31 gennaio 2025

SIR HENRY NORRIS. Un tipo losco, ma innovatore

Nel 1910 una grave crisi finanziaria colpì le società di calcio inglese.
Il Woolwich Arsenal era tra quelle più colpite, anche perché il club, nato nella zona di Plumstead, periferia meridionale di Londra, non aveva a disposizione un bacino d’utenza abbastanza ricco per attirare nuovi tifosi e riempire lo stadio. Gli incassi al botteghino continuavano a diminuire, tanto che la media al Manor Ground si aggirava intorno alle 11mila unità. Il Woolwich Arsenal fu allora messo in liquidazione volontaria. Le cessioni dei giocatori più forti rappresentò l’unica soluzione per rimanere a galla. Bert Freeman, Tim Coleman e Ashcroft furono venduti per fare cassa. Poi ci fu l’avvento del magnate Sir Henry Norris, un ricco commerciante già presidente del Fulham, che insieme a una cordata di uomini d’affari salvò il club e ne divenne presidente.
Sir Norris, che successe a George Leavey alla presidenza del Woolwich Arsenal, cercò subito di migliorare gli introiti del club, tuttavia la collocazione geografica rimase uno dei problemi più rilevanti. Ci si mise allora in cerca di siti dove poter costruire la nuova casa, il nuovo stadio.
Per poco Norris non riuscì a fondere il Woolwich Arsenal con il Fulham. Fortuna volle che non riuscì nell’intento, poiché l’operazione fu fermata dalla Football League. Ma l’idea di un trasferimento in un’altra zona di Londra oramai era più di un progetto. Norris riuscì ad acquistare un sito nella zona di Highbury, nel nord della città, su un terreno del college di teologia di St.John. Nonostante le ostruzioni dei tifosi di Woolwich e le contestazioni dei residenti di Highbury, nonché di alcune squadre “vicine” come il Tottenham FC, il presidente riuscì con tenacia nel suo intento. Per la costruzione del nuovo stadio alcuni documenti riportano una spesa finale di 125mila sterline. L’arena fu disegnata dall’architetto Archibald Leitch e venne costruito con un design simile a molti altri stadi dell’epoca: una sola tribuna coperta (la East End) e grandi terraces tutto intorno. Un accordo curioso fu raggiunto con il Borough della zona: l’Arsenal non avrebbe mai dovuto giocare in casa il giorno di Natale e il venerdì di Pasqua. Questa clausola fu tolta solo dodici anni dopo, nel 1925.

Il Woolwich Arsenal nel 1912/13 ebbe la peggiore stagione di sempre secondo gli storici dell’Arsenal. Retrocesse in Seconda Divisione, classificandosi ultima e vincendo solo tre partite delle 38 disputate. Non proprio il migliore dei modi per rendere omaggio al nuovo impianto. Nel 1913/14 l’inaugurazione di Highbury avvenne il 6 settembre del 1913, l’occasione fu la prima partita del campionato di seconda divisione contro il Leicester Fosse, vinta dall’Arsenal per 2-1. Circa 20.000 spettatori assisterono alla partita, la maggior parte provenienti da sud-est di Londra, gli stessi che rimasero senza parole dopo che l’attaccante inglese del Leicester Fosse, Tommy Banfield mise la palla alle spalle del portiere dei londinesi Lievesley. Banfield cosi fu il primo giocatore a segnare nel leggendario Highbury. Purtroppo il futuro per lui non fu roseo, visto che morì nel settembre del 1918 in guerra colpito da un cecchino su un campo di battaglia francese. A fine primo tempo l’attaccante George Jobey (un “geordie” acquistato l’anno precedente dal Newcastle) pareggiò e segnò il primo gol dell’Arsenal nel nuovo stadio, rimanendo per sempre nella storia del club, sul punteggio di 1-1 nella ripresa s’infortunò subito Jobey che, costretto ad uscire in barella, lasciò la sua squadra in 10 per quasi tutto il secondo tempo (allora non erano ancora ammesse sostituzioni). Nonostante questo Archibald Devine riuscì a segnare il 2-1 e a regalare la prima vittoria dell’Arsenal nella nuova casa. Highbury quel giorno iniziò la sua leggenda. Il trasferimento nel nuovo impianto fece salire parecchio le presenze alle partite, tanto che la media spettatori si attestò a 23mila.
Nell’aprile del 1914, Sir Norris e la dirigenza presero un’altra decisione fondamentale nella storia del club, cancellarono il nome “Woolwich” lasciando ufficialmente solo Arsenal.
La stagione 1914/15 prima dell’inizio della Grande Guerra si chiuse con un sesto posto che diventò per un errore di calcolo un quinto posto, errore a cui la Football League pose rimedio solo nel 1975.
Terminata la guerra, in tutto il paese si cercò di tornare al più presto alla normalità. Nel 1919 la rivalità con i “vicini” del Tottenham diventò l’odio che si manifesta ancora ai giorni nostri. La Football League decise che la partecipazione al primo campionato post bellico doveva aumentare da 20 a 22 squadre, quindi si dovevano decidere le due compagini “extra” che sarebbero rimaste nel massimo campionato, il Chelsea era una di queste, perché classificatosi al 19° posto (e quindi retrocesso). La seconda a sorpresa fu l’Arsenal, a discapito degli Spurs che nell’ultimo campionato prima della guerra si erano piazzati al 20° posto. In alternativa dovevano salire in First Division il Barnsley o il Wolverhampton, terzi e quarti in classifica nella serie cadetta, ma di certo non i Gunners che in Second Division si erano piazzati quinti. La Lega prese la controversa decisione durante il meeting annuale della Football League e promosse l’Arsenal in prima divisione per il lungo servizio reso al calcio inglese, poiché era stata la prima squadra del Sud d’Inghilterra ad iscriversi al campionato. L’esecutivo della lega si espresse con 18 voti a favore e 8 contrari. I buoni uffici e le conoscenze del Presidente Norris (che nel frattempo era diventato anche Sindaco del Borough di Fulham), permisero l’impossibile, molti insinuarono che questa decisione fu presa grazie ad accordi sotterranei, alcuni ipotizzarono anche un tentativo di corruzione da parte di Norris aiutato dall’amico John Kenna, presidente del Liverpool. Niente fu mai provato, anche se parecchie operazioni finanziarie di Sir Norris furono sempre sospettate di non essere proprio regolari.

In First Division la vita non fu subito semplice, anzi. Mai sopra il nono posto, nel 1924/25 l’Arsenal si piazzò 20° (l’anno prima era arrivato 19°) sfiorando la retrocessione.
Per il Presidente Sir Norris fu abbastanza. I miglioramenti e le vittorie richieste non solo non ci furono ma addirittura si rischiò per due volte la retrocessione. A pagare, come al solito, fu il tecnico Leslie Knighton. Al suo posto fu ingaggiato il manager Herbert Chapman dall’Hudderfield Town. Un vincente, reduce da due trionfi in campionato nelle due stagioni di passione dell’Arsenal. Ma soprattutto un uomo innovativo, che portò le vittorie che ancora oggi hanno reso famoso l’Arsenal nel mondo grazie ad alchimie tattiche che meriterebbero un articolo a parte.

Il 1933/34 sarebbe stata storicamente importante per l’Arsenal nel bene e nel male. Il 3 gennaio 1934 il manager Herbert Chapman morì improvvisamente di polmonite, che aveva preso nella ventosa Guildford dove si era recato alcuni giorni prima per assistere ad un match delle giovanili, nonostante il divieto del medico del club il Dott, Guy Pepper per il forte raffreddore che aveva. Lui imperterrito aveva cos’ commentato: “devo andare è una settimana che non vedo i ragazzi”. La sua ultima partita sulla panchina dell’Arsenal era stata ad Highbury contro il Birmingham City, gara finita 0-0.
Il 30 luglio del 1934, a soli sette mesi di distanza, un’altra brutta notizia accoglie la società e tutti i tifosi dell’Arsenal: la morte di Sir Henry Norris a 69 anni per un infarto nella sua casa di Barnet, un grande presidente, forse anche "traffichino", che fece grande l’Arsenal, e che lasciò una grande eredità alla storia.
di Max Troiani

30 gennaio 2025

"L'ESTATE DELL'85" di Fabio Del Secco (Art Libri), 2023

Fabio nasce a Firenze il 05/09/1969 ed entra in contatto per la prima volta col Subbuteo nel Natale del '77 allorche' una Continental Club Edition inaugura la presenza nella sua vita di quello che tutt'ora ama definire "il vecchio amico". Dopo una pausa di trent'anni ritrova inaspettatamente il Subbuteo nel Gennaio del 2019 e da li in poi non se ne separa più. Il resto e' Diario di una vecchia passione.

Il libro è parzialmente autobiografico ma nella misura in cui prende in considerazione i momenti in cui il Subbuteo è stato presente nella mia vita, racconta di come tutto è cominciato, passando attraverso quel giorno dell'estate del 1985 per arrivare a quella che oggi è la mia quotidianità con questo vecchio amico ritrovato. C'è una corposa parte dedicata a spiegare e sdoganare il Solo Playing, cercando di sviscerarne le implicazioni più intime e più recondite, e poi una riflessione sul Subbuteo in generale, con uno sguardo al passato ed uno al futuro.
La seconda parte è una versione inedita dei Tutorials per il Solo Playing (l'impianto normativo e regolamentare resta ovviamente quello del pdf e dei video già pubblicati), ma con tante integrazioni, qualche variazione e qualche aggiunta, frutto delle tante ore di sperimentazione sul campo e del costante confronto con altri Solo Players. Materiale fotografico completamente inedito, di qualità sicuramente superiore a quello presente nel pdf pubblicato in questi anni, ed indubbiamente molto più esplicativo dei concetti espressi in ogni capitolo dei Tutorials. https://artlibri.it

BERT TRAUTMANN. Ehi Fritz, vuoi una tazza di tè?

“Hello Fritz, fancy a cup of tea?”
Con questa frase, puntandogli un fucile contro, un soldato britannico, durante la seconda guerra mondiale, cattura un paracadutista della Luftwaffe: in quel momento ha inizio la leggenda di Bert Trautmann. Questa è la sua storia:
Carl Bernhard Trautmann nasce a Brema negli anni venti, periodo in cui la Germania conosce la miseria più nera, che prelude all’affermazione del nazismo; a soli 17 anni il ragazzo, già componente della gioventù hitleriana, si arruola come paracadutista nella Luftwaffe e partecipa alla seconda guerra mondiale. 
L’avventura militare del soldato Trautmann è tutto un programma: sopravvive, uno dei pochi, al bombardamento di Kleve, sopravvive all’esplosione ravvicinata di una bomba a mano, viene catturato nell’ordine da russi e partigiani francesi ed in entrambi casi scappa; viene catturato nel 1945 dai soldati americani e condannato alla fucilazione, riesce a scappare ancora una volta e dopo varie peripezie viene intercettato dai militari inglesi che lo rinchiudono nel campo di prigionia di Ashton nel Lancanshire. Qui a fine l’avventura del soldato Trautmann e comincia la leggenda del calciatore. 
Nel campo di Ashton, il prigioniero tedesco comincia a giocare nelle gare fra detenuti e si mette in luce come centrocampista, ruolo in cui giocava fin da piccolo; poi un giorno il caso volle che durante una gara venne a mancare il portiere e Bert occupò quel posto: da quel momento iniziò la carriera del primo e più grande portiere tedesco che abbia mai calcato i campi inglesi. Alla fine del conflitto mondiale Trautmann decide di rimanere in Inghilterra e comincia a giocare con il St. Helens Town e da qui viene notato dagli osservatori del Manchester City che gli offrono un contratto. Bert accetta, è il 1949, e nella città di Manchester si scatena un putiferio. Le ferite della seconda guerra mondiale sanguinano ancora e l’opinione pubblica inglese non vede di buon occhio un portiere tedesco per di più ex militare. Fu così organizzata una marcia di protesta per impedire che il Manchester City tesserasse Trautmann, vi parteciparono oltre 40.000 persone, ma fortunatamente i dirigenti dei blues tirarono dritto, e fecero bene: avevano trovato un magnifico portiere. 
Gli esordi di Bert con la maglia del City non furono facili, anche perchè doveva sostituire Frank Swift, amatissimo portiere blues dell’epoca; ma alla fine a forza di grandi prestazioni Trautmann convinse tutti e difese la porta del City dal 1949 al 1964, quindici anni di onorata carriera e 545 presenze tra campionato e coppe. Proprio una partita di coppa trasforma Trautmann in leggenda. 5 maggio 1956: a Wembley è in corso la finale della F.A. Cup fra Manchester City e Birmingham City, a 17 minuti dalla fine i mancuniani sono in vantaggio per 2 a 1 quando nella loro area di rigore entra la punta del Birmingham Peter Murphy e Trautmann esce dalla porta e si tuffa tra i suoi piedi; lo scontro è terribile, il portiere perde i sensi ma con il pallone tra le mani. Sgomento tra la folla, si pensa al peggio, ma Trautmann dopo alcuni minuti si riprende e decide di concludere la gara (all’epoca non esisteva il secondo portiere), compie due grandi salvataggi e continua a massaggiarsi il collo colpito nello scontro. Alla fine il Manchester City vince la coppa battendo il Birmingham 3 a 1; nel dopo gara Bert non si sente troppo bene, i medici dispongono degli accertamenti e ci si accorge che la seconda delle 5 vertebre fratturate si è spezzata in due, il portiere era rimasto vivo per puro miracolo (una cosa non nuova nella sua avventurosa vita), insomma aveva terminato la finale di coppa con il collo rotto.
Questo motivo, unito alla vittoria di coppa e alla lunga militanza nella squadra dei blues gli ha conferito tra i tifosi del Manchester City lo status di leggenda e fino a qualche tempo fa nei dintorni del vecchio Maine Road era possibile acquistare una fanzine interamente a lui dedicata. Nel 1964 al suo testimonial game lo saluteranno oltre 60.000 tifosi. 

Oggi Bert ultraottantenne, dopo aver lavorato per la Federazione Tedesca come osservatore in Africa ed Asia, vive con la sua seconda moglie nel litorale spagnolo vicino Valencia e recentemente è stato insignito dalla Regina d’Inghilterra dell’Ordine dell’Impero Britannico, per aver contribuito con il suo esempio di uomo sportivo e coraggioso alla riconciliazione post-bellica anglo-tedesca. Oggi l’arzillo vecchietto che Bobby Charlton definì come il miglior portiere degli anni ’50, dice del mondo del calcio: “Non guardo programmi sportivi, trasmettono solo i gol, e nessun portiere fa bella figura se lo si guarda mentre gli segnano un goal. FANTASTICO BERT!!!!
di Charlie Del Buono, da "UK Football please"

29 gennaio 2025

WYN DAVIES. Il gallese volante del Newcastle



Delle tante storie che rendono unica la tradizione del Newcastle, quella di Wyn Davies non è proprio da ‘prima pagina’. Eppure mi ha sempre colpito per l’incrocio ‘magico’ fra il suo calcio offensivo operaio e fisico e una delle stagioni più gloriose del club, i cosiddetti ‘anni europei’. Wyn Davies non è stato un ‘numero 9’ tipico nella tradizione del Newcastle. Non ha segnato gol a grappoli come Gallagher, Milburn o Shearer né ha incantato le folle con i suoi colpi di genio come alcuni dei suoi predecessori e successori. Spesso nei suoi cinque anni al St. James Park è stato anche aspramente criticato, ma nonostante tutto ha lasciato un segno indelebile nella storia del club; con la sua personalità, la sua forza aerea, e soprattutto con la firma sull’ultimo grande trionfo del Newcastle, la Coppa delle Fiere del 1969.

Proprio in quell’anno, nel corso di un’intervista, Ivor Broadis (ricordate l’amico di Tom Finney in ‘quel’ ritiro della nazionale inglese?) lo descrisse così: ‘se si potessero avvitare dei tacchetti sulla sua testa, sarebbe un nuovo George Best’. Paradossale ma incisivo nel sottolineare la straordinaria capacità nel gioco aereo, stridente contrasto con la (stentata) sufficienza con i piedi. Davies arrivò a Newcastle nell’autunno del 1966, al termine di una saga protrattasi per oltre un anno. Il centravanti del Bolton (con cui realizzò 74 gol in 170 partite) aveva infatti attirato l’attenzione del manager dei Magpies, Joe Harvey, già nell’estate del 1965. Il trasferimento saltò all’ultimo minuto, ma Harvey non cancellò l’appunto dalla sua agenda, e dopo aver evitato di poco la retrocessione, al termine della stagione successiva tornò alla carica. La trattativa si era intanto complicata, perché Davies continuava a segnare ed altri club (Arsenal, Sheffield Wednesday e Sunderland) avevano fatto offerte. La cosa si trascinò ben oltre l’inizio della stagione, e nel frattempo il gallese andò a segno 12 volte nelle prime 12 uscite.

Alla fine Harvey ebbe il suo uomo, sborsando la cifra di 80.000 sterline, quasi il doppio del precedente acquisto-record del Newcastle. Un attimo ancora di esitazione e probabilmente sarebbe saltato tutto; poco dopo la firma, infatti, sul tavolo di Davies arrivò l’offerta del Manchester City di Joe Mercer, che dalla sua aveva la vicinanza della città a Bolton e al Galles, dove il centravanti manteneva tutti gli interessi personali e familiari.
Ma ormai il dado era tratto, e Davies arrivò al St. James Park per iniziare la nuova avventura con un severo taglio a spazzola, un cappotto di pelliccia e le scarpette in mano. Schivo e riservato, si trovò letteralmente investito da un’ondata di giornalisti, telecamere, centinaia di tifosi e ragazzini in cerca di autografi, assaggio della passione unica con cui si viveva i calcio sul Tyneside. Volevano farne la prima superstar dell’era del calcio televisivo, ma Davies non era l’uomo giusto; ritroso, spesso solitario e difficile da capire anche per i compagni di squadra, il gallese era il prototipo dell’antidivo. Per un protagonista adeguato, Newcastle avrebbe dovuto attendere ancora qualche anno e l’arrivo da Londra di Malcolm MacDonald.
Davies esordì il giorno dopo essere arrivato, peraltro nella prestigiosa occasione del derby casalingo contro il Sunderland, e non senza prima aver rischiato il ‘rapimento’ goliardico da parte di un gruppo di studenti universitari, sventato nascondendosi per tutto il giorno in casa di uno dei dirigenti del club. A parte gli aspetti di contorno, Davies si rimboccò subito le maniche per raddrizzare una baracca pericolosamente vicina alla zona retrocessione. Fisicamente poderoso, era a proprio agio nell’area di rigore, dove scambiava senza paura colpi proibiti con i difensori, spesso incapaci di contrastarne regolarmente lo strapotere fisico. Insuperabile di testa, riusciva a rimanere sospeso per aria una frazione di secondo in più del suo marcatore, prendendogli spesso il tempo e lo spazio dell’intervento. Con la palla a terra Davies diventava un giocatore normale, ma con gli anni aveva imparato a sfruttare comunque le sue doti fisiche, offrendosi costantemente come boa avanzata del gioco e punto di riferimento per i compagni. Harvey modellò progressivamente il gioco della squadra alla nuova risorsa offensiva, utilizzando sempre di più le palle lunghe a trovare la testa di Davies. 
A volte arrivavano conclusioni dirette, molto più spesso il tocco del centravanti apriva spazi per i compagni di reparto, Bennett prima e Pop Robson negli anni successivi. Un vero e proprio schema, che non fruttava però a Davies un ritorno realizzativo proporzionale alla mole di lavoro svolta per la squadra. Nella prima stagione segnò 9 reti in 30 partite, nella seconda 12 in 40 uscite. Di qui le critiche spesso ingenerose di chi era abituato ad associare al numero 9 del Newcastle decine di gol a stagione. Il vero impatto di Davies fu però evidente quando i Magpies approcciarono le loro prime esperienze continentali. Dopo il match contro il Real Saragozza, per esempio, Pop Robson riferì dello stupore del fortissimo difensore spagnolo Santamaria quando, al primo spiovente, Davies saltò mezzo metro più in alto di lui e praticamente lo oscurò con la sua mole in volo. Con grande onestà Lord Westwood, chairman del Newcastle di quegli anni, affermò che senza Wyn Davies non avrebbero mai vinto la Coppa delle Fiere. In Europa Wyn trovò terreno fertile, realizzando 10 gol in 24 partite; protagonista di duelli fisici epici con i difensori continentali, pagò la sua irruenza con diversi punti di sutura, gomitate, una frattura dello zigomo, la rottura del setto nasale, spesso senza alcuna protezione da parte degli arbitri.

Esaurita l’esperienza europea del Newcastle, cominciarono nuovamente i problemi. Qualche infortunio di troppo e la prevedibilità del gioco del Newcastle che indusse Harvey a ricercare nuove soluzioni emarginarono progressivamente Wyn the Leap. Nell’estate del 1971 arrivò così la cessione al Manchester City, per la somma di 52.000 sterline; Davies chiuse la sua esperienza al St. James Park con 216 partite e 53 gol. Pur continuando ad impaurire le difese con la sua potenza aerea, Davies non riuscì più a replicare la forma degli anni trascorsi a Bolton e Newcastle. Dopo una sola stagione al Maine Road si trasferì ai rivali del Manchester United, e nel 1973 al Blackpool. Anche a Bloomfield Road rimase poco, prendendo la via del sud verso Crystal Palace, Stockport e Crewe, dove chiuse la carriera nel 1978, dopo quasi 700 partite ufficiali e 200 gol al suo attivo. Una carriera iniziata nel 1960 con il Wrexham, dopo la gavetta del calcio amatoriale gallese. Seguito dagli osservatori di diverse squadre importanti, fu il Bolton a fare la prima mossa e lo portò a Burnden Park nel 1962. Il resto è storia, così come le 34 presenze con la nazionale maggiore gallese, dopo aver vestito tutte le maglie giovanili. Non un fenomeno, quindi, ma un giocatore onesto, determinato ed efficace, uno che al St. James Park ha lasciato un segno importante fra i tifosi, che cantavano per lui ‘You’ve not seen nothing like the Mighty Win’, non avete mai visto niente come il meraviglioso Wyn, il Gallese Volante.
di Giacomo Mallano, da "UK Football please"

28 gennaio 2025

"FUORIGIOCO, La mia vita con l'alcol" di Tony Adams (Baldini & Castoldi), 2001

Uno sportivo con un terribile segreto: Tony Adams, vincitore di scudetti e coppe, giocatore coraggioso e professionista esemplare, è stato per più di dieci anni un alcolista. Non un buon bevitore, ma un uomo afflitto da una pericolosa dipendenza. Anzi, da due, forti e diverse. La prima, la sua passione assoluta per il gioco del calcio, lo ha portato a vincere sui campi più famosi del mondo e a diventare una figura pubblica di successo. 
La seconda, l'alcolismo, lo ha lentamente minato, allontanato dagli affetti e portato vicino al baratro. Questa bellissima autobiografia racconta di un uomo nudo di fronte alla verità, capace di raccontarsi senza pudori, estremo e dignitoso al tempo stesso. Un uomo che ha toccato il fondo (carcere compreso) ed è stato capace di chiedere aiuto e ricominciare da capo. Una lunga confessione con cui Adams ha guadagnato il rispetto di moltissimi lettori, anche di quelli che con il calcio hanno poca confidenza.

BILLY BIRRELL ed il Chelsea

C'è un uomo legato alle sorti del Chelsea, che più di ottanta anni fa, con le sue idee, ha cambiato radicalmente il destino di questo Club. William Billy Birrell è stata davvero una figura importante per i londinesi.

Da calciatore ha giocato con Raith Rovers e Middlesbrough, vincendo con quest'ultimo la Second Division nel 1927, stesso anno del suo ritiro. In seguito, divenne allenatore del Raith Rovers stesso, per poi spostarsi sulla panchina del Bournemouth nel 1930 e su quella del Queens Park Rangers nel 1935. Dopo aver conseguito nel 1938 un terzo posto nella Terza Division Sud col QPR, venne ingaggiato nel 1939 dal Chelsea, sostituendo Leslie Knighton, dove rimase fin dopo la Seconda guerra mondiale. Alla guida dei "Blues" si è piazzò costantemente nelle posizioni di metà classifica di First Division, rischiando però la retrocessione in Second Division nel 1951. Nonostante ciò, condusse la squadra a due semifinali di FA Cup ( 1950 e 1952 ), perdendole entrambe contro l'Arsenal. Si dimise dall'incarico di allenatore proprio in seguito a questa ultima sconfitta. Dopo il suo ritiro dal ruolo di manager, per molto tempo supportò economicamente il settore giovanile della squadra con molteplici donazioni, visti gli enormi dividendi da pagare.

Il quarantaduenne scozzese che pipa in bocca arrivò a "Stamford Bridge" il 19/4/1939 si portava dietro la reputazione di uno dei manager più scaltri e capaci nel mondo del calcio, uno dei primi introduttori delle lavagna tattiche negli spogliatoi. 
Personaggio senza fronzoli, rimosse i tre allenatori in carica, inclusi i fedeli ex giocatori Jack Whitley e Jack Harrow e costruì una nuova fisionomia di squadra, evitando i massivi trasferimenti di calciatori avvenuti in passato. Il suo più grande proponimento era di estendere alla prima squadra gli schemi tattici utilizzati dalle rappresentative giovanili del Chelsea, arricchendoli di un livello tecnico superiore. Per implementare questo modello, avrebbe dovuto aspettare la tragica sfuriata della Seconda guerra mondiale, con tutte le becere conseguenze avute sulla nazione. In seguito a ciò, nonostante il calcio avesse subito una riduzione della sua attività e la logica "regionalizzazione" dello svolgersi, Birrell si distinse per la sua spiccata intraprendenza. 

Portò i "Pensioners" a due finali consecutive di Football League South Cup nel 1944 e nel 1945, battendo 2-0 il Milwall in questa ultima occasione, al maestoso cospetto di ben 90.000 spettatori, inclusa la futura, inossidabile Regina Elisabetta. Durante il duro periodo bellico Birrell ebbe persino il coraggio di disinnescare da solo un ordigno bellico caduto su un terrazzo ! In tempo di pace il suo programma giovanile modernista, soprannominato "Tudor Rose", iniziato nel 1948, avrebbe dato frutti più avanti. Pragmaticamente cercò di recuperare entusiasmo favorendo l'acquisto di grandi nomi quali Tommy Lawton, Len Goulding, Tommy Walker e Roy Bentley, ma nonostante questo rischiò la retrocessione nel 1951, soprattutto per le scarse risorse economiche presenti in cassa. Per Birrell questo fu un anno difficile sia fuori che dentro il campo, culminato da furiose liti con giocatori popolari come Roy Bentley e Johnny Harris, che portarono ad una svendita di elementi cardine della squadra. Dopo tredici anni di volenteroso onorario lo scozzese, "di comune accordo" con la società, lasciò l'incarico a favore di Ted Drake, anche in seguito alla esclusione dalla FA Cup per mano dell'Arsenal il 9/4/1952. Il Presidente Joe Mears riservò parole di grande stima nei suoi confronti, sottolineando il sincero affetto di tutto l'ambiente verso di lui, ormai stanco però, di assumersi responsabilità assai pesanti. Birrell si dichiarò felice di prendersi una legittima pausa e in seguito divenne segretario dell' Hartsbourne Country Club. Lo scozzese dal buffo panciotto e gli occhialini tondi ci lasciò il 29/11/1968 all'età di 71 anni. 
di Vincenzo Felici

27 gennaio 2025

PAUL VAESSEN. Eroe per una notte



Mi chiamo Paul, Paul Vaessen. Sono nato a Gillingham nel 1961 in una famiglia proletaria, dove mio padre Leon gioco’ a calcio, sia per il Millwall che per il Gillingham.
Dopo che ci siamo trasferiti a Londra , anch’io ho coronato il mio sogno di entrare a far parte di una squadra professionistica , e nel 1977 sono stato acquisito dall’Arsenal.
Ho debuttato nelle fila dei gunners il 27 settembre 1978, era un match di coppa UEFA, una notturna contro la Lokomotive Lipsia, compagine non male ai tempi.
Il debutto in Prima Divisione (se non sbaglio ora la chiamate Premier League o Premiership) e’ avvenuto solo sul finire di quella stagione, il 14 maggio 1979 per la precisione , in un derby contro il Chelsea. Proprio nell’estate del 1979 firmai il mio primo contratto da professionista. Ora ero diventato veramente un calciatore dell’Arsenal!

Nella stagione 1978/79 segnai 5 gol collezionando 13 presenze ma ,cio’ che mi ha reso famoso nella storia dei gunners, e’ avvenuto in una tiepida serata italiana. Era il 23 Aprile 1980 e allo Stadio Comunale di Torino, il mio Arsenal si giocava l’accesso alla finale di Coppa delle Coppe contro la Juventus. All’andata ad Highbury, pur pressando gli italiani per quasi tutta la partita, eravamo usciti dal campo con un poco rassicurante 1 a 1. Io non ero sceso in campo neanche per un minuto e la stessa sorte, almeno inizialmente, mi tocco anche a Torino. La partita fu’ molto combattuta anche al ritorno ma il risultato non si sbloccava e noi cominciavamo ad innervosirci. 
Che sfiga, avremmo perso la possibilità di disputare la finale solo per la regola dei gol segnati in trasferta! Al 75° minuto però, il nostro coach Don Howe, mi disse di prepararmi velocemente perche’ sarei entrato molto presto. Cosi’ fu e nel successivo quarto d’ora successe ciò che mi avrebbe cambiato la vita, o almeno era quello che credevo all’epoca. Giusto il tempo di posizionarmi in campo, dare un occhio ai ragazzi e dalla fascia arriva un cross di Graham Rix. Io guardo il tiro partire e mi dico: ”Dai Paul , buttala dentro”.
Non era certo la mia specialità il colpo di testa, ma al 77° minuto di “quella“ semifinale di coppa, colpisco la palla come non avrei più fatto e la spedisco alle spalle del grande Dino Zoff. 1 a 0 per noi e palla al centro!
Di quel momento in cui la palla e’ in rete ricordo soprattutto il silenzio dello stadio, i cori degli italiani che si interruppero e lo spicchio di curva biancorossa che  impazzì di gioia. Eravamo in finale e a Bruxelles l’Arsenal l’avevo portato proprio io. 
Piu’ tardi venni a sapere che quella era la prima volta che la Juventus era stata sconfitta fra le proprie mura da una squadra inglese. E il tabellino sul giornale era li’ che parlava chiaro: ”Gol decisivo di Paul Vaessen”Non importa che poi quella finale la perdemmo malamente ai rigori con il Valencia, anche perchè io assistetti ai 120 minuti piu’ rigori dalla panchina.
Ora questa storia mi piacerebbe finirla qui, ma da quel momento iniziò il declino della mia breve carriera e, conseguentemente, della mia vita. 

Nel 1982 mi infortunai seriamente ad un ginocchio durante un derby con il Tottenham, cosi’ che saltai interamente tutta la stagione 1982-83 e l’estate seguente, quando avevo appena 21 anni, fui costretto al ritiro dall’attivita agonistica. In tutto avevo segnato 9 gol in 39 partite con i Gunners. L’Arsenal non fece molto per aiutarmi, ma d’altre parte non saprei neanche dire cosa avrebbero potuto fare. In fondo avevo 21 anni e ancora tutta una vita davanti. 
Provai a fare il postino ma in quel periodo incontrai anche cio’ che mi avrebbe affossato definitivamente, la droga. Penso che vada benissimo fare lavori come il postino, l’idraulico o l’operaio quando da giovane inizi a farlo, ma vi assicuro che non e’ facile quando hai fatto il calciatore nell’adolescenza ed ora, quando imbuchi le lettere, le persone del quartiere si danno di gomito e sussurrano ”ma si è proprio lui, è quello che ha giocato nell’Arsenal.. guarda come si e’ ridotto”.
Cosi’, essendo ormai diventato, un consumatore di droga, dovevo fare anche piccoli furti per assicurarmi la dose quotidiana, visto che con il lavoro non guadagnavo abbastanza (il vizietto mi costava circa £125 al giorno). Cio’ mi portò a conoscere anche il carcere per ben sei volte.
Mi lascio’ anche mia moglie e si portò via con se’ mio figlio Jamie. Stavo veramente toccando il fondo, avevo bisogno di uno scossone, dovevo reagire.
Nel maggio 1993, dopo aver preso coscienza definitivamente di essere un tossicodipendente, mi feci ricoverare per due mesi in una clinica a Bexleyheath. Uscito da li’ mi trasferii ad Andover, dove conobbi’ Sally Tinkler. Anche lei aveva già una figlia, la piccola Abigail di due anni. Vivemmo li’ per un anno prima di trasferirci a Farnborough per stare piu’ vicini alla sua famiglia. Stavo riscoprendo la felicita’ e con Sally avemmo anche un figlio tutto nostro, Jack.
Fu in quel periodo, a meta’ degli anni 90’, che scoprii Dio e cercai di ricollocarmi nel mondo del lavoro, seguendo un corso per fisioterapisti sportivi.
I terribili dolori al ginocchio e i fantasmi del passato pero’, mi fecero tornare alla droga con conseguente deterioramento dei rapporti con Sally.
Cosi’ feci di tutto per rovinarmi la vita un’altra volta. Lasciai Sally e i bambini e mi trasferii a Bristol da mio fratello. Proprio li’ un fredda mattina di agosto nel 2001, il mio amico Jason Murphy mi trovo’ senza vita nel bagno che condividevo con mio fratello. Era l’8 di agosto. 
Il coroner nei giorni successivi dirà che si e’ trattato di una morte dovuta ad overdose di eroina. Era l’8 di agosto, avevo appena quarant'anni. Ora spero solo che, i tanti ragazzi che gremiscono il nuovo stadio costruito ad Ashburton Grove, e che si vantano dei successi ottenuti dalla loro squadra, si ricordino che un viaggio a Bruxelles ai loro padri e amici più grandi, e’ stato offerto tanti anni fa da un ragazzo come loro, con uno strano cognome olandese, un certo Paul, Paul Vaessen.
di Luca Ferrato, da "UK Football please" (dicembre 2006)

25 gennaio 2025

"LA MIA INGHILTERRA" di Roberto Beccantini

La mia Inghilterra cominciò al telefono, dalla redazione di «Tuttosport», Torino, Italy. 
Era il 1974, vi ero approdato quattro anni prima da Bologna, e dal basket i grandi capi mi avevano trasferito al calcio. Con la preghiera di dedicarmi, in particolare, al calcio internazionale. Why not. I Settanta, piombo e arene. Il piombo delle tipografie, delle Brigate Rosse; le arene che ogni domenica e ogni mercoledì si aprivano alle nostre pulsioni, alle nostre emozioni. Al lavoro, dunque. Senza cellulari, senza Internet. Con foga, con l’entusiasmo naif degli esploratori, dei cacciatori. Era l’epoca dei telefoni fissi, non necessariamente «bianchi». Il campo-base, allora, era in via Villar e ce n’era uno, quadrato e azzurro, proprio vicino al mio tavolo. Ci si faceva di agenzie o di teleselezione. Prefisso del Regno Unito, 0044.  Con me, Aleramo del Carretto: radici nobiliari, si firmava Bob Carret. Insieme, abbozzavamo segni che ci sembravano sogni. Rompevamo le scatole a chiunque, amico o conoscente, si trovasse all’estero. O chiamava lui o lo facevo io. A turno.

A Londra il nostro «gancio» era un cameriere di un ristorante di Piccadilly, Giuseppe Matarrese, omonimo dell’Antonio pluri-presidente. Giuseppe: sentiva, alla radio, «Tutto calcio minuto per minuto» british, prendeva religiosamente nota delle azioni salienti e aspettava. Implacabile. Aleramo o il sottoscritto. Travaso di flash. Trapianto di news. Mi raccomando la grafia di tizio; non ho capito, ripeti per favore. E via a buttar giù un trentello che tenesse su la rubrica. Giuseppe sarebbe poi rientrato in Italia e avrebbe dato vita a una serie di gloriosi e preziosi almanacchi - dal girone unico del 1929-’30 - che solo un infarto, arrivato alla stagione 1955-’56, gli impedì di continuare e completare. Non finirò mai di pensarlo. E ringraziarlo.
Ci si arrangiava così. Primi dei Mohicani, o fra i primi, se mi passate la metafora, a scandagliare una realtà agonistica che, piano piano, sarebbe esplosa. Fino alla Premier e alle telecronache che ne avrebbero accompagnato e decorato la diffusione planetaria.
In compenso, la mia prima Inghilterra «sul» campo, è stata Manchester, al seguito della Juventus, al Maine Road del City e poi all’Old Trafford dello United.  Era la squadra del Trap, tutta italiana, che poi avrebbe fatto doppietta, scudetto a Coppa Uefa. Perse 1-0 entrambe le volte, scarti cancellati al ritorno per 2-0 e 3-0, e non superò la metà campo se non in un paio di occasioni.
Poi Anfield, il tempio del Liverpool. Ignari dello spirito e prigionieri della forma, lo scrivevamo per intero: «Anfield Road». Liverpool, le acque del Mersey, la taverna dei Beatles, i docks, il grigio come uniforme e la pioggia come sottofondo. Il destino mi tenne lontano da Goodison Park, la casa dell’Everton. Non per scelta, e neppure per pregiudizio o tifo. Così, perché quello era il tempo dei Reds, e non dei Toffees. La Kop. La curva canonica e iconica del Liverpool Football Club. «This is Anfield». E quella tana, quel girone dantesco. Ci ho visto una partita proprio lì dentro, in mezzo al popolo, tutti in piedi, tutti premuti e spremuti, felice del carcere impostomi, un’esperienza che mi segue, chi poteva immaginare che ci sarebbe stata la carneficina dell’Heysel? Cantavano a squarciagola, «She loves you yeah, yeah, yeah», era lo squadrone che, seminato e irrorato da Bill Shankly, sarebbe stato portato al dominio continentale da Bob Paisley e Joe Fagan.
E il 12 aprile 1978, semifinale-bis di Coppa dei Campioni: 3-0 al Borussia Moenchengladbach, il cui spelling occupava almeno due minuti di scatti telefonici (M come Milano, O come Otranto, eccetera). Era il Liverpool di Kenny Dalglish, Graeme Souness e Jimmy Case. Il Mar Rosso. E, intorno, le «coste» in cemento delle balconate e il legno delle transenne, a strapiombo sull’erba, sulle zolle. E la Kop che profumava di ascelle e puzzava di lavanda, «Hey Jude, don't make it bad». E il mitico, romantico ed eterno «You’ll never walk alone»: non era dei Fab Four, ma chi se ne frega.
Ce ne sono state altre di «Inghilterre». Tante, per fortuna. Da Wembley a Highbury. Ma come Anfield, sorry, nessuna.
di Roberto Beccantini

24 gennaio 2025

BACK TO THE "SIXTIES" - La trasformazione delle maglie in business.

Tanto tempo fa, così potremmo iniziare questo pezzo come fosse una fiaba, i ragazzini correvano dietro un pallone tra l’ora del tè e l’ora di cena in campetti fangosi o nei pubblici giardini o nei playgrounds delle scuole dopo avere posato a terra il loro “montgomery” o parka o la giacca della divisa della scuola.


Chi sceglieva di essere Bobby Charlton o Denis Law, chi Bobby Moore o Jimmy Greaves, tutti avevano un idolo ma nessuno si sognava di scendere in campo con indosso la maglia o se volete “replica shirt” del club preferito.
Erano i fantastici e vivaci sixties (sia dal punto di vista pallonaro che musicale che stilistico che sociale), periodo in cui a mio giudizio si videro le più belle e stilose divise da gioco in UK, semplici eppure eleganti, girocollo, con accurati stemmi ricamati.
Poi, ad inizio seventies qualche colpo di ammodernamento assolutamente ancora gradevole come l’uso del tessuto traforato Aer Tex della Umbro, le iniziali del club ricamate in corsivo, l’aggiunta di colletti e l’inserto triangolare a chiudere lo scollo a “V”, look che andava di pari passo con la crescita dei capelli e delle basette dei giocatori (basette vere non le ridicole, sottili sculture a colpi di rasoio che si vedono oggi su campioni e pseudo campioni che prima di scendere in campo si sistemano il cerchietto tra i capelli.. fortunatamente soprattutto nel continente).

Poi, un giorno del 1973, sulla maglia del Leeds apparve un simbolo, un grado da ammiraglio ed infatti sotto questo strano logo c’era proprio la dicitura Admiral. Apparentemente innocuo ma secondo gli esperti questo fu l’inizio del “great kit business”.
L’anno successivo, 1974, Don Revie divenne il nuovo manager della nazionale ed una delle prime azioni che fece fu di introdurre presso la FA l’Admiral con la quale l’anno precedente aveva deciso la sponsorizzazione tecnica del Leeds essendo Revie allora manager della squadra del Yorkshire. Il tutto, come dissero allora le solite malelingue (ma a ragione) fruttò un bel po’ di pounds al buon Revie, questo fu una sorta di investimento da parte della Admiral che quindi riuscì ad estromettere la Umbro da fornitrice ufficiale della nazionale cosa che aveva fatto per 60 anni. Inoltre l’Admiral ottenne il permesso di ammodernare la divisa tutta bianca dei 3 Lions e qui fecero la loro comparsa le famose striscie rossoblu sulle maniche (biancorosse sui calzoncini blu) ed il logo della casa. I tifosi piu’ tradizionalisti e quasi tutta la carta stampata gridarono all’orrore ma il nuovo kit immesso sul mercato e spinto da una potente campagna pubblicitaria vendette eccezionalmente tra il pubblico piu’ giovane. 
Dopo che la nazionale aveva venduto la propria anima (come sostennero alcuni giornalisti) molti clubs cedettero alle lusinghe dell’Admiral sentendo la necessità di adeguarsi ai tempi correnti e soprattutto di vestire come la selezione del Paese. Ecco quindi Norwich, Southampton, Manchester Utd, Coventry, West Ham indossare il grado dell’ammiraglio mentre la Umbro combatteva su altri fronti tenendosi stretti la selezione scozzese, Derby, Everton, Manchester City, Arsenal, Liverpool.

Tra la metà dei seventies e l’inizio degli
eighties vi fu il picco produttivo e di fama dell’Admiral che proprio ad inizio del nuovo decennio ristilizzò la maglia della nazionale proponendo la famosa striscia rossoblu orizzontale tra petto e spalle (o come direbbe correttamente un sarto, sul carrè); subito altre polemiche ma anche tanta pubblicità e anche favori tanto che in un recente sondaggio tra tifosi questa resta una delle maglie preferite della storia dei 3 Lions. Insomma quella dell’europeo dell’80 e dei mondiali dell’82 che onestamente anche a me, seppure tradizionalista convinto che metterà sempre al primo posto quella tutta bianca girocollo dei sixties, non dispiaceva nè allora né tuttora. Poco dopo però il colosso Adidas iniziò a mettere il naso in UK e forte delle sue dimensioni e potenzialità cercò di prendersi una fetta di quell’interessante mercato. In breve clubs come QPR, Ipswich, Forest vestirono le note tre striscie e dopo poco anche Liverpool ed Arsenal entrarono nella scuderia della casa tedesca.
A seguire giunsero anche Hummel dalla Danimarca che vestì Spurs, Villa, Swansea, Darlington, Southampton e la nazionale gallese e Le Coq Sportif dalla Francia. Insomma la torta si faceva sempre più piccola e quando a metà eighties la Umbro riuscì a riprendersi la nazionale proponendo nuovamente un design sobrio e semplice ed una proposta economica che l’Admiral non potè contrastare per la casa del grado della marina iniziò il declino.
Per Umbro invece si trattava di una seconda giovinezza che durò per molti degli anni 90 mentre Admiral si trovava a fronteggiare una crisi finanziaria che la portò ad essere l’ombra di quel che era stata. 
Negli ultimi anni l’Admiral sta cercando di rialzare la testa partendo dalle divisioni minori  mentre la Umbro tiene duro con la nazionale ed alcuni clubs di grande potenzialità ma questa è storia recente che anche i ragazzini possono giudicare con i propri occhi e notare come ormai il mercato se lo contendano un paio di grandi nomi non britannici o poco piu’ che per qualsiasi squadra propongono lo stesso modello cambiando solo i colori; per noi un po’ piu’ “maturi” invece resteranno per sempre negli occhi e nel cuore le meravigliose divise e tute degli anni d’oro che ci videro scoprire il football d’oltre Manica che avevano solo due simboli sulla parte destra del petto ovvero il diamante stilizzato della Umbro e il grado dell’Admiral.
di Gianluca Ottone, da UKFP (settembre 2006)

23 gennaio 2025

"LA PIRAMIDE ROVESCIATA" di Jonathan Wilson (Libreria dello Sport), 2011

LA STORIA DEL CALCIO ATTRAVERSO LE PIU' LEGGENDARIE TATTICHE DI GIOCO. Prefazione di Giancarlo PADOVAN.

Sia che si tratti di una discussione da bar particolarmente animata o semplicemente lo spostare i contenitori del sale e del pepe sul tavolo di un autogrill, non vi è alcun dubbio che le tattiche calcistiche siano ormai diventate parte integrante della vita di tutti i giorni. Tuttavia, agli albori del football, quando questo sport veniva praticato esclusivamente a livello dilettantistico, era il caos a regnare, con i giocatori che continuavano a dribblare con la palla visto che, tra l’altro, il passaggio era ritenuto un’azione di gioco da “femminucce”. Fu grazie agli scozzesi, dalla corporatura decisamente esile, i quali iniziarono a passare la palla per riuscire ad aggirare avversari fisicamente più prestanti, che il gioco poté evolversi verso una direzione prettamente tattica.
Ne La Piramide rovesciata Jonathan Wilson descrive come la tattica si è diffusa per tutto il globo terrestre. Come i sudamericani si scrollarono di dosso l’ordine coloniale per aggiungere la propria fantasia al gioco del calcio. Come il testimone fu poi restituito all’Europa centrale e a quella orientale, dove la tecnica individuale venne imbrigliata in una struttura di squadra. Gradatamente, uno schieramento aggressivo che prevedeva cinque giocatori a comporre la linea offensiva venne totalmente rovesciato, fino al punto in cui un modulo che prevede un solo attaccante, o persino nessun centravanti di ruolo, è diventato al giorno d’oggi una circostanza tutt’altro che insolita.
La storia della tattica è un racconto pieno zeppo di eroi visionari spesso poco apprezzati, tra i quali Jimmy Hogan, il grande ungherese Béla Guttmann, e il corpulento e benevolo russo Viktor Maslov, il padre del 4-4-2. Wilson ha anche rianalizzato il funzionalismo di Herbert Chapman, e lo stile diretto di Graham Taylor e Charles Hughes. L’autore ripercorre la parabola del gioco dal dopoguerra attraverso le origine svizzere del catenaccio, il calcio totale dei sovietici e degli olandesi, passando anche per il “superare le linee” di Jose Mourinho.
Un tema costante è rappresentato dalla riluttanza degli inglesi nel cimentarsi con la natura astratta del gioco: basta mettere a confronto il calcio dal gioco scorrevole e senza vincoli della legione straniera di Arsène Wenger con il poco fortunato arrabattarsi con una difesa a tre di Steve McClaren.
La Piramide rovesciata non è solo un’affascinante resoconto delle tattiche del calcio sempre in costante evoluzione, ma anche un’avvincente lettura per qualsiasi persona che nutra un serio interesse per lo sport.

YOU’LL NEVER WALK ALONE

Abbiamo iniziato a concepire questo pezzo mentre il Liverpool sembrava finalmente (dal suo punto di vista) tornato a dominare la scena nazionale, guidando con passo sicuro la Premier League.
Ed è una storia che suona ancor più strana perché tanti anni di astinenza non hanno coinciso con un declino del club, che anzi ha continuato con una certa regolarità a conquistare Coppe inglesi ed europee, a schierare grandi giocatori, ad essere a tutti gli effetti una ‘grande’. Ecco perché suonava quasi ‘inedita’ la mini-fuga dei Reds in testa alla classifica, presagio (o auspicio) di un sortilegio in procinto di svanire. Chissà come sarà la situazione quando questo articolo alla fine lo leggerete; di una cosa però possiamo essere certi: che sia di giubilo o di consolazione, dalla Kop di Anfield si alzerà puntuale ed emozionante la melodia struggente e liberatoria di You’ll never walk alone, l’inno di calcio più famoso al mondo. 
In realtà è qualcosa di più di un semplice coro da stadio, è ormai divenuto uno dei simboli più evocativi della cultura e dello stile dei tifosi d'oltremanica. Le sue origini, mai del tutto chiarite, sembrano risalire a una vecchia canzone dei marinai irlandesi emigrati in gran numero a Liverpool all'inizio del secolo scorso. A livello ‘ufficiale’, però, YNWA vede la luce nel 1945, scritta da Rodgers e Hammerstein per il musical Carousel
Per ‘contestualizzare’ il testo, va detto che nello spettacolo la canzone è cantata sulla morte del protagonista, per dare coraggio alla disperata vedova, per di più in attesa di un figlio. Dunque una canzone con due anime: da un lato il sostegno e l’incoraggiamento in una situazione di difficoltà, dall’altro il cordoglio per un lutto. E’ chiaramente la prima a fare breccia nel cuore dei tifosi, ma la seconda tornerà prepotente quando diventerà la struggente colonna sonora di tanti addii e commemorazioni. 
La ‘seconda vita’ di YNWA inizia quasi per caso nel 1963, quando il celebre gruppo beat dei Gerry & the Pacemakers (esponenti di quel Mersey Sound da cui usciranno anche i Beatles) la interpreta in un ’singolo’ che schizza in vetta alla hit parade per diverse settimane. 

I tifosi assiepati nella Kop iniziano a canticchiarla come tutte le hit dell’epoca, mandate in onda dal dj di Anfield Road  prima di ogni partita. Solo che YNWA continua a risuonare in quell’inverno del 1963, anche quando esce dalla hit parade, e settimana dopo settimana si trasforma in qualcosa di diverso, un incitamento ai propri beniamini, un canto per i propri colori. Secondo un’altra versione, fu addirittura Bill Shankly a scegliere la canzone come nuovo inno ufficiale del club, dopo che Gerry Marsden (leader dei Pacemakers) gliela aveva presentata in anteprima nell’estate del 1963. Sta di fatto che ci sono immagini del 1964 che attestano come la Kop canti YNWA a mò di incitamento, e nel 1965 durante un Match of the Day che riprendeva Liverpool-Leeds, il commentatore Kenneth Wolstenholme sottolinea con ammirazione l’impressionante impatto sonoro dell’inno che si alza dalle terraces di Anfield. Altra storiella legata a YNWA è quella sui Beatles, che dovendo scegliere un brano per il loro singolo d’esordio ’scartarono’ proprio quello, considerandolo troppo «shuffle music» e preferendogli ‘Please please me’. Non meno curioso è che mentre YNWA si imponeva come il primo vero canto da stadio (e cominciava a sentirsi anche a Glasgow, Edinburgo, Rotterdam, Twente), diventava una ‘cover’ con cui si misuravano tantissimi interpreti ‘nobili’, da Frank Sinatra a Jody Garland, passando per Doris Day ed Elvis Presley, confermando di essere una combinazione di suoni e parole davvero unica.

Nella versione ‘calcistica’, da quel 1963 ha contraddistinto indelebilmente la tifoseria del Liverpool, nella buona e nella cattiva sorte. Perché il Liverpool degli anni ’60, ’70 e ’80 è quello vincente di Shankly, Paisley e Dalglish, ma anche quello dell’Heysel e di Hillsborough. E proprio la tragedia del 1989, quel maledetto pomeriggio di Sheffield che si portò via una messe di vite e l’innocenza (residua) del calcio inglese, conferì a YNWA una connotazione malinconia e quasi ‘liturgica’ che ancora oggi è forte ad ogni esecuzione. Alzi infatti la mano chi, di fronte alla Kop che canta con le sciarpe levate al vento, non libera ogni volta un pensiero a quei caduti, ed alla lapide che li ricorda ad Anfield, con epitaffio proprio ‘You’ll never walk alone’...

Dopo Hillsborough niente fu più uguale, nemmeno la Kop originaria, quella fatta di terraces che spaventa al solo rivederla nelle immagini d’epoca, enorme e gremita oltre l’inverosimile. Quella Kop è stata demolita per far posto ad un'altra tribuna con i seggiolini numerati, da dove però continuano a levarsi puntualmente le note di You'll never walk alone, e sono sempre brividi veri, come se la ’modernizzazione’, che tutto ha sfumato e attenuato, non sia riuscita a scalfire la potenza emotiva di un inno quasi cinquantennale. In realtà, secondo alcuni, in anni recenti YNWA è diventato anche una specie di segno distintivo all’interno della ormai ’globalizzata’ tifoseria dei Reds. Quelli che lo cantano sempre, insieme ad un altro canto altrettanto storico (Pour Tommy Scouser), si considerano ’veri’ Scousers: sono i nativi della città, i tifosi più autentici, portatori di uno spirito orgoglioso e irruente tipico di Liverpool. E’ gente che arriva a ’snobbare’ la nazionale inglese perché la considera una cosa che riguarda soltanto l'Inghilterra del sud, quella con i soldi, quella dei Cockneys. Gli Scousers sono i figli dei lavoratori dei docks del porto, a maggioranza irlandese, vittime di una crisi economica che si rinnova periodicamente, lasciando sfracelli sociali che solo la fede sportiva riesce in qualche modo a ricomporre. Sono quelli che beneficiano del welfare per tirare avanti, quelli che un tempo si definivano la ’working class’ e che nell’industriale e portuale Liverpool hanno sempre rappresentato la base della tifoseria ‘rossa’. A questi ‘die hard’ non piace granchè un altro ’tipo’ di tifoso del Liverpool, quello che viene da fuori, che magari tifa Liverpool in modo genuino, ma non è nato in riva alla Mersey. 
Fans dei Reds per scelta, non per nascita, legati alla squadra dalla tradizione, dai risultati o dal fascino del merchandising, e considerati dagli Scousers alla stregua di ‘intrusi’, nonché usurpatori di biglietti per le trasferte (dato che spesso si tratta di persone con maggiori disponibilità finanziarie). E poi ci sono i ‘ricchi’ di Liverpool, quelli che (semplificando molto) tifano Everton, gli odiati rivali cittadini dei Toffeemen.

























Per gli Scousers autentici, quindi, cantare YNWA è anche un’affermazione di identità e di distinzione forte, quasi la rivendicazione dello spirito più intimo di una città che negli anni ‘60 (quando il coro entrò ad Anfield) trainava il Regno Unito con le sue attività economiche e le sue avanguardie culturali. Ecco perchè You'll never walk alone continua nonostante tutto a rimbombare nel vecchio stadio di Anfield Road, segnato dal tempo, eppure uno dei simboli più autentici della città, luogo di venerazione da parte di chi lo abita settimanalmente e di ammirazione degli appassionati di tutto il mondo.

Al punto che in ogni angolo di Europa ci sono tifoserie che hanno provato ad adottare (e adattare) YNWA, come fosse uno status symbol da imitare. Tralasciando le (spesso) patetiche interpretazioni ‘latine’ (in Italia andò molto di moda negli anni ‘90), merita una menzione quella dei tifosi del Dortmund. Encomiabili nel loro gremire costantemente gli oltre 80.000 posti dello stadio di casa, riescono a ricreare un’atmosfera suggestiva, seppure lontanissima dall’originale. E poi ci sono i tifosi del Celtic di Glasgow, legati a quelli del Liverpool da una antica e comune radice ‘irlandese’, e quindi in qualche modo ‘legittimati’ ad intonare YNWA. E quando il Celtic Park accoglie le squadre in campo fra le note di YNWA e un oceano di sciarpe bianco verdi, i brividi sono assicurati. Non per niente uno dei momenti ‘di tifo’ più intensi in assoluto è stato il doppio confronto di Coppa Uefa del 2003 fra Reds e Bhoys. Tanto all’andata che al ritorno le due tifoserie (storicamente amiche) hanno intonato ad una voce You’ll never walk alone, creando una magia davvero indimenticabile e quasi irripetibile.
Una magia che questo inno si porta dentro da decenni, pronta a liberarsi ogni volta che la Kop leva le sciarpe per intonare ’When you walk through a storm…’
di Giacomo Mallano, da Fever Pitch

22 gennaio 2025

MELCHESTER ROVERS FC. La squadra di ROY of the ROVERS

Fondato nel 1885, il Melchester Rovers gioca al Mel Park di Melchester.
I colori sociali sono rosso e giallo, apparsi durante gli anni in diverse composizioni, ma con il rosso sempre come colore dominante.
I Rovers hanno vinto tre campionati ed una FA Cup dalla loro fondazione fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ma è nel secondo dopo guerra che arrivano i maggiori successi, anche grazie alle imprese del miglior giocatore nella storia del club, Roy Race.

Nel 1958 i Rovers vinsero il quarto titolo di campioni d’Inghilterra e l’anno successivo arrivò il trionfo in FA Cup, Roy Race era il capitano della squadra.
Negli anni 60 i giallorossi divennero una vera potenza del calcio inglese, vincendo tre campionati, due FA Cup, due Coppe dei Campioni, una Coppe delle Coppe ed una Coppa Intercontinentale. Nonostante questa striscia di successi formidabile ci furono anche delle ombre, nel 1967 i Rovers, pur vincendo la Coppa delle Coppe, rischiarono la retrocessione salvandosi solo alla fine del torneo.
La nuova decade cominciò con la vittoria in FA Cup del 1970, seguita la stagione successiva dalla vittoria in Coppa delle Coppe.
Nel 1972 arrivò il primo, ed unico, double della storia del club. A fine stagione, il mitico manager Ben Galloway lasciò la panchina per occupare un ruolo dirigenziale all’interno del club, il suo posto fu preso da Tony Storme, ex giocatore del club.
Nel 1973 arrivò il terzo titolo europeo per club, seguito da una stagione deludente, anche a causa di numerosi infortuni, impreziosito però dalla prima vittoria in League Cup.
Nel 1975 il Melchester Rovers uscì presto dalla FA Cup a seguito di una sconfitta contro una squadra di non League, questo comportò l’esonero di Storme che venne sostituito da Roy Race nella doppia veste di allenatore-giocatore. Nonostante la pessima stagione interna i Rovers portarono a casa un’altra Coppa delle Coppe.

Nel 1977 Roy Race vinse il primo campionato da allenatore, seguì una stagione piuttosto anonima seguita poi da una stagione, 1978/79, in cui i giallorossi arrivarono alla vittoria in Coppa Uefa rimanendo però invischiati nella parte bassa della classifica.
Gli anni '80, per i Rovers, si rivelano pieni di eventi degni di una soap opera.
Si comincia con un altro titolo nazionale nel 1979/80, a cui segue un’inopinata retrocessione la stagione seguente per un solo gol di differenza.
Nella stagione 1981/82, i Rovers devettero fare a meno di Roy Race, un attore che lo impersonava in una serie TV cercò di ucciderlo sparandogli, ma riusciro a vincere il campionato di Seconda Divisione con una striscia positiva di 34 partite senza sconfitte.
Nell’aprile 1983 Roy Race lascia il club, ma ritorna nel dicembre dello stesso anno ed a fine stagione arriva la vittoria in FA Cup nonostante la squadra sia stata colpita da numerosi infortuni.
Nel 1985 arriva un’altra vittoria in Coppa delle Coppe, dopo la vittoria arriverà il bando delle squadre inglesi dalle manifestazioni europee per club.
Nel 1986 e nel 1987 arrivano altre due League Cup ad impreziosire la bacheca dei Rovers, da ricordare che poco prima della finale del 1987 in un attentato terroristico erano morti ben otto giocatori del club, Noel Baxter, Vic Guthrie, Steve Naylor, Carl Hunt, Neville Jones, Kenny Logan, Jimmy Slade e Trevor Cassidy.

Nel 1987/88 i giallorossi diventano ancora campioni nazionali, per evitare la retrocessione la stagione seguente, in cui avevano giocato a Wembley per la maggior parte della stagione a causa dei lavori di ristrutturazione di Mel Park, con una vittoria per 3-1 all’ultima partita.
I Rovers iniziano bene il nuovo decennio, vincendo la FA Cup nel 1990 e due stagioni dopo divennero nuovamente campioni nazionali.
Durante la stagione 1993/94, Roy Race appende le scarpe al chiodo e si trasferisce in Italia per lavorare con il Monza, il Melchester Rovers si salverà dalla retrocessione solo grazie alla differenza reti.
Nel 1995 arriva l’ultimo successo del club, l’FA Cup.
Alla fine della stagione 1995/96, il club conosce l’onta di una retrocessione a seguito di un tentativo di corruzione. La stagione successiva ritorna Roy Race come dirigente ed il club riesce a salvarsi da una seconda retrocessione.
Nel 1997/98 i Rovers arrivarono quarti in classifica, grazie alla vittoria nei play-off ritornarono i Premier League. Nel 1999 i Rovers alzarono ancora una volta l’FA Cup.


Albo d’oro
First Division and Premier League: 13
1932, 1934, 1938, 1958, 1960, 1963, 1968, 1972, 1977, 1980, 1988, 1992, 2000.
Football League Second Division: 1
1982
FA Cups: 11
1907, 1959, 1961, 1966, 1970, 1972, 1974, 1984, 1990, 1995, 1999
League Cups: 3
1974, 1986, 1987
European Cups: 3
1964, 1969, 1973
UEFA Cups: 1
1979
European Cup Winners' Cups: 4
1967, 1971, 1975, 1985

Una cosa importante prima di finire questa storia, tutto questo è inventato.
Roy of the Rovers è un fumetto che ha fatto la sua prima apparizione nel 1954, ha avuto un seguito enorme in Inghilterra e, nonostante la finzione, il Melchester Rovers compare nel catalogo del Subbuteo e la maglia del club è nel catalogo della Toffs.
di Gianfranco Giordano
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