28 settembre 2024

"IL CALCIO A LONDRA" di Antonio Marchese (Edizione Efesto), 2022

"Avventure Illustrate" è un libro che racchiude vite, sogni e illusioni di persone che in un modo o nell'altro si legano alla squadra di calcio del loro quartiere. Se le quarantacinque di cui narrerò vi sembrano tante, pensate a quante ne ho lasciate indietro. Magari ci sarà una prossima volta. Il mio viaggio illustrato è pregno di emozioni contrastanti che, come nelle belle avventure, attraversa attimi di felicità pura mischiati a momenti di tristezza, un sentimento da tenere sempre in considerazione. Gioie e dolori si alternano perché il viaggio è reale.

27 settembre 2024

COVENTRY CITY. Magie di FA Cup.


























L'Inghilterra è considerato il paese con la più famosa, bella e tradizionale coppa nazionale che, molto spesso, ha regalato sorprese uniche, grandi partite e replay storici. Secondo alcuni dati della Football Association, la FA Cup è il trofeo che, per almeno una volta, è stato vinto da quasi tutte le squadre di categorie differenti e città (o contee) differenti.
Una famosa cavalcata storica, in questo ambita competizione anglosassone, fu quella del Coventry City che, nella stagione 1986-87, alzò al cielo dell'Empire Stadium (Wembley).
Il Coventry City è un squadra di calcio originaria del distretto cittadino di Coventry, appunto, sito nelle West Middlands. Storicamente parte del Warwickshire, Coventry è la decima città più popolosa d'Inghilterra e la tredicesima dell'intero Regno Unito.
Il club calcistico fu fondato nel 1883 per diventare, nel 1892, un club professionistico a tutti gli effetti. La sua storia non è mai stata del tutto avvincente, ha spesso militato il categorie inferiori alla First Division (oggi Premier League) e vanta, nel suo palmares, un sola Coppa d' Inghilterra.
Questo articolo tratta proprio di quella corsa a quell'unico trofeo presente in bacheca degli “Sky Blues”.
Nella stagione calcistica 1986-87, il Coventry City militava nella First Division ma, ovviamente, non rientrava tra le favorite e, di fatto, concluse il campionato con uno scialbo decimo posto in classifica. Il club di Coventry, però, prese sul serio la FA Cup in quanto non lo riteneva un trofeo impossibile da vincere.
Al sorteggio del Terzo Turno di coppa d'Inghilterra, l'urna mise di fronte agli Sky Blues il Bolton Wanderers che, all'epoca, vacillava in fondo alla Terza Divisione. 
La vittoria al Highfield Road fu uno schiacciante 3-0 per il Coventry City.
Nel Quarto Turno, però, sembrava che tutto potesse svanire in quanto, il City, si trovò a dover affrontare un test molto importante in quel di Manchester, per la precisione ad Old Trafford. Davanti a sé non vi era un Manchester United grandioso (che oltretutto terminò la stagione sotto al Coventry) ma erano sempre i Red Devils. Il team del West Middlands, però, riuscì ad espugnare la tana dello United per 0-1.
Negli ottavi di finale vi fu la trasferta in casa del Stoke City dove, ancora una volta, il Coventry City vinse con un risultato di 0-1.
Ormai tutti i tifosi della cittadine credevano nell'impresa dei loro beniamini ed il sorteggio, per i quarti, diede un agguerrito Sheffield Wednesday che però venne schiacciato, in casa, da un Coventry City che vinse per 1-3. Dopo questa vittoria, c'era fiducia nei propri mezzi e il club ed i loro supporters credevano nella speranza di portare l'ambita FA Cup nelle West Middlands.
In semifinale, l'avversario fu un Leeds United che si trovava in Second Division ma, visto che si trovava in semifinale, non avrebbe ceduto di un centimetro agli assalti del Coventry. Si giocò ad Hillsborough. Passò in vantaggio il Leeds United con Ronnie ma poi vi fu una rimonta per 2-1 da parte del Coventry con le reti di Gynn ed Houchen ma, quando sembrava fatta, al 83esimo il Leeds United pareggiò con Edwards. Sarà il goal di Bennett ai tempi supplementari che permise l'accesso alla finalissima.
La finale fu giocata, ovviamente, a Wembley contro i londinesi del Tottenham Hotspurs che batterono, in semifinale il Watford.
L'Empire Stadium raccolse a sè ben 96.000 spettatori, l'arbitro di gara fu il mancuniano Neil Midgley che diede il fischio alle ore 15:00 del 16 Maggio 1987.
Alla prima azione buon per il Tottenham , la difesa del Coventry si fece trovare impreparata e, su un cross dalla destra di Waddle, Clave Allen bucò, di testa, la porta degli Sky Blues difesa da Ogrizovic. Questo, però, non abbattè il Coventry City che che reagì subito e, dopo soli sei minuti arrivò alla rete del pareggio grazie al solito Barnett. L'azione ebbe inizio da centrocampo, zone metà campo degli Spurs, e Greg Downs fece un lancio verso l'area di rigore avversaria, Houchen giocò di sponda e, un rapido Bernett, agganciò il pallone nei pressi dell'arietta piccola, smarcò il portiere avversario andando a rete. 1-1. Da lì il Coventry City prese coraggio e macinò molto gioco ed arrivò al goal anche con Regis ma venne subito annullato per presunto fallo da parte del numero 9 degli Sky Blues. Verso il terminare del primo tempo il portiere del Coventry Ogrizovic si avventurò fuori dall'area di rigore di competenza e, quando rinviò, colpì un giocatore del Tottenham rischiando di combinare la frittata visto che che poi i londinesi sprecarono l'occasione.
Al 40esimo, però, gli Spurs tornarono in vantaggio grazie ad un colpo di testa di Mabbutt. Anche qui il portiere del Coventry non fu incolpevole, visto che prima uscì poi tornò indietro tra i pali. Il primo tempo terminò così con il Tottenham in vantaggio. Nella ripresa si vide un Coventry City molto più agguerrito che lottava su ogni pallone e, al 62esimo, un cross dalla destra di Barnett attraversò l'area di rigore degli Spurs e sbucò indisturbato Houchen che, in tuffo di testa, concluse a rete per il goal del pareggio. Sugli spalti ci credevano i supporters degli Sky Blues mentre, in campo, il team allenato, all'epoca, da Sillett iniziò anche a giocare più duro mettendo sempre la gamba; clamoroso fu il contrasto, sul finire di gara, tra Klicline (Coventry City) e Mabbutt (Tottenham) dove, quest'ultimo, spiccò letteralmente il volo dopo il contrasto con l'avversario.

























Si andò ai supplementari ed entrambi i team volevano chiudere la pratica il prima possibile. A chiuderla è, al 95esimo, il Coventry City con la complicità del Tottenham. McGrath del Coventry si avventurò, sulla fascia di destra, in una corsa fino al fondo tentò un cross potente terra-aria che, però, venne intercettato da Mabbutt. Sfortuna, per il numero 6 del Tottenham, volle che la palla prendesse uno strano effetto e sorprese con una “palombella” il portiere degli Spurs: Clemence.
E' 3-2, è, goal, anzi autogoal, è Coventry City in vantaggio, è delirio sugli spalti (settore Coventry) dell'Empire Stadium di Wembley. Nel resto dei tempi supplementari, il Tottenham provò, come potè, a rimontare ma sbatteva con un muro celeste. Al momento del triplice fischio da parte di Midgley, lo stadio scoppiò in una festa tutta a tinte celesti, era fatta: il Coventry City conquistò il suo primo (unico a tutt'oggi) trofeo prestigioso. I tifosi Sky Blues erano al settimo cielo la festa continuò per giorni. Oggi, se si va a visitare il Museo dei Trasporti di Coventry, vi è esposto il bus Double-Decker con la quale il team sfilò per le strade della città del West Middlands
La FA Cup ha regalato, regala e regalerà sempre romantiche storie di calcio la magie ed il fascino che possiede è tutta raccolta in un'antica tradizione che non va mai snobbata, anzi, è da considerata, spesso, molto più importante di un campionato vinto, di una salvezza raggiunta o una qualificazione europea.
di Damiano Francesconi

26 settembre 2024

"GOD SAVE THE STADIUMS. Racconti, leggende e personaggi da 45 stadi del Regno Unito" di Cristiano Cinacchio (Urbone), 2023


Se si può facilmente sostenere che oggi la Premier League sia il campionato più bello, affascinante e seguito al mondo, ciò non è dovuto solo ai miliardi di pounds che finanziano ogni stagione il mondo del football d’Oltremanica. Molto è dovuto ai giocatori, ai personaggi ed alle leggende che ammantano la memoria storica delle squadre di questo paese. 
E gli stadi sono il luogo di collezione ideale di tutte queste figure.

Cristiano Cinacchio, dopo Il Diario delle Canchas Argentine e Bucarest – tra Football e Politica ci porta questa volta nel Regno Unito, a conoscere le storie narrate da 45 teatri calcistici, tra Inghilterra e Scozia. Un’opera che come sempre per l’autore vuole essere una via di mezzo tra un libro di storiografia calcistica e una guida sul groundhopping, tra storie di dirigenti, calciatori, leggende … ed una appassionata lettera d’amore calcistico ad un suo idolo d’infanzia che ci ha prematuramente lasciato ad inizio 2023.
Con la preghiera al Dio del Football che salvi i nostri catini dei sogni: God Save the Stadiums!

LA FARSA DI ALLY e L'EPICA DI ARCHIE. Una rievocazione della Scozia al Mondiale del ‘78.

























Il calcio può essere epica, poesia, commedia, tragedia oppure farsa. Generi diversi che in alcuni rari casi riescono a mescolarsi così profondamente da formare un tutt’uno difficile da scindere, e ancora meno da dimenticare. La prima volta della nazionale scozzese alla fase finale di un mondiale di calcio rappresenta uno degli esempi più eclatanti. 
Tutto iniziò da una frase pronunciata all’Hampden Park di Glasgow il 25 maggio del 1978: “Mi chiamo Ally MacLeod, e sono un vincente”.
Poi, tanto per aggiungere la classica ciliegina su una torta che tutti non vedevano l’ora di gustare, ecco una Promessa di quelle con la P maiuscola. “La Scozia vincerà la coppa del mondo”. 
E il tripudio fu totale. Quella sera si celebrava la partenza della Tartan Army verso l’Argentina, e nulla era stato lasciato al caso; almeno 20mila erano le persone accorse per applaudire i giocatori in parata a bordo di un bus a due piani dal tetto scoperto, pronti a salire a bordo del DC10 che li avrebbe condotti verso la Grande Impresa. Orgoglio era la parola chiave; orgoglio di rappresentare non solo la propria nazione ma anche l’intero Regno Unito, dal momento che Galles, Irlanda del Nord e Inghilterra si erano perse per strada lungo le qualificazioni. Gli inglesi avevano dovuto arrendersi alla differenza reti lasciando primo posto del girone, e il conseguente biglietto per l’Argentina, all’Italia, mentre gli irlandesi non avevano avuto scampo contro l’Olanda di Cruijff. A lasciare a casa il Galles ci avevano invece pensato direttamente gli uomini di MacLeod in un tiratissimo incontro disputato ad Anfield il 17 ottobre 1977.
La Federcalcio gallese aveva scelto Liverpool a scapito di Wrexham per fini puramente economici (Anfield poteva contenere 51mila spettatori, l’impianto della capitale gallese solo poco più di 15mila), azzerando così il fattore campo per quello che era una sorta di spareggio per il definitivo primato del girone (che come terza e ultima squadra comprendeva i campioni d’Europa in carica della Cecoslovacchia). Gli scozzesi ringraziarono e passarono all’incasso, anche se con più difficoltà del previsto, dal momento che ci volle un rigore molto dubbio (mani in area di Joey Jones, ostacolato però irregolarmente da Joe “Squalo” Jordan) fischiato a undici minuti dalla fine per spezzare l’equilibrio. Don Masson, centrocampista del Derby County, centrò il bersaglio, imitato una manciata di minuti dopo da Kenny Daglish con un bel colpo di testa in tuffo. Il sogno poteva avere inizio.

La parata dell’Hampden Park (con tanto di canzone scritta appositamente da un Rod Stewart per nulla timoroso di sprofondare nel ridicolo cantando versi quali “Ole ola, ole ola / we’re gonna bring that World Cup back from over tha”) fu fonte di lazzi e scherni da parte della stampa inglese, che accusarono i colleghi di essere semplici tifosi dotati di macchina da scrivere. Critiche senza dubbio dettate dalla gelosia di gente con la bile grossa come un melone in quanto costretti a guardarsi la competizione dal divano di casa propria; critiche che però nascondevano un fondo di verità ben evidenziato da quel tifoso che, in mezzo al tripudio di Croci di Sant’Andrea, si chiese se non era meglio imbastire celebrazioni dopo aver vinto il trofeo, e non prima. 
Il gruppo in cui era stata sorteggiata incitava però all’ottimismo; c’era l’Olanda del Calcio Totale ormai sul viale del tramonto, per di più senza Cruijff e Van Hanegem, c’era un Perù “accozzaglia di veterani e vecchie glorie” (così disse un membro dello staff tecnico di Ally MacLeod), e infine c’era un Iran già inopinatamente ribattezzato squadra materasso. Alla fase successiva si qualificano le prime due, ragion per cui l’agenzia di scommesse Ladbrokes azzardò una quota 8-1 per la Scozia campione del mondo.




















Il Sierras Hotel, piccolo complesso nella cittadina di Alta Gracia, fu l’alloggio scelto per gli scozzesi. Non era certo un Movenpick a cinque stelle, quanto piuttosto un tugurio con le camere da letto più simili a dormitori per homeless e una piscina in cui sguazzavano beatamente decina di blatte, il tutto condito dall’onnipresente presenza, al di fuori del perimetro dell’hotel, dei militari della giunta di Videla, grilletto facile e simpatia direttamente proporzionale al tasso di democrazia che regnava nel paese, e da una scossa tellurica che aveva interessato le colline circostanti, “la più forte registrata negli ultimi cinquant’anni”, almeno così scrisse la stampa locale. Circostanze malaugurati a parte, Macleod era già proiettato alla partita d’esordio contro il Perù, ma si rifiutò di andare a visionare un loro allenamento dal vivo in quanto, a suo dire, li conosceva già bene grazie a una mezza dozzina di videocassette recentemente visionate. E poi cosa c’era da temere da una squadra che molti giornali europei definivano alla stregua di un’armata brancaleone un po’ in avanti con gli anni? La risposta arrivò sabato 3 luglio 1978 allo stadio Chateau Carreras di Cordoba davanti a 37792 spettatori. La Scozia doveva rinunciare a buona parte della difesa titolare, con i due terzini Willie Donachie e Danny McGrain più il centrale Gordon McQueen fuori causa per infortunio. La scelta di Macleod cadde rispettivamente su Stuart Kennedy, Martin Buchan e Kenny Burns, con i primi due posizionati in un ruolo di fascia che non era il loro. In più lasciò in panchina il talento di Graeme Souness a favore dei polmoni dell’ormai stagionato Masson, l’eroe di Liverpool, escludendo anche il bomber dei Rangers Glasgow Derek Johnstone, che aveva appena chiuso la stagione con un bottino di 41 reti, per lasciar posto a Jordan. Una mossa quest’ultima che lasciò perplessi parecchi osservatori ma che, almeno inizialmente, diede i suoi frutti quando al minuto 19 proprio lo Squalo raccolse una respinta difettosa del portiere peruviano Ramon Quiroga su tiro di Bruce Rioch e portò in vantaggio la Tartan Army. Ma il Perù non era quella banda di sprovveduti che molti credevano; a centrocampo dettava legge Teofilo Cubillas, uno dei reduci del Mexico 70 ma tutt’altro che un talento in pensione (del resto aveva poi 29 anni), mentre sulle fasce Kennedy e Buchan arrancavano dietro i tacchetti di Oblitas e Munante, ali piccole e leggere tutte dribbling e scatti. Prima dell’intervallo Cueto aveva pareggiato la rete di Jordan, ma ciò che preoccupava di più i tifosi scozzesi sugli spalti era l’incapacità dei propri beniamini di prendere le misure agli scatenati peruviani. Un bandolo delle matassa che Macleod non aveva la minima idea di come sbrogliare, e infatti una volta rientrato negli spogliatoi le uniche parole che disse ai suoi esterrefatti giocatori fu di “calciare la palla più lontano e più forte possibile”. Al rientro in campo la Tartan Army tentò con una reazione d’orgoglio di invertire l’inerzia della partita, ma quel giorno la dea bendata aveva deciso di non accettare la corte degli uomini di Macleod, per cui il colpo di testa di Jordan finì sul palo e Masson si vide respingere un calcio di rigore da “El Loco” Quiroga. Poi iniziò il Cubillas show e per gli scozzesi fu notte fonda; doppietta del mago peruviano per il 3-1 finale e giocatori in maglia blu fuori dal campo a testa bassa, morale sotto i tacchi e il ricordo dei festeggiamenti dell’Hampden Park evaporato come se fosse lontano intere decadi piuttosto che poche settimane.
L’indomani Macleod ordinò alle proprie truppe di serrare le fila e di pensare esclusivamente alla prossima partita, avversario l’Iran. Pura illusione; subito dopo il fischio finale l’ala del West Bromwich Albion Willie Johnstone, uno dei pochi elementi positivi nella disfatta peruviana, venne sottoposto a un controllo antidoping a sorpresa risultando positivo a uno stimolante. Il giocatore ammise di aver preso il Reactivian, farmaco permesso dalla Federcalcio inglese ma vietato dalla Fifa. Scoppiò un polverone, che andò a sommarsi alle già copiose critiche provenienti da una stampa inglese che se la rideva sotto i baffi e a non meglio precisate accuse di sbronze e sesso a go-go nelle notti antecedenti la partita. Johnstone, ingenuo più che imbroglione, venne dato in pasto all’opinione pubblica dal segretario della Federcalcio scozzese Ernie Walker, che lo rispedì a casa su due piedi. Poi fu di nuovo calcio, e nuovamente di pessima fattura. Anche contro l’Iran gli scozzesi palesarono gravi carenze tattico-organizzative, trovando la rete del vantaggio solo grazie a una comica autorete del difensore Eskandarian. Nel secondo tempo arrivò però la rete del pareggio degli asiatici, triste anticipazione del coro di fischi e urla (“ridateci i nostri soldi” il refrain più gettonato) che piombarono dalle gradinate occupate dai tifosi della Tartan Army. Si era decisamente lontani dal concetto di cavalcata verso la coppa espresso alla vigilia. Il giorno seguente alla conferenza stampa ad Alta Gracia l'atmosfera era plumbea, anche se Macleod tentò di rasserenarla avvicinandosi a un cane e cominciando ad accarezzarlo. "Almeno è rimasto questo cane a volermi bene", disse. La bestia si girò di scatto e gli morse il dito.
Il terzo e ultimo atto del girone eliminatorio prevedeva l'Olanda, che aveva vinto contro l'Iran e pareggiato con il Perù portandosi il testa al gruppo. Per qualificarsi alla fase successiva gli scozzesi dovevano battere i tulipani con almeno tre reti di scarto. Il teatro non era più il Chateau Carreras di Cordoba bensì il San Martin di Mendoza, città ai piedi delle Ande. Macleod, ai minimi storici in termini di popolarità, scese un ulteriore scalino verso il fondo accettando un'offerta di 25mila sterline da parte dello Scottish Daily Express (giornale che al termine del pareggio con l'Iran, tanto per dare le giuste proporzioni al disastro, era uscito con il titolo “The end of the world”) per un'intervista esclusiva, quando fino al giorno prima la linea adottata era quella di parlare con tutti i giornalisti senza favoritismi di sorta. Il tecnico decise però di cambiare le proprie abitudini anche riguardo l’undici titolare, schierando in campo Greame Souness fin dal primo minuto. Con un stadio per due terzi dalla propria parte (i neutrali erano tutti per gli scozzesi) Souness e compagni cominciarono ad attaccare a testa bassa; se fallimento doveva essere, almeno sarebbe arrivato senza perdere la dignità. Ma la prima rete a gonfiarsi fu proprio quella difesa da Alan Rough, battuto al minuto 34 da un calcio di rigore di Rob Rensenbrink per quello che era il gol numero 1000 nella storia della Coppa del Mondo. Sotto il cumulo di cenere dove si trovavano sepolti i sogni di gloria della Scozia ardevano però ancora diversi tizzoni, i cui nomi rispondevano a quelli di Greame Souness, Kenny Daglish (fino a quel momento deludente) e Archie Gemmill. L'1-1 partì proprio dai piedi del primo, il cui cross venne girato di testa da Jordan verso Daglish, che con una terrificante botta al volo ristabilì la parità. A inizio ripresa Willy van der Kerkhoff stese l'incontenibile Souness in area, e Gemmil trasformò il penalty del vantaggio. Gli olandesi, perso per infortunio il proprio motore di centrocampo, Johan Neeskens, tentennavano e arretravano di fronte alla ritrovata carica scozzese, con un Macleod risorto a vita nuova in panchina che si sbracciava incitando costantemente i suoi uomini. Al minuto 68, con la Scozia di nuovo in attacco, tre difensori olandesi accerchiarono Daglish sottraendogli la palla, che però finì sui piedi di Gemmill al limite dell'area. Fu l’inizio dell’Archie show; un primo dribbling su Wim Jansen, un secondo su Ruud Krol e un terzo su Jan Poortvliet prima di scagliare un rasoterra all’angolino imprendibile per il numero uno degli oranje Jan Jongbloed. Un gol fantastico, eletto poco tempo dopo il più bello di tutto il Mondiale, sicuramente uno dei migliori nella storia della Tartan Army. La Scozia cominciò a intravedere la luce alla fina del tunnel, dopotutto alla grande impresa mancava solo una rete. Che arrivò 4 minuti più tardi, ma nella porta sbagliata. Fu ancora una volta un gran gol, ma lo segnò Johnny Rep con una bordata dalla trequarti che non lasciò scampo a Rough. Fine del sogno, per la vittoria della coppa del mondo si prega di ripassare prossimamente.
Sull’avventura scozzese al Mondiale del 1978 sono stati versati fiumi di inchiostro, ma non solo; a distanza di vent’anni il Fringe Festival di Edimburgo è stato aperto con due film dedicati all’evento, il primo, The Game, incentrato sui tifosi che avevano sofferto da casa per i propri beniamini impegnati oltreoceano, il secondo, Argentina 78 – The Director’s Cut, maggiormente focalizzato sugli eventi calcistici, senza dimenticare una buona dose di ironia (non poté quindi mancare la più gettonata barzelletta scozzese post-Mondiale su Micky Mouse che girava per le strade di Glasgow con al polso un orologio raffigurante Macleod). Il momento mai dimenticato è però quello della rete di Gemmill, citata dal film Trainspotting (nella scena della camera da letto) ma soprattutto al centro di una ballata scritta dal poeta Alastair Mackie dal titolo The Nutmeg Suite. Versi che meritano di essere riproposti:
di Alec Cordolcini, da UKFP (dicembre 2007)

25 settembre 2024

BACK TO THE "SIXTIES" - Football League Review.

Dopo alcuni pezzi dedicati agli stadi torno a proporre uno scritto dedicato alla Golden Age del football andando a scoprire la “Football League Review”
Durante la stagione 65/66 il Management Committee della Football League diede il via ad un esperimento commerciale. Rilevarono la pubblicazione “Soccer Review” allora usata da 34 clubs di Football League come un extra per il club programme, la trasformarono in “Football League Review” e decisero di investirvi sia graficamente sia a livello di contenuti in modo di fare si che nel giro di 2/3 anni tutte le squadre di F.L. l’avrebbero accolta nel proprio programme. La Football League infatti voleva dare vita ad un mezzo che arrivasse a più tifosi possibili, dove si spiegavano i programmi, le idee, le attività dell’organo calcistico oltre a coinvolgere gli appassionati con varie rubriche.
La rivista, che tanti collezionisti avranno trovato all’interno di molti programmi tra il 1966 ed il 1975, migliorò anno dopo anno aumentando le rubriche, la grafica, i servizi ed il colore. Punti fissi erano gli articoli dedicati ad arbitri, managers, giocatori ma anche al “tifoso della settimana” o alla visita ad un club (la rubrica si chiamava “Club call”) con presentazione del board, dello stadio, storia dello stemma. La posta dei lettori (rubrica “Post bag”) arrivò a ricevere migliaia di lettere settimanalmente mentre rubriche fisse come “League view” o “Editor’s view” alternavano prestigiose firme con articoli e commenti dei Directors della federazione. Dalla fine della stagione 66/67 il giornalista Bryon Butler (autore di molti libri sul football) iniziò a scrivervi regolarmente, la copertina divenne a colori ed all’interno aumentarono le foto di squadre o giocatori.
Proprio il materiale fotografico fu un cavallo di battaglia della “F.L.R.” che assegnò il compito di fotoreporter a colui che ritengo un genio della fotografia calcistica ovvero Peter Robinson (autore del meraviglioso volume “Football days” che raccoglie immagini di 30 anni della sua carriera). Robinson girava in lungo ed in largo l’Inghilterra catturando immagini dentro e fuori gli stadi con una originalità ed una innovazione unica per quei tempi; le squadre venivano immortalate sedute in tribuna o negli spogliatoi invece che sulla tradizionale panca, i managers mentre palleggiavano o mentre giocavano a golf invece che rigidi con le braccia conserte. Non mancavano gli scatti dedicati a fasi di gioco o ai singoli giocatori ma anche i tifosi con Robinson diventavano protagonisti meritando curiose immagini così come i “Bobbies” in servizio o i raccattapalle. Il pubblico era affascinato dalla veste grafica e le foto delle squadre, sia che fossero in 3a o 4a copertina che nella pagina centrale, venivano collezionate come mini posters. La F.L. vendeva la rivista ai clubs a prezzo di costo e copriva le altre uscite grazie alle aziende che vi facevano pubblicità come Park Drive, Player’s, Woodbine, Wills per sigari e sigarette, Ford UK e Vauxhall automobili, Bell’s whisky, Watney e Double Diamond birre, Texaco ed Esso, Gillette e Wilkinson. 
Durante il periodo di massimo splendore la “F.L.R.” riuscì a collaborare con una ottantina di clubs e si stima che i lettori regolari superassero i 300.000.
All’inizio della stagione 1971/72 cambiò il nome in “League Football” pur mantenendo impostazione contenuti della precedente testata ma già dalla stagione successiva si iniziarono a sentire i sintomi di una certa “stanchezza” che porterà la rivista a chiudere nel 1975 la collaborazione con i clubs che ancora la ospitavano. Le cause principali furono un sostanziale calo degli sponsors, l’inizio della diffusione di programmi di varie dimensioni tipico della prima metà dei 70’s (ricordate l’effimera, per fortuna, moda dei progs tipo tabloids lanciata dal Derby County?) e quindi non più capaci di ospitare all’interno la “F.L.R.”, la diffusione di varie riviste sul football. Resta comunque un bel pezzo di memorabilia (ne posseggo un centinaio), discretamente reperibile, il costo è quello dei programmes del periodo o anche meno se ci si imbatte in blocchi e personalmente la ritengo validissima soprattutto per le foto a colori di squadre, giocatori, stadi, protagonisti vari eseguite da quel genio di Robinson.
di Gianluca Ottone, da UKFP (dicembre 2005)
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