28 marzo 2025

NONNO BILLY BINGHAM

Con un gesto perentorio, papà prende il telecomando e spegne la TV, convinto che la scatola magica non abbia da regalare a suo figlio niente di particolare per quel mercoledì sera. Il bimbo vorrebbe protestare, ma papà è inamovibile. “Siediti vicino a me, piccolo. Ti voglio raccontare una storia di tanti anni fa, una delle più di mille di quando il pallone era ancora Il bellissimo Gioco”. Il bimbo accorre, perchè ama quelle storie, pensando che forse papà ha ragione sulla TV, e si siede vicino a lui. Quando la storia inizia, gli echi dell’imminente partita di Champions League si spengono definitivamente...

* * * *

C’era una volta Nonno Billy, che viveva in un posto chiamato Ulster, l’angolo meno attraente della verde terra d’Irlanda, e che un giorno fece una scelta inaudita e decise di portare i suoi nipotini a fare un viaggio lungo lungo. Aveva cinquantun primavere sulle spalle e ventidue nipotini: una sproporzione preoccupante! Madri e padri non nascondevano la loro apprensione ad affidargli la teppaglia tutta insieme, ma la verità era che nessuno al mondo, a parte il nonno, sapeva tirar fuori il meglio dai ragazzi, perchè tutti loro, insieme, avevano la stessa passione: il gioco del calcio, o football, così come veniva chiamato nella loro terra. Qualche mamma giunse a strapparsi i capelli. “Questa proprio ci mancava, con tutti i problemi che già abbiamo qui!” aggiunse qualcun’altro. Nonno Billy sorrideva, fiero contro tutti, raccontando che lui stesso aveva già intrapreso un viaggio simile, tanti anni prima. Gli animi si scaldarono: “Tu sei un matto malato di nostalgia, ecco qual’è il problema. Erano altri tempi: ci si poteva muovere in tranquillità. Oggigiorno c’è da aver paura!”
Si sollevarono decine di obiezioni ma il nonno non cedette di un millimetro, e fu così che qualche giorno dopo si trovò in aeroporto, all’imbarco, a passare in rassegna la truppa. Eccola lì, la sua squadra: tutti entusiasti, tutti equipaggiati, tutti in verde. Nonno Billy sapeva che tutto sarebbe andato bene, e che i suoi nipotini si sarebbero divertiti un mondo. Anche loro, per qualche strano motivo, sembravano esserne sicuri. Nonno Billy aveva affidato a Pat, il più grande e maturo dei suoi nipoti, la responsabilità di mantenere l’ordine: “Vestiti in giallo, così quando ti guarderanno capiranno chi comanda! E non farti mettere i piedi in testa da nessuno, specialmente da Gerry!”, disse indicando quello che tutti chiamavano l’Astuto, perchè non perdeva occasione di approfittare delle altrui distrazioni. Nonno Billy aveva una predilezione per Pat, così responsabile, così ometto. Gli aveva regalato un pezzo di stoffa bianco da mettersi al braccio: i gradi del Sergente! Durante il viaggio gli si avvicinò Sammy, sveglio, matematico e geometrico, intelligente, uno che gradiva il maggior numero di informazioni possibile, così da sapere sempre come muoversi: “Mi ripeti dov’è che stiamo andando, nonno?” gli chiese. “In Spagna, Sammy, alla Coppa del Mondo”. “E di cosa si tratta?”
Nonno Billy gli scompigliò i capelli: “Ti piace giocare a football, Sammy, sì? Ecco, la Coppa del Mondo è la cosa più importante per chi ama giocare a football. E’ una magia così preziosa che si può vedere solo una volta ogni quattro anni”. Sammy non ne aveva abbastanza: ”Mamma dice che tu ci sei già stato.” Il nonno annuì: “Tanto tempo fa. Ero un ragazzo come voi, anche se allora era in un posto diverso che si chiama Svezia”

Soddisfatto, Sammy tornò al suo posto, di fianco al piccolo Norman, il più giovane di tutti. Già, Norman: più il nonno lo guardava e più lui gli ricordava il piccolo e sfortunato Georgie, un ragazzo come loro, ma geniale, che tanti anni prima, e con dolore, aveva dovuto accettare il fatto di non poter fare quel viaggio e aveva tanto sperato che prima o poi qualcuno ci sarebbe riuscito al posto suo, ricordandosi di regalargli un pensiero. Nonno Billy sperava: “Che tocchi proprio al mio Norman il posto del leggendario Georgie?”.
E così, tra un pensiero e l’altro, la comitiva arrivò in Spagna, dove faceva un gran caldo. Come aveva detto il nonno si trovarono subito di fronte a tanti altri ragazzi: con qualcuno fraternizzarono, con qualche altro volarono parole grosse, fin quando il nonno prese per le orecchie i più riottosi e portò tutti quanti in albergo: “Riposatevi. Anche se qui non sono stati carini con noi, tenete in serbo la vostra rabbia per quando li incontrerete sul campo. Non è la prima regola per diventare bravi ragazzi, ma è il consiglio migliore per diventare calciatori vincenti”. Come aveva ragione, il nonno! La prima settimana fu meravigliosa: visitarono una bella città dal nome orribile, Zaragoza, e si incontrarono pacificamente con ragazzi provenienti da paesi lontani, dividendosi tutto! A dir la verità, Gerry l’Astuto aveva tentato di sgraffignare qualcosa a dei simpatici caraibici, ma Pat, che sapeva anche essere giusto e generoso, non si era opposto a rendere il maltolto, evitando a Gerry la ramanzina del nonno. Poi capitò di spostarsi in un posto chiamato Valencia, e lì vennero di nuovo alle mani con gli scorbutici indigeni. Questa volta Pat decise di lasciar perdere la ragionevolezza e non si intromise nella baruffa. Nonno Billy chiamò vicino a sè Gerry l’Astuto e gli disse: “E’ il tuo momento, ragazzo: ruba tutto quello che puoi!”. Lo sguardo di Gerry si riempì di gioia cleptomane: si buttò nella mischia e poco dopo raccolse una palla lasciata incustodita da un tizio che si era saputo chiamarsi Arconada e la nascose al sicuro dentro una rete. 
Gli spagnoli ci restarono così male che abbandonarono ogni velleità e presto se ne andarono, mortificati. Nonno Billy sapeva di non essere stato proprio ortodosso, ma almeno riconosceva di aver insegnato ai ragazzi a difendersi e rispondere per le rime. Gioia immensa per tutti, anche a casa, dove le notizie arrivavano in fretta. A seguito di questi fatti burrascosi ci fu il trasferimento nella città di Madrid, bellissima, dove tutti però li guardavano storti. I nipotini di Nonno Billy furono ben contenti di non curarsene e gioirono nel conoscere i ragazzi provenienti dall’Austria, prima che i francesi facessero loro vedere come si giocava a football alla perfezione: una severa lezione di vita, imparata comunque con dignità e orgoglio. Quella sera Nonno Billy guardò negli occhi i suoi ragazzi, prima che andassero a dormire e disse: “Bene. Siete stati degli ottimi compagni di viaggio, e così spero di essere stato io per voi, ora però dobbiamo tornare a casa”. La squadra si mosse come fosse una singola entità, e andò ad abbracciare il nonno, con un unico sussurro: “Grazie”. La mattina dopo, per il ritorno, Nonno Billy si sedette in ultima fila, da dove poteva controllare tutto. Pensava a quel viaggio e anche a quello di ventiquattro anni prima, quando lui era più o meno come ora i suoi nipoti. Pensò al piccolo Georgie, che quel viaggio non aveva mai potuto farlo, e pensò anche che una volta a casa non gli sarebbe dispiaciuta una pinta di scura. Anche i nipotini erano composti e silenziosi: pensavano all’avventura appena vissuta, cercando di imprimere nella mente più frammenti possibili, in modo da non poter mai dimenticarsene. Si appisolò. 
Più tardi si sentì chiamare. La voce di Pat: “Nonno Billy?”. Sporse la testa quel tanto che bastava per avere la visuale sul corridoio dell’aereo. Pat si avvicinava tenendo per mano il piccolo Norman. Entrambi giungevano con l’aria affranta. Pat dimostrando tutta la sua maturità, nobile e dignitoso, mentre Norman sembrava prossimo alle lacrime, dito in bocca e sguardo a terra. Nonno Billy fece cenno a Pat di parlare: “Nonno...ecco...vedi...”
Naturalmente avrebbe voluto condirla un po’, ma Norman lo strattonò costringendolo a venire al punto: “Volevamo ringraziarti, E’ stata una vacanza bellissima...solo che noi...io... ecco...Norman vorrebbe sapere se ci sarà modo di rifarla, un giorno”. Lui li abbracciò, forte: “Un giorno, forse sì”. “Quando?” azzardò Norman. “Devi aver pazienza, piccolo: non prima di quattro anni, sai...la magia!”. “Me lo prometti?”. Nonno Billy prese il volto di Norman tra le sue mani: “Ti prometto che faremo tutto quel che si può fare. Può bastare ad un giovanotto come te?”. Norman annuì tristemente e invitò Pat a riportarlo al posto. Li guardò allontanarsi e sorrise tastando quel senso di continuità: il più grande ed il più piccolo dei suoi nipoti. Si riaddormentò.

Quattro anni dopo...

Nonno Billy è seduto, ancora una volta nella sua vita, ai bordi di un grande prato verde attorno al quale si sono radunate più di ventimila persone. Vorrebbe vederle tutte in volto, ricordarsele, ma sa di non poter fare un’unica foto di una moltitudine. Norman è cresciuto, ma è ancora vispo che è un piacere. Gli passa davanti e lui gli assesta una vigorosa pacca da nonno sul sedere. Mentre Norman corre al suo posto, vede Pat dalla parte opposta. Ancora quella sensazione: il mio più grande ed il mio più piccolo! Anche Pat lo sta guardando: si sorridono l’un l’altro e il sorriso colma la distanza fisica facendo viaggiare su un filo i sentimenti più nobili, compresa la gratitudine. Nonno Billy vuole assaporare l’atmosfera di quel momento ed inspira forte forte, perchè lì a Guadalajara, Messico, l’aria è più rarefatta di quanto possa mai esserlo a Belfast, o a Madrid. La promessa è stata mantenuta.

* * * *

Il bimbo sorride a papà. La storia è stata carina, come si aspettava. Ora papà vorrebbe premiarlo, perchè un po’ gli brucia essere stato così drastico per la TV, e sa che al figlio il calcio piace molto, nonostante la tenera età. “Vuoi vedere come sta andando la partita?”, chiede. E la risposta, sorprendente, è: “No, papà, andiamo a nanna”.


Qui sopra è stata resa una trasposizione molto, MOLTO libera di un fatto accaduto realmente, ed a suo modo epocale: la qualificazione della rappresentativa dell’Irlanda del Nord a due Campionati del Mondo consecutivi, nel 1982 e nel 1986, sotto l’esperta guida di Billy Bingham, unico nordirlandese ad avere partecipato a 3 mondiali (nel 1958 vi prese parte come calciatore). Nel racconto Bingham è Nonno Billy, ed insieme a lui sono citati alcuni dei giocatori più rappresentativi di quell’irripetibile quadriennio: il portiere Pat Jennings è Pat, l’interno Sammy McIlroy è Sammy, lo striker Gerry Armstrong è Gerry l’Astuto (cui l’aggettivo cleptomane si addice unicamente nell’economia della storia) ed il talentuoso Norman Whiteside (che esordì a Spagna ’82 a 17 anni e 42 giorni, battendo il record di giovinezza fino allora detenuto da Pelè) è il Piccolo Norman. Credo infine sia doveroso lasciar supporre a chi legge chi fosse lo sfortunato, geniale e leggendario Georgie.
Delle due imprese la più significativa resta quella dell’82, anche in virtù del quadro delineatosi alla vigilia del Mundial spagnolo. Innanzitutto le rappresentative del Regno Unito vi si affacciavano in massa come non era più accaduto dal 1958 (unica edizione in cui furono tutte e quattro presenti); in secondo luogo, o comunque di conseguenza, c’erano i presupposti per scrivere una pagina significativa di storia calcistica britannica. Ci contava l’Inghilterra, che dopo Mexico ’70 aveva “bucato” nel ’74 e nel ’78 e tornava a misurarsi per l’Iride dopo una pausa forzata di dodici anni e a sedici di distanza dall’”Investitura” casalinga. Obiettivamente era una squadra forte. Non la più forte di sempre e nemmeno la migliore delle ventiquattro sbarcate in Spagna, ma forte: aveva solidi pilastri nei reparti arretrati e di manovra ( Shilton, Neal, Butcher, Wilkins), ed attaccanti tra il giovane e lo scafato che avevano già saputo essere letali (Robson, Woodcock, Mariner, Francis), oltre ad un campione cristallino, anche se acciaccato, come Kevin Keegan. Arma in più (teorica): la sete di rivincita. 
Pronosticare i Leoni tra i primi quattro poteva essere un azzardo, ma neanche tanto. Ci contava la Scozia, visto che in cima alla lista degli obiettivi il compianto Jock Stein aveva scritto: “Superare, una volta nella vita, quel benedetto primo turno!”. Rough, Hansen, Strachan, Souness, Dalglish, Wark, Archibald, Jordan: con una rara infornata di uomini di caratura internazionale come questa, se non allora, quando? Siccome però non si può essere scozzesi senza qualche complicazione, e a conferma che a nord del Vallo non hanno mai brillato troppo in quanto a fortuna, la Scozia venne sorteggiata nello stesso girone del Brasile. Con il primo posto già assegnato, honoris causa, contendere il secondo a Nuova Zelanda e Unione Sovietica restava impresa fattibile. L’Irlanda del Nord, di suo, contava che qualsiasi risultato diverso da una figura pessima sarebbe stato un successo.
Non andò esattamente così.
I bianchi vinsero il loro girone a punteggio pieno, ma tra luci ed ombre (3 goals alla Francia, 2 alla Cecoslovacchia, solo 1 al misero – almeno in questo contesto – Kuwait) salvo evaporare al turno successivo, confermando una tendenza alla liquefazione che non li avrebbe più abbandonati in nessun’altra manifestazione, salvo forse Italia ’90. La carriera mondiale di Keegan si ridusse a 27 miseri minuti giocati contro la Spagna in una partita dal controverso giudizio: più brutta o più inutile? Robson da frizzante sublimò in evanescente, le conclusioni del reparto avanzato divennero come freccette in mano a tiratori col Delirium Tremens. Il buon Shilton parava il possibile, ma difettava in fase realizzativa. Si tornò a casa con le pive nel sacco, al solito.
La Scozia riuscì nell’impresa più ardua: farsi eliminare di nuovo al primo turno, in barba alla legge dei grandi numeri, e nonostante un invidiabile bottino di otto reti messe a segno in tre partite. Battuti con cinque goals, ma non senza punte di ridicolo, i neozelandesi, strapazzati dal Brasile, ai blu fu fatale il 2-2 contro l’URSS.
Così, il Mundial ’82, contro ogni aspettativa, consegnò alla storia del football britannico solo il sontuoso exploit dei ragazzi di Bingham: il passaggio del primo turno. Soffrendo, certo, ma lasciando impressa negli occhi di tutti una magnifica impresa: la sconfitta inferta ai padroni di casa grazie ad una rapace zampata di Armstrong su gentile concessione del portiere spagnolo Arconada. Il mondiale degli spagnoli, di fatto, finì in quel frangente, nonostante le partite successive, mentre quello dell’Irlanda del Nord aveva raggiunto il suo picco. Nessuno lo avrebbe mai sognato. La successiva goleada inferta dalla Francia alla rappresentativa dell’Ulster rientrò nell’ordine delle cose: non si poteva chiedere di più. Per i successivi quattro anni la martoriata appendice irlandese dell’impero di Sua Maestà fu un po’ più verde del solito, in attesa di tempi migliori.
di Dante Cavalli, da "UK Football please"

27 marzo 2025

"IL MODELLO INGLESE. Il calcio come strumento sociale" di Stefano Faccendini (UltraSport), 2024

“Modello inglese” è un’espressione alla quale si ricorre spesso per definire fenomeni diversi, dal sistema repressivo generato dal pugno di ferro con cui Margaret Thatcher decise di affrontare il problema degli hooligans a quello avido e sfavillante della nuova Premier League, che ha trasformato the working man ballet in industria di intrattenimento a uso e consumo della middle class. Quasi mai, invece, viene adoperata per descrivere la propensione, molto diffusa oltremanica, a utilizzare il calcio per fare del bene. Eppure è il volto più bello che può mostrare questo sport. Che si tratti di iniziative di solidarietà o di sostegno a persone in difficoltà, il football raggiunge la sua essenza quando è veramente al servizio della propria comunità di riferimento. Non solo durante i novanta minuti della partita, non soltanto rispettando il legame tra gli spalti e il campo da gioco, ma come strumento sociale che va oltre il tifo e aiuta in modo materiale e spirituale la vita della gente. La squadra, il club, è una parte importante dell’esistenza di milioni di persone, come le storie di questo libro dimostrano, e può diventare un punto di riferimento fondamentale, un rifugio, un aiuto, una speranza. A volte la sola.

26 marzo 2025

LONDRA. UNO DEI DUE POLI DEL MONDO

Londra. Uno dei due poli del mondo con New York. Per quelli della generazione prima della mia, negli anni 60/70, Londra è stata la musica, i concerti, la ricerca di quel vinile che da noi in edizione speciale non era mai arrivata.
Poi la meta preferita delle gite scolastiche delle medie o del ginnasio. Quindi l’inizio delle nuove tendenze. La moda, le pettinature, le gonne. Fino alle rappresentazioni teatrali e dei musical che ovviamente arrivano prima lì come i film e i concerti delle superstar di tutto il mondo. Non importa se ad Hyde Park o nelle Arene più esclusive. Tante cose sono cambiate al ritmo battuto dal Big Ben. Una sola costante in tutti questi anni. Il calcio. Quello, con la sua passione, non è mai cambiato. Semmai ha arricchito la sua storia. Da quelle parti lo hanno inventato, ma soprattutto ne hanno avuto cura. Londra e i suoi stadi. Tanti stadi. Tante storie diverse. Dalle due torri di Wembley, al treno che passa dietro Stamford Bridge. Da White Hart Lane che puoi raggiungere solo col bus a tutti gli altri dai quali rimbalzi tra una metro e l’altra. Quello è stato il mio vero richiamo londinese. Li volevo vedere tutti. Provare a respirare quell’odore di cipolla e ascoltare l’urlo dei venditori di programmi anche se non si giocava nessuna partita. Li immaginavo. Li sentivo ugualmente. Dopo aver cercato di trovare per tanti anni, essendo internet più giovane di me, i risultati prima e poi almeno le foto di quel calcio che tanto amavo, il passo successivo era andare li e “toccarli con mano”
Oggi, anche grazie al mio lavoro, ho visto almeno una partita in ognuno degli stadi londinesi compresi quelli, come il Plough Lane, che non esistono più. Allora, verso la metà degli anni 80, disegnavano la mia Londra. I colori delle linee del Tube si fondevano con quelli delle maglie delle squadre. Quello del Chelsea, Loftus Road e Upton Park nella stessa giornata intervallati da un pub e prima di una immancabile pizza. Gli altri con più comodo. 
Uno alla volta. Ce ne era uno che però avevo sognato più degli altri. Highbury. C’era uscendo dalla metropolitana a sinistra un pretenzioso cartello. "Welcome to Highbury. the Home of Football"
Pretenzioso certo, ma per me era molto vero. Era tutto quello che avevo sempre sognato. Londra, il calcio inglese, l’Arsenal. Quello per me era il calcio. E non stavo neanche guardando nessuna partita. Il profumo della storia. Il fascino di un mondo allora lontano che oggi la televisione satellitare ha avvicinato. Già la storia. Quella vera non tutti, anche nell’era delle parabole, la conosco bene e allora l’occasione di farci dentro “quattro passi” gustandosi le pagine di questo libro è da non perdere. Gli inizi della Football Association, i club che hanno alzato l’FA Cup per i primi anni e che adesso si trovano solo sull’albo d’oro. Poi l’Arsenal. Dall’attraversamento di Londra, ai trionfi e le delusioni compresse nelle due gestioni più significative. Da Chapman a Wenger. Tra la rivalità aspra col Tottenham e I ritratti di chi ha saputo farsi amare con la maglia dei Gunners. Alex James, Ian Wright, Titì Henry e soprattutto quel Charlie Nicholas che se avesse anche vinto qualcosa in più della Coppa di Lega gli avrebbero fatto un busto anche a lui ad Highbury. Scozzese, capello fluente e una classe da non aver nulla da invidiare a nessuno. Uno dalla tecnica e la visione di gioco di stampo latino. Accarezzava la palla purtroppo per lui come la vita notturna londinese, ma il trionfo nella Littlelwoods Cup dell’87 a Wembley resta il flash della sua grandezza. Con una doppietta ha messo in ginocchio il Liverpool e regalato dopo tanti anni un trofeo all’Arsenal. Il primo dell’era George Graham. Di fatto il primo della rinascita. Oggi a Wembley l’arco ha sostituito le mitiche torri, ma il fascino è sempre li. E’ nell’aria. Come nel passaggio da Highbury all’Emirates. Quello che resta sono le passioni che vanno alimentate anche rileggendo la storia.
di Massimo Marianella, dalla prefazione del libro London Calling (Bradipo Editore)

25 marzo 2025

"DERBY DAYS - Il gioco che amiamo odiare" di D. & E. Brimson (Libreria dello Sport), 2005

I tifosi di calcio riservano il loro più grande odio per i tifosi locali rivali.
Il Derby non riguarda solo il calcio, è una questione di orgoglio, il poter tenere alta la testa il Lunedì mattina quando vai al lavoro sapendo che i tuoi ragazzi sono meglio di quegli altri. I fratelli Brimson ci consegnano una panoramica di tutti i derby di calcio, tracciando la storia delle ostilità e rivelando le storie viste da entrambe le fazioni – Manchester United e Manchester City.
L’attenzione non è posta solo sui derby più famosi, come ad esempio quello del Liverpool contro l’Everton, ma anche sugli incontri meno pubblicizzati come L’Exeter contro il Plymouth, per realizzare così un’agghiacciante ritratto delle ostilità nel calcio.

24 marzo 2025

SUTTON UNITED. LOCAL HEROES



Continua il viaggio nell’affascinante galassia non league.
Stavolta andiamo a Sutton, sobborgo di Londra che ospita una delle più tradizionali realtà amatoriali del panorama inglese. Il Sutton United è fondato il 5 marzo 1898 dalla fusion di due importanti squadre giovanili, il Sutton Guild Rovers e la Sutton Association. Il nuovo club si comporta bene nelle locali competizioni giovanili e amatoriali, ma resta in un sostanziale anonimato fino al 1910, quando si iscrive alla Southern Suburban League, giocando le proprie gare su diversi campi della zona.
L’approdo al Gander Green Lane avviene una prima volta nel 1912; la prima partita è contro il Guards Depot in FA Cup, e gli U’s la vincono per 1-0 davanti ad 800 spettatori (numero di tutto rispetto). Dopo una breve emigrazione al The Find, il Sutton torna al Lane nel 1919, ed anche la seconda ‘inaugurazione’ è incoraggiante, un sonoro 4-1 ai danni del Green Old Boys.
Da quel momento il Lane sarà la casa degli U’s, teatro di tutti gli alti e bassi di un club che conquisterà uno status di primo piano nel panorama amatoriale. I primi ammodernamenti significativi arriveranno nei primi anni ’50, con la costruzione di un nuovo stand, cui segue nel 1962 il rifacimento dell’impianto di illuminazione per partecipare alla Isthmian League. Il record di affluenza per il Gander Green Lane è stabilito in occasione di Sutton vs Leeds, FA Cup 1969/70, quando sulle terraces si accalcano ben 14.000 persone. Tornando al campo, nel 1921 il Sutton è ammesso alla Athenian League, e dopo alterne vicende segna finalmente la propria presenza conquistando il campionato nel 1928. Negli anni ’30 il club si consolida come una forza crescente del calcio amatoriale, reputazione avallata anche dalle due semifinali (1929 e 1937) nella FA Amateur Cup. Nella prima occasione il Sutton è escluso dalla competizione per aver schierato due giocatori militanti anche nelle leghe del Sunday Football.
Durante la Seconda Guerra Mondiale il calcio non si ferma ma viene ridimensionato nelle sue competizioni; il Sutton in ogni caso continua a progredire, grazie all’emergere di una delle leggende del club, il bomber Charlie Vaughan. Alla ripresa delle attività ‘normali’, stagione 1945-46, i suoi 42 gol consentono agli U’s di vincere nuovamente la Athenian League, ed a seguire la Surrey Senior Cup. Gli exploit di Vaughan non passano inosservati, ed il ragazzo finisce al Charlton, ma il Sutton continua a rimanere nell’elite amatoriale, distinguendosi per la spiccata progettualità della sua dirigenza.
Proprio in questo solco di crescita generale, nel 1953 la proprietà del club viene ristrutturata nella Sutton United Limited, e negli stessi anni è edificato un nuovo stand del Gander Green Lane. Si lavora con attenzione ed impegno sui giovani, ingaggiando uno staff di livello assoluto, fra cui spiccano i nomi di Jimmy Hill e Malcolm Allison. 
Inizia l’epoca d’oro del club, a partire dall’avvento in panchina di George Smith che porta a riconquistare la Athenian League per la terza volta (1958) e la London Senior Cup nello stesso anno. Nel 1963, sotto la guida di Sid Cann (già vincitore da giocatore della FA Cup con il Manchester City), arriva anche la prima visita a Wembley, per la finale della Amateur Cup. Il Sutton perde 4-2 contro il Wimbledon (altra grande forza amatoriale dell’epoca), ma l’ascesa continua sotto forma di ammissione alla Isthmian League.  Nel 1967 il Sutton conquista il primo dei quattro campionati di League, mentre la maledizione di Wembley prosegue nel 1969, stavolta la sconfitta è per mano del North Shields.
La fama nazionale arriva una prima volta nel 1970, quando gli U’s arrivano fino al 4° turno di FA Cup, dove affrontano il grande Leeds di Revie. Di fronte ad undici -dico- undici nazionali l’impegno e la buona volontà dei dilttanti del Sutton non bastano; il Leeds vince 6-0 ma resta il ricordo indelebile di una FA Cup-run raccontato ancora oggi dalle parti del Lane.

Nel 1974 Sid Cann è sostituito da Ted Powell (ex nazionale inglese), cui succedono diversi manager fino a Keith Blunt, che riprende il filo di un lavoro positivo.
Nel 1979 arriva addirittura un successo internazionale, l’anglo-Italiano conquistato a Chieti (2-1), ma nel 1981 la maledizione di Wembley colpisce ancora: terza finale (FA Trophy), terza sconfitta, stavolta da super-favorito contro il Bishop’s Stortford.
Per il resto il Sutton continua a vincere coppe di categoria (nel 1983 realizza addirittura un prestigioso ‘treble’), e nel 1985 arriva il titolo della Isthmian League. Non segue l’ammissione alla Conference per problemi legati allo stadio, ma nel 1986 il Sutton vince ancora il campionato e stavolta si aprono le porte della Conference, una sorta di Premiership per un club di queste dimensioni, un punto di arrivo di valore storico. Per non mancare ancora l’appuntamento, dopo la delusione del 1985 sono gli stessi tifosi a darsi da fare nell’estate successiva. Conquistato il titolo, un gruppo di volontari trascorre le vacanze a sgomberare travi e materiali di legno accatastati dietro una delle due porte, per fare spazio ad un nuovo stand in muratura. Completata a tempo di record la mini ristrutturazione, i volontari (volenterosi) trovano il tempo anche per posizionare la recinzione perimetrale e dipingere stand principale e spogliatoi.

L’impatto con la massima categoria (amatoriale) è estremamente positvo, l’impressione è che il Sutton possa addirittura porre le basi per il salto fra i professionisti, dato che infila una lusinghiera serie di piazzamenti di alta classifica, sotto la guida positiva e coraggiosa di Barrie Williams. La permanenza in Conference si interrompe invece bruscamente nella stagione 1990-91, dopo un’altra stagione tranquilla che degenera bruscamente nel finale, spezzando l’ascesa degli U’s. C’è però il tempo di segnare la vittoria record in trasferta per la Conference (9-0 al Gateshead), un memorabile 8-0 al Kettering e soprattutto l’insuperata impresa del 1989, quando il Sutton elimina dalla FA Cup il Coventry (terzo turno). 

A tutt’oggi è l’ultima volta che un club non-league elimina dalla Coppa un club della massima divisione, ed è una storia nella storia che merita una parentesi speciale. Il Sutton inizia la sua avventura dal quarto turno di qualificazione, contro il Walton & Hersham; dopo un pareggio casalingo la spunta al replay, ed entra nel tabellone principale. La sorte è favorevole nell’assegnare al Sutton prima il Dagenham (vittoria per 4-0 al primo turno) poi l’Aylesbury United (vittoria per 1-0), ma soprattutto nel combinare il match più suggestivo del terzo turno, Sutton vs Coventry
La partita il sette gennaio 1989, in programma c'è il 3° turno della FA Cup, tradizionalmente collocato nel primo sabato dell’anno. La Coppa è ancora al suo massimo appeal, vale quanto (e forse più) di un titolo nazionale, anche perché lascia ancora spazio ai sogni. Un sogno realizzato è sicuramente quello del Wimbledon, la Crazy Gang che detiene il trofeo dopo aver superato in finale il mitico Liverpool degli invincibili, con un’impresa che entrerà per sempre nel folclore del calcio inglese, e quindi l’attesa per un potenziale giantkilling è alta. Da parte sua il Coventry si presenta al terzo turno da club della massima divisione, che sfida alla pari le migliori squadre d’Inghilterra e ancora celebra la Coppa conquistata nel 1987. Nessuno può dunque ragionevolmente temere la trasferta sul campo del Sutton, quattro categorie più sotto nella piramide calcistica inglese, fuori dai ranghi professionistici.
Va detto che in quegli anni il Sutton si è fatto conoscere (nell’ambiente amatoriale) per il suo stile di gioco offensivo e tecnico, agli antipodi del ‘kick and rush’ imposto in quegli anni dall’epopea del Wimbledon ‘forward thinking, forward running and forward passing’ è il motto preferito da Barrie Williams; lo ripropone anche al Times, che lo intervista proprio il giorno della partita. ‘Proveremo ad attaccare il Coventry perché non conosciamo altro tipo di gioco’ -proclama – ‘d’altra parte dopo l’esperienza dell’anno scorso sappiamo cosa aspettarci. Avremo più spazio rispetto a quando giochiamo in Conference, tranne nella loro area. Abbiamo visto il Coventry tre volte e sappiamo che sono molto dotati fisicamente, anche se siamo abituati a questo tipo di calcio. La differenza maggiore è la classe individuale. Loro sono quinti in First Division, noi a metà classifica in Conference e questo dice tutto…’.

Dunque Williams non si fa molte illusioni, ma ha un obiettivo ben preciso:
‘La cosa più importante è fare onore al calcio non- League’…non immagina nemmeno quanto…
Gli 8.000 che gremiscono il Gander Green Lane (2.500 sono tifosi del Coventry) assistono all’irripetibile spettacolo di una squadra di bancari, agenti assicurativi e mediatori immobiliari che impartisce una severa lezione di gioco e intelligenza tattica ad una delle migliori formazioni professionistiche del paese.
Per tutta la mattinata della partita, nel parco pubblico che costeggia il campo, gli uomini di Williams provano e riprovano gli schemi offensivi sui calci piazzati, avendo individuato proprio in questo fondamentale una debolezza degli Sky Blues. E immaginate quale soddisfazione
per il manager quando entrambi i gol che sanciscono il 2-1 finale arrivano proprio da calci piazzati, per merito di Rains e Hanlan. Certo, come in tutte le imprese c’è anche il contributo della fortuna: sul 2-1, l’assalto disperato del Coventry si infrange prima su una parata ‘impossibile’ e decisiva del portiere degli U’s (tipo quella di Zoff ai Mondiali del 1982, per intenderci…), poi su un ancora più incredibile triplo legno in mischia. E’ il segnale, gli dei del calcio tifano Sutton e conducono in porto l’incredibile vittoria degli U’s.

Sarebbe però ingeneroso identificare il clamoroso giantkilling (che il Times qualifica come il più memorabile risultato in FA Cup da quando il Wimbledon aveva espugnato il Turf Moor di Burnley per 1-0 nel 1975) solo con due occasionali calci piazzati. Williams sfrutta al meglio
le fasce, lanciando Stephens e Hanlan molto in profondità ad aprire la difesa del Coventry e mettere in mezzo cross sempre pericolosi. Eccellente anche l’organizzazione difensiva, con Regis & c. sempre tenuto lontano dalla porta difesa da Roffey.
Rains, che con il suo gol entra di diritto nell’Olimpo degli eroi della Coppa, ricorda così quel giorno: "Avevamo avuto sentore di cosa potevamo combinare un anno prima, portando al replay il Boro. Ma quando il sorteggio ci accoppiò al Coventry, tutto ciò che volevamo era evitare una brutta figura. La cosa bella fu invece che non li aggredimmo fisicamente. Nel
secondo tempo non facemmo nemmeno un fallo. Segnai il vantaggio da un corner di Stephens prima dell’intervallo. Ad inizio ripresa loro pareggiarono, ma Hanlan segnò quasi subito il 2-1. Al fischio finale, dopo nemmeno 30 secondi dopo il fischio finale il campo era invaso dai tifosi. Noi non volevamo perderci la scena, ma invece di restare nella mischia fingemmo di tornare negli spogliatoi per poi salire sulle tribune a goderci lo spettacolo dall’alto. Fu irripetibile, di gran lunga il momento più emozionante della mia carriera.
Fu anche l’apice di quell’epopea. Nel quarto turno perdemmo 8-0 a Norwich, ma quel giorno contro il Coventry mi rimarrà per sempre, e ancora oggi incontro tanti che vogliono parlarne".

L’analisi più obiettiva è quella del manager del Coventry: ‘L’ospitalità del Sutton è stata superba, non siamo stati presi a calci in campo e l’arbitro ha operato bene. Davanti non siamo mai stati lucidi e in generale eravamo sempre secondi sulla palla. Complimenti vivissimi al Sutton’. Sportività d’altri tempi, come quella dei 2.500 tifosi giunti da Coventry, alla fine tutti in piedi ad applaudire il Sutton e i suoi tifosi impazziti che hanno invaso il terreno di gioco. Scene d’altri tempi, che il Times commenta così: ‘E’ stato un giorno da cui il calcio e la sportività escono come i veri vincitori’…magia della FA Cup…

E proprio a riprova di questa misteriosa e incomparabile magia, l’ordine naturale delle cose torna a prevalere nel prosieguo della stagione. Il Sutton United (che non è una squadra di fenomeni) finisce il campionato di Conference a metà classifica ed è eliminato rovinosamente dalla FA Cup al 4° turno per mano del Norwich City (a Carrow Road finisce 8-0).
Il Coventry (che non è una squadra di brocchi), passata la ‘tempesta’ dei primi giorni, con i giornali impegnati a ricercare iperboli e paragoni umilianti per ‘raccontare’ la figuraccia del Gander Green Lane, riprende il proprio cammino in First Division e chiude con un o4mo settimo posto, secondo miglior piazzamento di sempre. E tuttavia ‘quel’ giorno, inimitato e insuperato da ormai ventidue anni è nella storia della FA Cup e del calcio inglese, e francamente è sempre più difficile che possa accadere di nuovo, in un calcio moderno dove il dominio del denaro ha scavato gap incolmabili fra le diverse divisioni.

Purtroppo per gli U’s il giorno di gloria è breve, torna presto la routine e dopo due anni, appunto la retrocessione-shock. Si tenta la pronta risalita, ma nonostante diversi buoni piazzamenti le porte della Conference non si riaprono. Sono tuttavia anni in cui il club sforna tanti buoni giocatori, che approdano rapidamente a squadre professionistiche. Efan Ekoku, Paul Rogers, Andy Scott, Paul McKinnon, Ollie Morah e Mark Watson sono i più famosi,
nomi che crescono e si impongono al Lane prima di prendere la via di Blackburn, West Ham, Sheffield United. Nel 1993 un’altra buona FA Cup vede il Sutton superare Colchester e Torquay (club professionistici) prima di inchinarsi 3-2 al Notts County (nel 3° turno). 
Nel 1996 un nuovo cambio manageriale riporta ‘a casa’ i fratelli Rains, già leggendari per essere secondo e terzo nella graduatoria all-time di presenze (dietro a Larry Pritchard).
Nelle prime due stagioni conquistano due ottimi terzi posti, sfiorando una fantastica promozione nell’anno del centenario. Finalmente un anno dopo (1999), dopo una magnifica rincorsa di 13 vittorie e 3 pareggi nelle ultime 17 partite, il Sutton torna a vincere il campionato e la promozione in Conference. Festa raddoppiata dal trionfo in Surrey Senior Cup ai danni dei rivali di sempre del Carshalton (3-0). La permanenza in Conference è tuttavia molto meno brillante di quella precedente, e si conclude dopo solo una stagione con una retrocessione molto amara. Il ritorno nelle divisioni inferiori segna la fine di una intera fase storica, in coincidenza con il trapasso nel nuovo secolo. La squadra è anziana, non ha forza e brio per competere con le iper-competitive concorrenti di Conference. Per il Sutton inizia un lungo periodo di transizione, con l’innesto di tante facce nuove che forniscono momentaneo rilancio, salvo poi lasciare per lidi più attraenti e depotenziare qualunque strategia di rilancio.
Fra alterne vicende il Sutton riesce comunque a garantirsi l’accesso alla nuova Conference South varata nella stagione 2004- 05. 
Nel solco delle stagioni precedenti, tuttavia, i migliori giovani vengono ceduti, in particolare il centrocampista Nick Bailey che arriva fino alla Championship con la maglia del Charlton.
La ‘resistenza’ dura tre stagioni, poi inesorabile arriva la retrocessione, fra cambi di manager, turnover vorticoso sul campo e incapacità di trattenere i migliori talenti prodotti dal settore giovanile. Che è il vero ‘traino’ del Sutton negli ultimi anni, inanellando ottime performance nella FA Youth Cup e completando addirittura un intero anno solare senza sconfitte ufficiali nella lega giovanile.
di Giacomo Mallano, da Fever Pitch
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