commette uno sbaglio. Un altro. Non si renderà immediatamente conto del problema, ma anzi tenterà goffamente di respingere coloro che reputa invasori e non sopravvissuti. Intanto i più fortunati troveranno scampo sulla West Stand tratti in salvo da mani misericordiose. Chi perdeva l'equilibrio o cedeva alla paura era perduto. Quando ci si rende conto del disastro la tragedia si è già consumata. I morti in totale a fine giornata saranno 93 e oltre 200 i feriti. Fra scene di panico e pianto c'è anche chi con abnegazione e grande coraggio cerca di aiutare e rincuorare i contusi. I cartelloni pubblicitari verranno usati come barelle di fortuna, mentre le sirene delle ambulanze urlano nel limpido sabato di Sheffield. Fra le vittime anche John Paul Gilhooley 10 anni, cugino del futuro capitano Steven Gerrard. E' crudele il destino. Sarah e Victoria Hicks sono due sorelle di Pinner sobborgo londinese, entrambe fanatiche del Liverpool. Per Sarah 19 anni il tagliando della semifinale era il regalo di compleanno. Travolta e uccisa. Victoria invece spirerà fra le braccia del padre che inutilmente cercherà di rianimarla. Tony Bland 22 anni rimarrà in stato di coma vegetativo fino al 1993. Fino a quando i genitori Allan e Barbara non decideranno di farlo morire con “dignità” interrompendo la terapia. “Non è cosciente non soffrirà”, dissero i medici. I familiari delle vittime si costituiranno parte civile. 
Ci sarà un processo che avrebbe dovuto essere esemplare ma che in sostanza non ha mai fatto piena luce sull'attribuzione delle colpe. 
Ci sarà un giornale, il “Sun” che getterà sporcizia spacciandola per verità. 
Ci sarà un orologio ad Anfield che segnerà per sempre le 15:06 del 15 aprile 1989. Lest we forget.
di Simone Galeotti

13 novembre 2024

"LONTANO DA HIGHBURY" di Luca Frazzi (Libri di Sport), 2003

Diario italiano dell’indimenticabile stagione dell’Arsenal 2001-2002 Oggi tifare Arsenal va di moda, più difficile farlo anni fa, quando i Gunners avevano fama di squadra noiosa (il famoso «Boring, Boring Arsenal») e pragmatica fino all’eccesso (ad Highbury si favoleggia ancora della «mitica» linea difensiva Winterburn-Adams-Keown-Dixon»). 
Ma chi si aspetta il «Febbre a 90’» italiano ha sbagliato indirizzo: Hornby non abita qui. Dalla prima amichevole estiva col Boreham Wood alla finale di FA Cup al Millennium Stadium e il gol di Wyltord (Quel gol di Wyltord), a casa di Ferguson e di Keane, dieci mesi di passione nel diario di un “gooner” confinato a Fidenza, 1.100 chilometri e qualche ora di volo da Islington, Londra nord. Gioie (tante) e dolori (un po’ meno) a costellare un anno vissuto poco pericolosamente. Nervi a parte. (Christian Giordano, "Guerin Sportivo")

FA Cup - La coppa che mi riappacifica.

Come mi accade da molti anni, troppi anni, vengo assalito dall’ormai solita forma di rifiuto verso il nostro calcio. Mi rendo conto di invecchiare e come tutti gli “anziani” sovente mi rifugio nei ricordi e nel “quanto era bello una volta”.
Il passo successivo che compio ormai da tempo è il rifugiarmi tra le mie collezioni di programmi, riviste, annuari, distintivi, coccarde, VHS e Dvd di vecchie stagioni.
Di conseguenza, come ad ogni inizio di stagione mi lascio andare ad uno sguardo alle formazioni della Premiership e vi trovo selezioni internazionali e sempre meno britannici. Stesso discorso per gli allenatori, per non parlare dei presidenti, forse si salva ancora l’addetto al taglio dell’erba del terreno di gioco o almeno lo suppongo.

Chissà, magari i club della Premier League (ma anche della Football League) hanno scoperto che i malesi o i canadesi sono maestri nel taglio del manto verde e quindi nemmeno più il “groundsman” proviene da Hackney o da Accrington.
Poi ci aggiungiamo il costante declino delle maglie da gioco dove stile, sobrietà, eleganza, rispetto delle tradizioni hanno ormai ceduto il passo a orrendi tentativi di stupire e null’altro.
Ma come ogni anno, so già che arriverà il momento che mi riappacifica con il nostro football…la F.A. Cup!!!
Ebbene si, ogni anno la stessa solfa, lo so che dovrò soffrire ma già l’Extra Preliminary Round mi vede scandagliare i risultati, cercare i dati sulle presenze degli spettatori, possibilmente immagini fotografiche o video.
E così è stato anche quest’anno, poi subito dopo il solito sguardo distratto ai risultati dei vari campionati per poi rituffarmi nelle ricerche per il Preliminary Round e poi in un attimo sarà già ora del First Round e man mano che arrivano squadre della terza o quarta serie già abbiamo qualche clamorosa eliminazione che, a parte la sorte del proprio club preferito, è il succo della competizione per il quale merita seguire ogni singolo incontro di ogni turno.
E’ chiaro che anche nella Coppa con la “C” maiuscola, la Coppa per eccellenza, diciamolo pure, l’unica Coppa (almeno per me) bisogna fare i conti con il cosiddetto progresso ma è pur vero che vedere i bambini del local club dilettantistico che al fischio finale corrono attraverso il terreno di gioco per festeggiare il passaggio del turno proprio come accadeva nel 1972 a Hereford (nella foto sopra) o nel 1947 a Yeovil o nel 1968 a Tow Law apre il cuore!

E così in un attimo siamo arrivati Third Round e anche qui abbiamo assistito ad alcuni
giant-killing che entreranno a fare parte della infinita storia di questa competizione. Il Barnet che vince a Bramall Lane, il Newport County che elimina il Leicester, l’Oldham che passa a Fulham con in panchina l’allenatore provvisorio pescato dalle giovanili per tamponare il vuoto creatosi dopo che il titolare della panchina era stato sollevato dal suo incarico. Allenatore provvisorio che prima di tutto è un tifosissimo dell’Oldham, aveva già acquistato il biglietto ferroviario per scendere a Londra per assistere al match come fan e si è ritrovato nelle vesti di protagonista.
Poi come ogni anno arriverà la finale ed io, come faccio da diverse stagioni, non la guarderò perché ormai in finale ci vanno sempre le solite 3 o 4 grandi squadre della Premiership e non più il QPR o il Wimbledon o il Coventry City o il Watford e Wembley non ha più la pista per le corse dei cani, non ha più le Torri e nemmeno le panche ed i seggiolini in legno.
Ma a casa ho un seggiolino in legno verniciato di blu del vero Wembley, me lo ero accaparrato ad un’asta quando fu demolito l’Empire Stadium.
Così il giorno della finale mi siedo lì e sfoglio qualche Football Monthly con lo speciale sulla finale o qualche programma di finali del passato aspettando che tutto ricominci dopo le vacanze estive.
di Gianluca Ottone

12 novembre 2024

"ALEX FERGUSON La mia vita" di Alex Ferguson (Bompiani), 2015


Il più grande allenatore nella storia del calcio inglese si racconta per la prima volta. La storia di Sir Alex Ferguson comincia a Govan, il quartiere dei cantieri navali di Glasgow, continua con il successo senza precedenti dell'Aberdeen in Europa e diventa leggendaria grazie ai ventisette anni di vittorie con il Manchester United, la più grande potenza sportiva mondiale dell'ultimo quarto di secolo. Grazie alla sua capacità manageriale, alla sua energia e abilità, unite a una visione strategica fuori dal comune, Sir Alex è stato capace di costruire la squadra in ogni minimo particolare, dentro e fuori dal campo. Ha allenato giocatori di livello assoluto come Roy Keane, Ryan Giggs, Eric Cantona, Ruud van Nistelrooy, Cristiano Ronaldo e David Beckham. Ha rivaleggiato con il Liverpool, l'Arsenal, il Chelsea e il Manchester City. Ha sbaragliato il campo, rivoltato come un guanto le logiche, le tattiche, gli aspetti psicologici dell'allenamento di una squadra. Leggere le sue parole, i suoi aneddoti, i suoi giudizi, significa essere proiettati sul terreno di gioco, attori e non più solo spettatori dello sport da sempre radicato nel cuore di tutti. Titolo originale: ''My Autobiography'' (2013).

Alex Ferguson è nato nel 1941 a Govan, in Scozia. Attaccante molto prolifico, giunse a giocare nei Rangers di Glasgow, squadra per cui tifava sin da bambino, per la cifra record di 65.000 sterline. Diventato allenatore nel 1974, lavorò per l’East Stirlingshire e per il St Mirren, prima di sedere sulla panchina dell’Aberdeen portando il club alla vittoria della Coppa delle Coppe nella stagione 1982-83. Giunto al Manchester United nel 1986, ha vinto trentotto titoli, inclusi un mondiale per club, due Champions League, tredici campionati e cinque fa Cup.
Un bottino complessivo di quarantanove trofei fa di lui l’allenatore di maggior successo che il calcio britannico abbia mai avuto. Nominato cavaliere nel 1999, Sir Alex si è ritirato nel 2013, dopo che il Manchester United ha vinto il campionato. All’età di 71 anni, continua a lavorare per lo United come dirigente.

MANCHESTER UNITED!!






















26 maggio 1999, una data epica per tutti i tifosi del Manchester United. 
L’apice della passione e della gioia, per un risultato che difficilmente verrà eguagliato: il treble. Che poi l’ultimo atto della mitica tripletta sia venuto con la rocambolesca finale di Barcellona, nello stesso giorno del compleanno del grande Sir Matt Busby, non fa che aggiungere magia ad un momento veramente esaltante. Per me la finale di Barcellona è stata una sorta di punto di arrivo, dopo quasi diciotto anni di tifo per i Red Devils.

Non che ora non mi interessi più del Man U, però, un po’ come diceva Hornby in Fever Pitch per la vittoria dell’Arsenal in campionato dopo tanti anni, alcune sensazioni sono cambiate. La mia passione con il calcio inglese, infatti, è coincisa con quella per lo United. Iniziai a seguire i risultati della Coppa d’Inghilterra sul Guerin Sportivo nel lontano 1981, vidi la mia prima finale nello stesso anno, Tottenham-Manchester City (vinse il Tottenham al replay). Ma subito mi appassionai alla storia, in parte triste, del club dell’Old Trafford. I Busby Babes, il disastro aereo del 6 febbraio 1958 a Monaco, la morte di alcuni giocatori, tra cui 23 il giovanissimo capitano Duncan Edwards, la lenta ricostruzione, Bobby Charlton, tecnica e professionalità, George Best, genio e sregolatezza, ed infine l’happy end: la vittoria in Coppa Campioni, prima squadra inglese ad ottenerla, nella finale di Wembley del 1968 per 4-1 al Benfica d’Eusebio!

Poi il lento declino, anni d’insuccessi, la retrocessione in second division, senza più gli eroi di Wembley, il lampo del 1977 in FA Cup con il Liverpool, a cui si negò il treble, un paio di altre finali perse e tanti bocconi amari in campionato. E’ stata questa storia così gloriosa e travagliata, e la mia passione per l’allora leader dello United, Bryan Robson, a farmi diventare un tifoso dei Red Devils, sebbene all’epoca fosse molto più facile scegliere altre squadre più vincenti e da un altrettanto illustre passato (una per tutte il Liverpool, ma anche l’allora fortissimo Aston Villa). A quei tempi il Manchester United non era il grosso fenomeno mass mediatico globale che è adesso (parrà strano, ma io dico per fortuna). I suoi giocatori non erano così seguiti e pubblicizzati, mentre i suoi tifosi erano perseguitati dall’incubo di non vincere più un titolo in first division (l’ultimo risaliva al 1967). 

Lo stesso incubo l’ho vissuto io: per molti anni i risultati li potevo leggere principalmente la domenica mattina, e spesso erano cocenti delusioni. A volte riuscivo a tirare tardi il sabato sera e vedere gli highlights alla TV svizzera, rammento una batosta per 5-0 contro l’Everton dei miracoli, un 3-2 rimediato a Nottingham quando si era in vantaggio 2-0 fino ad un quarto d’ora dalla fine!. Ricordo soprattutto gli inizi di campionato del Manchester: o disastrosi o brillanti. Un anno riuscimmo a vincere 14 partite sulle prime 15 e ad essere fuori dalla lotta per il titolo ad inizio marzo! Certo qualche soddisfazione me l’ero preso anch’io: la finale di FA Cup dell’83 con il Brighton, quella del gran gol dello sfortunato Whiteside contro l’Everton nel 1985 e qualche impresa in Europa con le grandi prestazioni di Hughes e Robson, ma non molto di più. Ma nel 1986 inizia l’era del mago:
Alex Ferguson
Per un po’ fui scettico anch’io, continuava l’astinenza. Poi iniziano gli anni ’90. 
Cambia tutto, soprattutto vinciamo tutto, non prima della grandissima delusione nel campionato del 1992, perso dopo aver dominato. Le lacrime di rabbia di Robson, capitano dai mille infortuni e dalle mille resurrezioni, non le dimenticherò mai. Però mi reputo fortunato di averlo visto giocare dal vivo nello stesso anno, a Dublino in un’amichevole contro l’Irlanda, unica partita vista dal vivo del Man U, insieme al 4-0 rifilato al Newcastle a Wembley, Charity Shield del 1996. Il campionato successivo a quello perso contro il Leeds iniziò con due cocenti sconfitte, altra stagione no pensai. Poi l’arrivo di Cantona, rissoso e scombinato quanto vi pare, ma un genio del calcio come pochi. Dopo 26 anni vinciamo la first division (beh, dovrei dire Premier, visto che quello fu il primo anno con il nome nuovo). Il mio idolo Robson era ormai solo un panchinaro, ma nell’ultima partita con il Wimbledon giocò da titolare, segnando ed alzando il trofeo al cielo.
Il resto è storia recente, sette titoli in nove anni, conditi da tre coppe d’Inghilterra, la crescita di tanti campioni provenienti dal vivaio, per me motivo di immenso orgoglio, anche perché attualmente il Manchester United è tra le squadre di vertice quella con meno stranieri in rosa. E poi la ciliegina sulla torta: la Coppa dei Campioni del 1999 che sigla il treble. Un cammino esaltante, contro tutte le migliori squadre d’Europa, il recupero in semifinale contro la Juve, gli ultimi tre minuti di Barcellona. Quella partita non l’ ho potuta vedere al 24 Nou Camp, perché era impossibile avere il biglietto e poi non mi potevo muovere da Roma per impegni di lavoro. Mi sono dovuto rintanare in un pub vicino casa con la mia ragazza che sopportava le mie palpitazioni (perché il 26 maggio è anche il mio compleanno), però ho letto talmente tanti racconti di quel giorno che mi sembra di essere stato lì anch’io. I miei ricordi più forti sono la certezza di segnare sul calcio d’angolo poi trasformato in gol da Ole, i brividi e l’incredulità durante la premiazione, la telefonata preoccupata dei miei genitori, che a fine partita mi chiedevano come stavo! Ma forse la cosa più toccante è stato il coro Happy Birthday Sir Matt, dedicato a Matt Busby. Per quello non ci sono parole, c’è solo la passione immensa e l’orgoglio per la propria storia.
GLORY GLORY MAN UNITED!!
di Luca Manes, da UK Football please

11 novembre 2024

“Una sbronza, una scazzottata, una partita: THIS IS MILLWALL”.






















Il titolo è una famosa citazione di un noto hooligans del panorama delle “firm” inglesi. 
Il suo nome è Harry the Dog ed è stato uno dei leader della F-troop: la firm del Millwall che in seguito darà vita alla più nota “Millwall Bushwackers”
In quella semplice frase c'è davvero racchiusa la quinta essenza del Millwall, ossia il suo essere stata sempre catalogata come la squadra degli ultimi, di coloro che durante la settimana lavorano nei cantieri del Tamigi o in qualche altra area portuale.
Il Millwall è la loro squadra e guai a chi gliela tocca. Se si riflette per un istante il Millwall è davvero il modello per eccellenza del motto “support your local team” perchè è raro trovare una squadra che sia così legata al quartiere d'appartenenza.
Tanta gente penserà che i suoi tifosi sono, ormai, “standardizzati” come il resto dei tifosi del Regno Unito, le cose non stanno realmente così se solo si pensa alla parola d'ordine dei supporters del Millwall: “intimidating”. Certamente lo stadio “The Den” non è un posto molto visitato dai turisti per ovvie ragioni. 
“No likes us, we don't care” (non piacciamo a nessuno e non ci interessa) questo è uno dei cori più cantanti dai tifosi del Millwall ed il concetto è quello di fregarsene degli altri che li considerano razzisti, omofobi, violenti e chissà cos'altro. Ormai dai tabloid inglesi e non solo vengono considerati solamente come “cattivi”.
La squadra venne fondata dai lavoratori della J.T. Morgan nel 1885, giocando le prime partite contro squadre dell’est di Londra, cosa che l’anno successivo,1886, divenne ufficiale con la creazione dell’East End Football Association, a cui venne associata una Senior Cup, competizione che il Millwall vinse per tre volte consecutive divenendo così proprietaria del trofeo. Trionfò anche nelle prime due edizioni della neonata Southern League e successivamente vinsero anche, sempre per due volte, la Western League. Southern League e Western League esistono tutt’ora, sono il settimo/ottavo e nono/decimo livello del calcio inglese e per sua fortuna il Millwall non ha più avuto niente a che fare con queste leghe. Fu un inizio piuttosto vincente per la squadra dei lavoratori della J.T. Morton, periodo di successi che rimarrà un caso isolato nella loro storia.
Dal 1885 al 1910 il Millwall usufruì di quattro terreni di gioco, tutti posizionati nella Isle of Dogs. Il primo impianto, usato dal 1885 al 1886, era situato in Glengall Road; il secondo in East Ferry Road, dove accorrevano migliaia di persone a vedere la squadra e che venne usato dal 1886 al 1890; il terzo campo da gioco, l’Athletic Ground, ospitò la squadra dal 1891 al 1901, quando questa si trasferì a North Greenwich, dove rimase fino al 1910. Successivamente venne trovato dello spazio dove costruire, sulla sponda ad est del Tamigi e, dopo lavori costati 10.000 sterline, il 22 Ottobre 1910 il Millwall aveva la sua nuova casa, The Den, che inaugurò contro il Brighton (perdendo 1-0).
Niente applausi agli avversari, al The Den poteva esistere solo il Millwall “roar”, il ruggito dei leoni, l’assordante tifo verso la squadra di casa, le proteste verso l’arbitro, i vocaboli non proprio da gentiluomini di Westminster, e che l’avversario si fotta; il segno distintivo di questa squadra e questa gente è racchiuso nel motto “we fear no foe” che comparve nelle prime due edizioni del “club handbook” (il libro della squadra che ogni stagione viene pubblicato e che racchiude un po’ tutto quello che riguarda il club), una frase che divenne ben presto un ideale di vita e che ispirerà una delle più temibili firm del tifo inglese. Il leone, il cui primo, d’ottone, venne presentato dal club proprio nella cerimonia d’apertura (con tanto di iscrizione “non volgeremo mai la schiena al nemico”), era dunque il simbolo perfetto per il Millwall. Al The Den iniziarono a venire malvolentieri tifosi e giocatori avversari, tanto che il Millwall detiene il primato di intimidazione in quattro divisioni differenti.

























L’attaccamento viscerale dei tifosi alla squadra è inversamente proporzionale ai successi della stessa, visto che, dalle parti di New Cross (il quartiere che ospitava The Den), non si è mai vinto nulla. Un piccolo e felice intermezzo in tutto ciò è stato il 2004, quando il Millwall ha raggiunto la finale di FA Cup persa per 3-0 contro il Manchester United, ma che è valsa l’accesso in Europa nella stagione successiva, una breve esperienza (fuori al primo turno contro il Ferencváros) ma che ha rappresentato un’assoluta novità per gli uomini allora guidati da Dennis Wise.
Doveroso introdurre l’argomento tifosi, il vero segno distintivo del Millwall. Se si passa dalle parti di New Cross si nota fin da subito quale ambiente gira intorno lo stadio dei Lions. Infatti si individuano chiaramente i classici hooligans inglesi: facce brutte, teste ovviamente rasate. Sembrerà strano, ma se ne contano a decine (se non di più), e la stazza fisica è quella tipica del massiccio bulldog inglese. Sarà la razza britannica, sarà la roba che mangiano però sta di fatto che sono grossi al di fuori della norma. Quello che non stupisce invece è il classico stile di abbigliamento "casual", tipico del tifoso inglese dagli anni '80 a questa parte: tutti o quasi, portano berretti da baseball (stile Acquascutum o Burberry), giacche Stone Island per lo più, jeans e scarpe da tennis bianche. Vi sono, anche, parecchi skinheads in tenuta classica: anfibi doc Martens, jeans con risvolto, camicia a quadri Ben Sherman, giubbetto e testa rasata.
L’ambiente intorno al The Den favoriva il fenomeno hooligans: una serie di stradine e ponti che sembravano disegnati apposta per agguati e risse, Cold Blow Lane, una via che provocava un brivido freddo a chiunque non fosse di South Bermondsey e dintorni e anche solo sentisse questo nome. Ai primi del novecento risale anche la rivalità con il West Ham, altra squadra di lavoratori e portuali che darà vita con il Millwall al derby più sentito e pericoloso d’Inghilterra.

I fatti di Luton del 1985 rimangono impressi nella storia del fenomeno hooligans, ma come detto, mentre altrove la violenza è stata estirpata quasi completamente, New Den rimane un caso piuttosto a se stante. I disordini che seguirono una gara di playoff persa contro il Birmingham City nel 2002 vennero descritti come uno dei peggiori episodi di violenza recente dalla BBC, e una gara di FA Cup del Gennaio del 2009 in casa dell’Hull City degenerò nel lancio di oggetti e seggiolini in campo.
Dall'articolo si capisce, con certezza, che il Millwall è più di una semplice squadra di calcio. Forse una sorta di stile di vita sopra le righe dove, come contorno, vi è un ambiente ostile e molto rude che fa si che, una partita di calcio, si trasformi in una perfetta intimidazione nei confronti dei malcapitati avversari. Una cosa è certa, nella parte meridionale di Londra, più precisamente a Bermondsey non scherzano.
di Damiano Francesconi

8 novembre 2024

PAUL, JIMMY e una pinta di birra.

Gateshead. Già sembra un brutto posto al solo pronunciarlo. Assomiglia al rumore di una catena che cigola, una specie di stridore sofferto, spietato. Dio non c’è, o se c’è non è a Gateshead, perché a Gateshead l’unico rosario che scorre davanti agli occhi è quello delle porte sbarrate dall’ordine di sgombero. Esercizio quotidiano in questo stramaledetto buco di culo dove la crisi non finisce mai, dove è regola, non eccezione. Gateshead, Tyne and Wear, Newcastle: una tenaglia urbana chiamata Tyneside, uno spicchio di sud del mondo in quel profondo nord inglese che un tempo si sporcava col carbone e che ora passa il tempo domandandosi se è il cielo plumbeo a specchiarsi nel fiume o viceversa. Sputate sulla coscienza, sui tribuni della coscienza, se cercate il Dottor Jekyll qui troverete solo Mister Hyde e cazzo quanto è bella quella maglia a strisce bianconere con in mezzo la stella blu della Brown Ale, o il cane se volete, perché a Newcastle quando i mariti vogliono uscire di casa la sera e farsi una bevuta con gli amici dicono alla moglie: “I’am going to take the dog for a walk” (vado a portare a spasso il cane…). Insomma è un postaccio lurido e freddo, tuttavia ci sono fondamenti sicuri: il pub, la birra, le freccette e il sussidio di disoccupazione. Il ragazzino sbilenco e ricciolino vuole giocare con quei colori, il piccolo Paul vuole giocare con le "magpies". 



Ogni giorno calcia un pallone lacero contro un muro ancora più lacero dello stesso pallone al civico 29 di Pitt Street. Paul Gascoigne, secondo di quattro figli, Paul Gascoigne che quando fa sera torna a casa di corsa, sale le scale e si ritrova in un monolocale con il bagno condiviso con altre famiglie e mangia crocchette di pesce di fronte alle prepotenze di un padre violento e semialcolizzato che si appresta ad emigrare in Germania alla ricerca di un impiego. E’ dura uscire da questa bolla di assordante inedia. Ma al grande teatro serve il dramma per manipolare il destino. Paul a 10 anni assiste alla morte di un amico, un incidente, un camion di surgelati spazza via da questo mondo il coetaneo Steven Spraggon. Paul smette di piangere tra le mura di casa, sospende le sedute dagli psicologi, comincia a vincere la sua fottuta paura del buio, smette di rubare nei negozi e allenta il vizio di inserire "pound's" nelle slot machine. Ora è sicuro che il calcio gli allungherà una mano salvifica. A scuola scarabocchia autografi, “diventerò un calciatore famoso”, dichiara convinto alla professoressa. Eppure stecca i primi provini, finché, eccolo il maledetto e bellissimo Newcastle. Lo prendono ed entra in confidenza con il gestore di un pub vicino ai campi d’allenamento (guarda te alle volte la stranezza della vita…) che lo vede giocare e gli affibbia il soprannome “Gazza” per via di quella falcata vacillante, sgangherata, quasi da volatile. Capitano della squadra giovanile allenata da Colin Surgett vince una FA Youth Cup segnando un bellissimo goal contro il Watford e brinda con qualche bicchierino di troppo che accendono la prima, enorme, spia rossa sul suo personale cruscotto mentale. Si, ok, ora però spunta lui. Jimmy “ five bellies” Gardner ossia il compiuto guardiano dell’identità locale. La storia di Jimmy Cinque pance è un autentico mosaico. Un insieme di frammenti tesi a comporre il tratteggio di un’amicizia, di un disegno a base alcolica che ha i tratti di una gigantesca sbronza, di una pinta ancora da svuotare. Jimmy è il migliore amico di Gazza. Da sempre. Difficile ricostruire il percorso del personaggio. Per farlo bisogna abbandonare qualsiasi speranza di continuità narrativa e lasciarsi trasportare dallo scorrere dell’aneddoto, apprezzare la fugace briosità dell’effervescenza. In ogni momento della vita al limite di Gazza, in ogni suo segmento emerso, vi è un attimo in cui dal cono d’ombra esce Jimmy, e non potrebbe essere diversamente, poiché Jimmy non è altro che una figura evocativa che accompagna le gesta del folle; è il suo ritratto di Dorian Gray, il suo contratto faustiano con i bassifondi del delirio, l’immagine decadente di quello che sarebbe stato se, un giorno del 1967, le muse del calcio non avessero guardato un attimo in quel fumoso angolo d’Inghilterra per regalare talento dall’unione di papà John con mamma Carol. Gardner di professione è “builder”, il classico “Northern fat lad” un bestione capace di filare via tranquillo con quindici “Snakebite” a sera. Con Gazza fu amore a prima vista, avevano 14 anni i protagonisti e “ lard arse” il primo delicato epiteto. Nelle parole di Jimmy c’è sempre grande riconoscenza per l’amico talentuoso che gli ha permesso di viaggiare un po’ dovunque, nonché di diventare una modesta celebrità. A sua volta, questo ragazzone è continuamente presente nei momenti decisivi e cervellotici della vita di Paul. Fu lui, infatti, a volare insieme al padre del calciatore in Cina, quando l’ex nazionale inglese pensò bene di finire fuori strada improvvisandosi autista del bus dei Langzhou Flying Horses concludendo il suo squilibrio in hotel a bersi un goccio, o due, o tre, di vodka. Ad interrompere il delirio etilico di Gazza, rannicchiato in posizione fetale nel letto alla stregua del personaggio della metamorfosi di Kafka diventato insetto, fu proprio “ cinque pance” che, una volta in stanza, cominciò a bere “neat whiskey to cheer him up”. Il simile cura il simile, non c’è che dire. 

























Azione terapeutica di una legge naturale enunciata due secoli fa da Samuel Hahnemann. Nella polvere e sull’altare Jimmy Gardner lo ha marcato stretto. Molto peggio della presa bassa di Vinnie Jones. Da quando il suo amico calciatore gli fece mangiare una torta ”modificata” con la merda di gatto, a quando gli regalò un robot programmato per andare nella sua stanza e intimargli: "Make a cup of tea, fat man", a quando furono cacciati dal West Lodge Park Hotel di Londra dopo che le cinque pance di Jimmy erano state viste farsi largo in mezzo alle spaventate anatre del laghetto. Quando Gardner si muove da solo nelle acque della vita, invece, non sembra essere altrettanto efficace come quando divora ali di pollo: nel 1999 viene arrestato per possesso illegale di arma da fuoco. Una vicenda da ricondursi a un certo squallore metropolitano: qualche bicchiere oltre il consentito, un gruppo di ragazzi che lo apostrofa amabilmente ”animal bastard“, la scontata reazione, ed ecco saltar fuori la pistola. Si prenderà sei mesi di carcere per non aver sopportato gli insulti. Dopo il carcere una vicenda di debiti finita in imparruccate aule giudiziarie, misere vicende di ordinaria amministrazione.

“Dovrai aspettare mille anni per rivedere qualcosa di simile, disse Bobby Charlton all’assistente Maurice Setters”.

E’ ora di prima squadra. Nel tempio pagano del St James’s Park resterà tre stagioni guadagnandosi il titolo di giovane dell’anno nel 1988 in First Division. Lo vuole il Manchester United, Paul si promette a Alex Ferguson ma al termine di una triangolazione telefonica finirà a Londra, al Tottenham Hotspur, per la cifra record di 2,3 milioni di sterline. In ogni caso sotto la guida di Terry Venables esplode il talento di Gascoigne e altro: i tifosi l’adorano, dopo ogni rete gli lanciano bambole gonfiabili da baciare e gli cantano bonariamente “he’s fat, he’s round, he bounces on the ground” (è grasso, è rotondo, rimbalza sul prato), gli avversari lo insultano chiamandolo “porky”, gli lanciano delle barrette di “Mars”, lui scarta le confezioni e trangugia gli snack ridendo di gusto e a quel punto, finito l’avanspettacolo, arriva l’accademia: un repertorio di finte, di serpentine, calci di punizione letali e naturalmente qualche bizza come la strizzata ai testicoli dell’arbitro Jeff Courtney o provocatorie annusate di ascella. Attenzione, è ufficialmente esplosa la “Gazzamania”. Bobby Robson, tecnico dell’Inghilterra lo definisce “daft as a brush” (pazzo come una spazzola) ma è impossibile non portarlo ad Italia ’90 dove i tre leoni cedono ai tedeschi in semifinale. 

Con gli Spurs vince la FA Cup contro il Nottingham Forest ma in finale s’infortuna a causa di una stupida ed evitabilissima entrata sulle gambe del terzino avversario Gary Charles. Sedici mesi di stop e tutto da rifare, legamenti del ginocchio destro compresi. Nonostante l’episodio, la Lazio pazienta e acquista Gazza nell’estate del 1991 per circa otto miliardi di lire: il 23 agosto l’aeroporto di Fiumicino è una babilonia: il “naughty boy” arriva nella Città Eterna protetto da un paio di Ray-Ban e da otto gorilla, poi sfreccia via su una Mercedes nera. Quarantasette presenze e sei gol in tre anni, il gretto bottino di Gascoigne, che a Roma si fa notare per i colpi di testa, e non parliamo soltanto di quello andato a segno sotto la Nord nello storico derby del 29 novembre 1992. Le “vacanze romane” con la Lazio del taciturno Dino Zoff e del tabagista Zdenek Zeman finiscono non prima di essersi spogliato completamente nudo su un bus in autostrada. I sanpietrini avviano ad essere estremamente sdrucciolevoli e per converso lo prendono i protestanti dei Rangers dove invece di seguire i sermoni dei pastori e darsi pace dapprima raccoglie il cartellino rosso caduto dal taschino di un direttore di gara e finge di espellerlo ma più che altro si mette a mimare il suono di un flauto orangista durante un usuale, tiratissimo, Old Firm con il Celtic rischiando di scatenare una nuova guerra civile a pochi anni di distanza dal caso Maurice Mo Johnston. 
L’iconica nazionale inglese del decennio continua a coccolarlo e lui all’europeo casalingo la ripaga piroettando gli scozzesi a Wembley e dopo scivola beffardo sul prato nella scenetta della sedia del dentista ma le note indubitabili di “football coming home” non sono sufficienti e anche stavolta si arrende ai rigori alla solita Germania. Dopodiché l’oblio, lento, inesorabile, le cliniche, le terapie, uno scheletro ambulante, pigiami e vestaglie imbarazzanti, segnali di ripresa, minimi, impercettibili. Del resto non si può pretendere eccessive dosi di riflessione da uno che si è fatto bruciare il naso per scommessa. E Jimmy? L’addio, passeggero, fra i due resta tragicomico. Gazza è serrato al Marriot Hotel di Gateshead (la solita regressione materna) e Jimmy corre da lui per portagli delle sigarette, sulla strada, prima di arrivare, decide di fare una sorpresa all’amico in crisi: compra un pollo (potenza terapeutica delle pietanze, altro che ansiolitici). La visita però non risultò felicissima, il lauto pasto non era la medicina giusta che Paul cercava per lenire le ferite, Jimmy non seppe, o forse non volle, gestire la situazione e andò via, lasciando Gazza solo con il minibar vuoto, con il letto della stanza disfatto a fargli da triste specchio dell’anima. Per fortuna i protagonisti di questa storia in fondo sono come Newcastle e Gateshead, inseparabili destini uniti dal disegno urbanistico della vita, yin e yang del talento, tanto quello sprecato che quello mai avuto e quindi destinati a riconciliarsi in eterno per continuare a legittimarsi l’un l’altro. Le ultime notizie ci riportano un Jimmy Gardner convertito sulla via del salutismo supportato nella faticosa sfida alla bilancia dal recupero del suo amico, dalla sua nuova vita. I giorni di Paul Gascoigne pare comincino la mattina presto quando si presenta in una palestra davanti alla spiaggia ghiaiosa di Folkestone (dove ormai vive) e si mette a fare esercizi: addominali, piegamenti e qualche corsetta a cui aggiunge una partitella di calcetto ogni venerdì con una squadra di Bournemouth, qualche puntatina sul campo di golf e occasionali battute di pesca. Dicono non tocchi più un bicchiere e non assuma più droga. “Non so se berrò ancora, –dice Gazza – ma so che non ho bevuto ieri e che non ho bevuto oggi e, toccando ferro, che non berrò neanche domani”. Sembra strano pensare che gli Snakebite e le English breakfast siano uscite dalla vita del nostro “Geordie”. E infatti in un anonimo lunedì del 2012 viene fermato con l’accusa di molestie sessuali su un treno in partenza da York dove una donna ha raccontato di essere stata toccata in maniera inappropriata dall’ex calciatore. Dopo alcune ore di fermo presso la stazione di Durham Gascoigne è stato rilasciato dalla polizia che però ha continuato le indagini fino a una mezza assoluzione previa contante. Le cose sono cambiate? Si, quando non torna ad annegare nel gin. Paradossalmente solo con Jimmy potrebbe farcela, l’uno di fronte all’altro, come Gateshead e Newcastle. Paul “Gazza” Gascoigne e Jimmy “five bellies” Gardner, i figli venuti alla luce dalle acque del Tyne. Riflesso melmoso delle reciproche desolazioni.

5 novembre 2024

Quell’imitabile “MODELLO INGLESE”



























Il “modello inglese” che dà il titolo all'ottimo libro di Stefano Faccendini, edito da Ultra Sport, non è quello strombazzato della Premier prodotto vincente ed esportata in ogni dove del globo terracqueo. Né quello “forgiato” da leggi draconiane e da tanta repressione promosso da Margaret Thatcher ai tempi del proliferare della piaga dell’hooliganismo. Niente di tutto ciò: è un paradigma nutrito dalla solidarietà dei tifosi, dal loro attaccamento alla squadra che trova davvero un senso compiuto perché strumento per fare del bene ai più bisognosi della comunità. È anche coinvolgimento attivo dei club, quelli che ancora non ragionano solo con i parametri del profitto, o di calciatori che non possono scordare il loro passato segnato dall’indigenza.

Nei lunghi anni di governo conservatore la disgregazione dello stato sociale ha raggiunto il suo infausto zenit, poi l’epidemia di covid-19 e i suoi strascichi hanno inferto un colpo terribile a milioni di persone in tutto il Paese, in particolare dalle Midlands in su. Ci sono infinite statistiche che certificano questo dramma.
Tra le tante, Faccendini si sofferma sulle oltre due milioni di persone che devono ricorrere alle food bank, le banche del cibo, perché altrimenti non mangerebbero nemmeno un pasto al giorno. Per fortuna ci sono i tifosi che si prodigano per fare raccolte che hanno fatto davvero la differenza, aiutando gli strati più deboli della società. A volte anche andando oltre la rivalità calcistica, come accaduto con i supporter di Liverpool ed Everton.

L’autore racconta anche come una delle principali economie del Pianeta debba dire grazie a un ragazzo dalle umili origini, nato e cresciuto a Manchester, senza il quale durante i mesi del covid-19 tanti bambini si sarebbero trovati senza cibo perché il servizio mensa delle scuole era stato cancellato. Così Marcus Rashford, che di beneficenza già ne faceva tanta, ha iniziato una campagna talmente efficace che il governo ha dovuto rivedere la sua posizione. Non a caso Rashford è diventato un simbolo per i più giovani e non solo per le sue doti su un campo di football.

Il disagio sociale che avvolge il Paese si sfoga in sanguinose guerre tra bande. Per uscire da questa spirale perversa c’è chi, dopo un passato burrascoso, ha pensato di creare club per togliere i ragazzi dalle strade, con tutte le difficoltà che un’esperienza del genere può comportare. Ma pure questa è una storia di successo, al pari della proprietà del Grimsby che decide di rispolverare il vecchio principio del secolo scorso che voleva che l’imprenditore alla guida di un club avesse una sorta di dovere morale di dare indietro qualcosa alla comunità, concetto ormai stravolto dagli alti papaveri della Premier, alla disperata ricerca di contratti miliardari e senza troppa considerazione per il tifoso-cliente.

Queste e altre storie sono narrate in undici capitoli che si leggono in un batter d’occhi e che in filigrana raffigurano un impietoso quanto fin troppo realistico ritratto a tinte fosche dell’Inghilterra post-brexit.
di Luca Manes, pubblicato su Alias, inserto del Manifesto del 2 novembre 2024

4 novembre 2024

"U.K. FOOTBALL RIVALRIES. RIVALITÀ CALCISTICHE, RELIGIOSE, STORICHE E SOCIO-CULTURALI DEL CALCIO BRITANNICO, Vol.1" di Gianluca Di Leo (Urbone), 2021

Gianluca Di Leo nato a Matera ex collaboratore di Supertifo e Sodalizio Lazio, e collaboratore di Sportpeople, dopo aver pubblicato il saggio “Ultras il nostro modo di essere” e omaggiato la tifoseria laziale con il libro “Quelli della capitale” e gli ultras romanisti con il libro “ Unici eredi di un grande impero”, con U.K. Football Rivalries rivalità calcistiche, religiose, storiche e socio-culturali del calcio britannico v.1” approfondisce la natura di molte rivalità del Regno Unito e Repubblica d’Irlanda, un libro denso di informazioni, aneddoti molto interessanti sul perché le rivalità in queste piovose terre siano così sentite e di varia natura rendendo le atmosfere durante questi incontri di calcio uniche al mondo.

FRANK STAPLETON. The Grumpy Player.






































Amo il football vecchio stile. Se è football britannico meglio ancora. Mi affascinano i vecchi stadi, dove si respira l’odore dell’erba e l’umidità dell’inverno ti entra nelle ossa come il caldo che ti soffoca in estate. Stravedo per le maglie di passata concezione, semplici e caratterizzanti della storia del club. Una semplice divisa bianca è molto più romantica di una che sia super tecnica e scarabocchiata. Sono nostalgico di quel modo di vivere il calcio senza i miliardi delle tv o con proprietà senza faccia che si nascondono dietro fondi sovrani o nei meandri di misteriose società finanziarie. Quel calcio con esultanze istintive, vere. Non con scenette preconfezionate, senza balletti, senza coreografie. Il calcio delle partite che si giocavano tutte lo stesso giorno. Ma capisco che quel tempo è preistoria. Capisco che quello che mi fece innamorare non esiste più e allora non mi rimane che ancorarmi ai ricordi e rispolverare qualche giocatore che mi apra una porta spazio-temporale che possa riportarmi a quegli anni crudi, duri ma terribilmente romantici. 
Benvenuti negli anni Settanta o forse anche Ottanta. Il calcio inglese era lotta e machismo e le squadre sacre erano il Leeds United, il Liverpool, il Derby County. Erano gli anni dei calciatori baffuti, del capello lungo, dei calzettoni tirati giù. Dei campi fangosi e degli spalti troppo affollati. In questo contesto, alla metà degli anni Settanta, comincia a ritagliarsi un posto nella Hall of fame del football d’oltre manica un certo Francis Anthony Stapleton. Irlandese, orgoglioso, nato a Dublino il 10 luglio del 1956. Come il suo segno zodiacale lo contraddistingue, Frank era cupo, polemico, musone e spesso scontroso con i compagni, gli allenatori e i dirigenti. Un po' grezzo ma con una speciale forza d’animo e un talento sopraffino. Attaccante. Striker. Uno dal tackle duro. Grandissima abilità nel colpire di testa il pallone. 
Un uomo, così raccontavano - che faceva l’unico sorriso della sua giornata alla mattina davanti allo specchio appena alzato così da togliersi il pensiero per tutto il resto del giorno –

Stapleton era un ragazzo ostinato, coriaceo, uno che voleva arrivare a tutti i costi dove poi effettivamente è arrivato. L’inizio della sua storia è emblematico. Si racconta che un osservatore irlandese dell’Arsenal segnalò quattro ragazzi appena adolescenti presentandoli come futuri campioni. Liam Brady e David O’Leary lo diventarono davvero. Il terzo opterà per il rugby e il quarto poco prima ebbe un brutto infortunio. È qui che si inserisce il fato, che spesso ha un ruolo fondamentale, così quell’osservatore irlandese si ricorda di un altro ragazzo con i capelli lunghi. Gli rimane impresso il talento nel gioco aereo, il coraggio e la determinazione. Ma i piedi non esattamente raffinati. Il piccolo Franky quando arriva all’Arsenal ad Highbury mette in atto tutta la sua volontà per arrivare al traguardo. Si allena. Troppo. È la sua unica preoccupazione. Lavora duro. Tiri in porta, controllo di palla, palleggi e tanto, tanto “muretto”. Questa straordinaria costanza lo porterà in pochi anni a diventare il numero “nove” dei Gunners. Da non credere! Come in una favola fa il suo esordio contro lo Stoke City. Bastano pochi matches a far capire alla North Bank che questo ragazzo entrerà nella storia dell’Arsenal. Fece prima da spalla a Malcolm MacDonald per poi diventare il vero diamante dell’attacco. Il “re di coppa”. 
I due attaccanti trovarono un collante eccezionale, un’intesa superlativa e diventeranno irresistibili realizzando 46 gol nella stagione 1976/77. Nelle successive stagioni Stapleton confermò i suoi progressi attestandosi gradualmente come uno dei migliori realizzatori dei Gunners. Dal 1978 al 1980 sempre con l'Arsenal fu protagonista di tre FA Cup consecutive. In quella del 1979 contro il Manchester United, Stapleton segnò il secondo gol contribuendo alla vittoria per 3-2 avvenuta negli ultimi istanti dell'incontro. Poi, come tutte le belle favole la fine arriva e non è sempre dolce. Anzi diciamolo pure, fu una fine amara, soprattutto per i tifosi che lo videro passare ai rivali del Manchester United. Lascia Highbury dopo aver segnato 108 gol in 300 apparizioni. 

Il passaggio ai Red Devils fruttò ai gunners 900.000 sterline e sotto la guida di Ron Atkinson, Stapleton continuò a vincere trofei conquistando ancora due FA Cup nel 1983 e nel 1985. Ma la vittoria in campionato non arriverà mai. La sfiorò soltanto nella stagione 1985/86, quando i Red Devils vinsero le prime dieci partite per poi e finire al quarto posto. Con l’avvento di Sir Alex Ferguson, Lo stellone di Frank Stapleton comincia a sbiadirsi a favore di un altro grande attaccante, scozzese stavolta, Brian McClair. Questo è il punto che segna il declino della sua carriera. Lascia lo United con 78 gol in 286 partite e si trasferisce all’Ajax dove non incide minimamente. Viene ceduto all’Anderlecht dove non giocò nemmeno una partita. Nel corso della sua carriera Stapleton è stato convocato 71 volte per la Repubblica d'Irlanda, andando a segno in 20 occasioni un record che durò fino a quando non fu superato da Niall Quinn. Di Stapleton ci rimangono in eredità i suoi gol, le sue capocciate memorabili ad anticipare gli avversari in quelle aree di rigore intasate e frequentate da gente poco raccomandabile. Ci rimangono i tap-in sotto porta in scivolata o le cavalcate palla al piede verso la porta per poi scaricare la palla in rete sotto la traversa. L’aggressività nel puntare l’aerea, gli anticipi vincenti sul primo palo. Roba forte. Roba che non se ne vede più. Frank Stapleton, signori. The grumpy player. Buona visione…
https://www.youtube.com/watch?v=DjFcwJrh25w
https://www.youtube.com/watch?v=wc-58_zto2k
di Alessandro Nobili
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