14 gennaio 2025

"FEBBRE a 90'" di Nick Hornby (Guanda), 1997


La passione per il football e l'amore per la squadra del cuore possono, si sa, essere così intensi da trasformare radicalmente la vita di un uomo, e così è stato per Nick Hornby, tifoso dell'Arsenal fin da bambino. In "Febbre a 90'" racconta in prima persona, con tono ironico e affettuoso, appassionato e divertito, gli entusiasmi e le depressioni, le impagabili emozioni e le cocenti delusioni vissute da un «ossessionato» del pallone. Una vera e propria «educazione sentimentale» del tifoso, un atto d'amore che può contagiarci per sempre, una vita vissuta ed esplorata attraverso il calcio quando il calcio era la vita.

STOP THE 10. Wim Jansen e il Celtic Glasgow.






















Prendi lo scudetto e scappa. Riadattando impunemente il titolo di uno dei più famosi film di Woody Allen, ecco descritta in poche parole la breve ma vincente avventura dell’olandese Wim Jansen sulla panchina del Celtic Glasgow. 
Era la stagione 97-98, e il titolo nazionale in casa dei Bhoys mancava da ben nove anni, neanche a dirlo tutti caratterizzati dalla ferrea dittatura dei nemici di sempre dei Rangers. “Jansen chi?”, si chiedevano i tifosi e buona parte della stampa locale quando venne annunciato il nome del tecnico, scelto dopo il rifiuto di Bobby Robson, che avrebbe sostituito il dimissionario Tommy Burns.

Domanda un po’ fuori luogo, e passi per il fan che magari guardava solo la sua squadra e quelle del campionato in cui milita, ma l’ignoranza di certi giornalisti non ammetteva (né ammette) scusanti. Perché se il curriculum vitae da allenatore di Wim Jansen non offriva particolari spunti (tre coppe d’Olanda con il Feyenoord, quindi passaggi al Lokeren e come direttore tecnico della nazionale dell’Arabia Saudita, per finire con un’esperienza in Giappone alla guida del San Frecce Hiroshima, avventura conclusa con una lettera di dimissioni e un pepato commento di un giornale locale, il quale scrisse che “Jansen era la seconda peggior catastrofe che si era abbattuta su Hiroshima”), quello da giocatore era assolutamente inattaccabile. Titolare nell’Olanda finalista ai Mondiali del 74 e del 78, icona del miglior Feyenoord di sempre, quello che nel 1969 aveva vinto Coppa Campioni (battendo curiosamente in finale proprio il Celtic) e Intercontinentale, e nel 74 la Coppa Uefa, “Wimpie” era il cervello di centrocampo, il cemento che teneva unite e ben salde le fondamenta sulle quali i campioni oranje dell’epoca, da Cruijff a Rensenbrink a Van Hanegem, disegnavano il loro calcio innovativo e spettacolare, l’elemento con piedi (e intelligenza tattica) da maestro e attitudine da gregario. 
Silenzioso, tranquillo, anti-leader per eccellenza, Jansen ha fatto la storia del Feyenoord, e della nazionale, ma al momento del suo addio (partiva per gli Stati Uniti, dove lo aspettavano i Washington Diplomats) non ha ricevuto né ringraziamenti né celebrazioni ufficiali, uscendo anzi tra i fischi del pubblico dopo una rovinosa sconfitta nel derby di Rotterdam contro l’Excelsior. Niente male come saluto per un giocatore che aveva indossato la casacca del club in 524 partite ufficiali. E quando rientrerà in patria per chiudere la carriera con l’Ajax (dove a 36 anni vincerà il quarto titolo nazionale della sua carriera), ci penserà uno scimunito dagli spalti a dargli il bentornato colpendolo nell’occhio con una palla di ghiaccio durante il riscaldamento pre-partita di un Ajax-Feyenoord. Merce rara la riconoscenza nel calcio, ieri come oggi, in ogni paese.

Torniamo al Celtic. Salvato nel 1994 dalla bancarotta da Fergus McCann, il club della Glasgow cattolica era una polveriera pronta ad esplodere. Jansen, di poche parole ma estremamente deciso, non impiega molto a scontrarsi con il direttore generale Jock Brown, braccio destro del presidente. Ampie diversità di vedute su come condurre il mercato (Jansen chiede importanti sforzi economici per innalzare il livello tecnico della squadra e trattenere i big, la dirigenza indica altre priorità quali l’ammodernamento del Celtic Park, per il quale è previsto un ampliamento della capacità fino a 60mila posti al costo di 30 milioni di sterline) iniziano a scavare un fossato che nel giro di pochi mesi renderà incolmabile la distanza tra le due parti. Ecco un paio di esempi; il neo-allenatore avanza la richiesta di riportare in Scozia l’attaccante olandese Pierre van Hooijdonk, 44 reti in due stagioni e mezzo in maglia bianco-verde, ma la coppia McCann-Brown pone il veto a causa dei cattivi rapporti, legati a questioni economiche, con cui si erano lasciati con il giocatore, ceduto al Nottingham Forest. Jansen propone quindi il tedesco Karl-Heinze Riedle, ottenendo una nuova bocciatura, questa volta per ragioni anagrafiche (il 32enne attaccante finirà al Liverpool). Le premesse non sono confortanti nemmeno sul fronte interno. 
Nel precampionato Paolo Di Canio rifiuta di seguire la squadra in Olanda preferendo allenarsi per conto proprio al fine di “ritrovare la miglior forma fisica”, e magari convincere la società ad accettare le sue richieste di aumento di stipendio, mentre il portoghese Jorge Cadete, capocannoniere del club la stagione precedente con 32 reti (39 se si considerano anche le due coppe nazionali), nemmeno si presenta agli allenamenti lamentando una non meglio specificata indisposizione, il tutto mentre incarica il proprio agente di cercargli un’altra sistemazione. Se ne andranno entrambi, Di Canio allo Sheffield Wednesday e Cadete al Celta Vigo, per un totale di 12 milioni di sterline incamerati dagli scozzesi. Una piccola parte di questa somma, precisamente 2.3 milioni, la società decide di investirle a novembre per Harald Brattbak del Rosenborg, attaccante che però Jansen si rifiuta di andare a visionare, nonostante McCann gli metta a disposizione un aereo privato per volare in Norvegia, in quanto “l’acquisto era già stato deciso, la mia sarebbe stata solo una perdita di tempo”. Non fu assolutamente tempo sprecato invece il viaggio verso Rotterdam per definire i dettagli del trasferimento di Henrik Larsson dal Feyenoord, dove si era messo in luce più come suggeritore che come finalizzatore, al Celtic, per la modesta cifra di 650mila sterline. Un colpo di mercato che farà la storia del club cattolico di Glasgow.
Dalle parole si passa finalmente ai fatti, con la squadra che, oltre al già citato Larsson, viene rinforzata anche dagli arrivi di giocatori di spessore quali Craig Burley, Stephane Mahe, Marc Rieper, Paul Lambert e Jonathan Gould. Il campionato inizia con due sconfitte consecutive (1-2 sul campo dell‘Hibernian, stesso risultato a domicilio contro il Dunfermline), ma il panico regna più tra i tifosi che non nello spogliatoio. Ricorda capitan Tom Boyd: “Tra noi e Jansen si instaurò subito il giusto feeling, ma capimmo che ci sarebbe voluto un po’ di tempo per adattarci ai suoi metodi e alla sua differente impostazione tattica. Chiedeva ai giocatori molto movimento, voleva che giocassimo il più possibile palla a terra e insisteva molto sull’organizzazione della manovra. Diceva che noi giocatori non eravamo solo atleti, ma anche teste pensanti, e in campo avremmo dovuto comportarci di conseguenza. Un metodo diverso che necessitava di essere assimilato”. 

























Ad autunno inoltrato qualcosa comincia a muoversi; il 25 ottobre il Celtic batte 2-0 il St. Johnstone e passa al comando, favorito dalla contemporanea caduta dei Rangers contro il Dundee United. Non durerà molto, perché una nuova flessione porterà i Bhoys all’Old Firm in programma il 2 gennaio con quattro punti di ritardo rispetto ai rivali. Perdere significherebbe sventolare bianca sulle ambizioni di ritorno al vertice, e oltretutto la vittoria in un derby manca in casa Celtic da ormai un buon decennio. Decisamente troppo, anche per il tifoso più ottimista e accomodante. Ad interrompere il digiuno ci pensano Craig Burley e Paul Lambert, per un 2-0 che segna l’inizio di una serie di dodici risultati utili consecutivi per gli uomini di Jansen. I quali però, oltre ai Rangers, devono guardarsi anche dall’ottimo campionato disputato fino a quel momento dagli Hearts of Midlothian, la cui solidità aveva costretto entrambi i club Glasgow al pareggio negli scontri diretti. Ad “eliminare” il club di Edimburgo dalla gara ci pensano i cugini dell’Hibernian, in un tiratissimo derby terminato 2-1. L’ultima sfida fratricida di Glasgow (il 12 aprile) della stagione vede invece i Rangers vendicarsi della sconfitta di inizio anno e raggiungere nuovamente i bianco-verdi in testa alla classifica. La sfida prosegue serrata fino al 9 maggio, quando un 2-0 al St. Johnstone regala al Celtic il titolo di campione di Scozia per la 36esima volta nella propria storia, la prima dopo nove anni di digiuno. In bacheca ci finisce anche la Coppa di Lega scozzese, dopo un secco 3-0 rifilato in finale al Dundee United, mentre le altre due competizioni in cui i Bhoys si trovano impegnati, la Coppa Uefa e la Coppa di Scozia, si concludono rispettivamente per mano di Liverpool (2-2 al Celtic Park e 0-0 ad Anfield, in un incontro quest‘ultimo segnato da un paio di sviste arbitrali pro-Reds) e Rangers (2-1 in semifinale, con i Gers che poi alzeranno il trofeo).

L’aria di festa che respira a Celtic Park e dintorni per aver “fermato il 10” (riferimento alla serie di titoli consecutivi vinti dagli odiati cugini) non dura però molto; già il 10 maggio, a non più di 24 ore dal titolo vinto sul campo, Jansen gela i tifosi parlando in un’intervista della presenza di una clausola nel proprio contratto che gli permetterebbe di svincolarsi immediatamente dopo un solo anno di contratto senza pagare alcuna penale. Un’uscita che testimonia come le frizioni con la dirigenza siano tutt’altro che scomparse. Due giorni dopo arriva l’annuncio delle proprie dimissioni. E’ già tempo di accuse e recriminazioni. Secondo il presidente McCann “Jansen ha sempre mostrato disinteresse per le nostre proposte di pianificazione della squadra, negandosi al telefono e non mostrando la minima volontà di collaborare. Non ha mai voluto assumersi responsabilità, la colpa era sempre di qualcun altro”
Diverso il punto di vista dell’ex tecnico: “Se io chiedo l’acquisto di un giocatore, e questo viene rifiutato perché in passato c’erano stati alcuni diverbi con lui, è una decisione politica, con la quale non voglio avere nulla a che fare. Io mi baso su valutazioni tecniche, la politica la lascio a chi di dovere. Comunque non si può costruire una squadra di alto livello senza mettere mano al portafoglio”. Conferenze stampa separate, il ringraziamento di rito ai tifosi (alcuni dei quali accolgono allo stadio i dirigenti con l’eloquente cartello “McCann and Brown must go now!”), l’assegnazione del titolo di miglior allenatore scozzese dell’anno, e Jansen se n’è già andato. Vincitore e sconfitto allo stesso tempo.
di Alec Cordolcini, da UKFP (ottobre 2008)

13 gennaio 2025

RECCOMENDED READING. "Monaco 1958"

David Peace, uno dei più grandi scrittori inglesi contemporanei, torna a raccontare di calcio nel suo ultimo libro, Monaco 1958, edito da Il Saggiatore. 
Lo fa scavando nel passato, come già accaduto con Red or Dead sull’allenatore socialista del Liverpool Bill Shankly e Il Maledetto United incentrato sul fumantino Nigel Clough. Questa volta lo spunto è una tragedia che segnò l’immaginario collettivo di un Regno Unito che stava a fatica riprendendosi dalle profonde ferite inferte dalla guerra. 
L’anno e il luogo sono quelli della “Superga inglese”, quando in un 6 febbraio da tregenda dal punto di vista atmosferico sulla pista dell’aeroporto della città bavarese l’aereo che riportava a casa il Manchester United fallì il terzo tentativo di decollo, schiantandosi al suolo. I Red Devils erano reduci da un match di quarti di finale di Coppa dei Campioni, come allora si chiamava la Champions League, contro la Stella Rossa di Belgrado. Quello di Monaco era uno scalo tecnico, trasformatosi in incubo. 
La narrazione di Peace comincia dai minuti successivi all’incidente, dai sopravvissuti che tra macerie e cumuli di neve trovano la strada della salvezza. Il suo stile fatto di ripetizioni insistenti, che avvolgono il lettore, questa volta è più sfumato, quasi che un tale dramma avesse bisogno di un tocco più delicato. Sì, perché fu davvero un dramma. I Busby Babes, i ragazzini terribili dell’allenatore scozzese antesignano del Re Mida Alex Ferguson, furono decimati in quel terribile pomeriggio tedesco. Otto persero la vita, tra loro il capitano Roger Byrne, il centravanti Tommy Taylor e il prodigio Duncan Edwards, un predestinato che secondo molti avrebbe riscritto la storia del calcio. Altri due furono costretti al ritiro, Jackie Blanchflower e Johnny Berry, a causa delle ferite subite, mentre nella conta dei morti (23) ci furono tecnici dello United e numerosi giornalisti.

Il futuro pallone d’oro Bobby Charlton e lo stesso Busby si salvarono, rimanendo però segnati per sempre nell’animo. Soprattutto il grande allenatore, perché si sentiva in colpa per aver catapultato i ragazzi nell’avventura della Coppa dei Campioni, le competizioni europee non erano viste di buon occhio dalla iper-conservatrice federazione inglese, che pochi anni prima aveva dissuaso il Chelsea da prendere parte alla prima edizione del trofeo. Busby aveva invece capito che il palcoscenico continentale era la dimensione perfetta per i Red Devils, che infatti sarebbero divenuti uno dei club più famosi e prestigiosi dell’orbe terracqueo. Per raggiungere il successo, l’allenatore scozzese aveva puntato sui talenti delle giovanili, che in Inghilterra stavano dominando ed erano già pronti per rivaleggiare con il Real Madrid di Di Stefano in Europa.
Ragazzi semplici, eroi della porta accanto, come fa emergere con maestria Peace nelle pagine di Monaco 1958. Nulla di paragonabile con le superstar strapagate dei nostri giorni. E questo “stacco” così netto tra il mondo pallonaro di oggi e quello del passato è un po’ il filo rosso che lega i tre libri sul football dell’autore. Ma la descrizione a tratti straziante delle settimane, dei mesi del post-Monaco, intervallati tra momenti di lutto, con i funerali delle vittime, e di ricostruzione, con i match di quel che rimaneva dello United, ha un ulteriore elemento in comune soprattutto con Red or Dead: il senso di comunità. Una comunità che si stringe attorno ai suoi eroi, i quali sono figli del popolo, figli di minatori, operai, manovali, insomma della working class.

Oltre all’ovvia dimensione intima della tragedia, a emergere con forza è quella collettiva, che per Peace è funzionale per illustrare al meglio il tessuto sociale dell’epoca. Compito che, come già nei suoi altri libri, pensiamo solo a 1984, all’autore riesce in maniera impeccabile.
I “giorni neri” come il lutto, punteggiati dal rosso dalle maglie dello United e dal bianco della neve che in quell’inverno del 1958 sembrava non finire mai, si concludono con il primo tentativo di rinascita: l’insperata finale di coppa d’Inghilterra, allora il match più importante dell’anno, giocata con un’aquila rampante che però sembrava una fenice sul petto. Charlton e compagni persero quella partita, ma chiusero almeno in parte i conti con il destino dieci anni dopo. Quando a Wembley un ragazzo di Belfast, George Best, regalò al suo padre putativo Matt Busby la Coppa dei Campioni.
di Luca Manes

11 gennaio 2025

FIRST Division🇬🇧, il calcio inglese di una volta..

Quando pensi al calcio inglese cosa pensi?, 
Al fascino dei vecchi piccoli stadi, alle pinte nel pub con gli amici, al match programme della partita, alle ends che si muovevano ondeggiando ai goals della propria squadra, il pallone 18 panels rigorosamente bianco, il portiere con la maglia verde ed i pantaloncini come quelli dei compagni, il profumo forte degli hot dog con la cipolla nei dintorni dello stadio oppure l'amarissimo Bovril, per i più "vecchi" i rumorosissimi turnstiles oppure.. i totalisator a lato dei campi di gioco?
atmosfera unica, irripetibile..

Ecco FIRST Division, un punto di riferimento di chi ha vissuto tutto questo e chi lo sogna..

10 gennaio 2025

TOUR. Che gran bella sorpresa il Wellesley Recreation Ground (Great Yarmouth Town FC)


Sono ormai 45 anni (primo approdo 1979) che giro per la Gran Bretagna alla ricerca di stadi, partite, pubs e curiosità che riguardano quelle regioni, distanti dall’Italia ma vicine al mio modo di intendere il calcio e il modo di vivere…

L’estate scorsa ho programmato il mio solito giro per andare a visitare uno stadio che ha una caratteristica unica: la regione è il Norfolk quindi nell’estremo est dell’Inghilterra, la città è Great Yarmouth, ridente cittadina turistica sul mare e lo stadio si chiama “Wellesley Recreation Ground”, la squadra si chiama Great Yarmouth Town e gioca nella “Eastern Counties League Premier Division” nono e decimo livello nella piramide del calcio inglese; bene, cosa contraddistingue questo stadio rispetto a molti altri tanto più conosciuti e importanti? 

È lo stadio di calcio con la tribuna centrale in legno ancora attiva più antica della storia! Costruita nel 1891 questa tribuna giganteggia per la fascia centrale del campo prendendosi tutta l’attenzione di chi come me è entrato per la prima volta in questo complesso sportivo, facendomi rimanere di sasso per l’imponenza e per la longevità di questa struttura che richiede manutenzione regolare essendo per la quasi totalità in legno.

Nello stadio ovviamente c’è ma solo durante le partite il club shop, il bar ecc. e soprattutto esattamente di fronte al grandstand una tribuna a terraces che prima aveva i sedili ma poi i tifosi si sono lamentati e allora via i sedili e tutti in piedi!















Purtroppo a causa di norme ridicole questi stadi stanno sparendo per sempre a favore di strutture anonime e prive di un qualsiasi interesse, per poter vedere queste meraviglie bisogna cercare e qualcosa si trova ancora, lasciando perdere gli sfavillii finti e tristi di una premier league che sta trascinando nello schifo anche le categorie inferiori, ma questi sono altri discorsi che non cancellano la meraviglia che ho visto l’estate scorsa e che se qualcuno fosse per caso in zona ci passi, dal vivo è anche meglio che in foto!
di Alessandro Polenghi

9 gennaio 2025

RECCOMENDED READING. “The Glory Game” & “Boys of '66”

Trovandomi sovente nelle condizioni di ogni accumulatore seriale ho approfittato delle recenti vacanze natalizie per cercare di mettere un po’ di ordine nella mia biblioteca.

Chi mi conosce sa che da oltre 40 anni accumulo ogni sorta di memorabilia relativa al footy degli anni 60 e 70, dai distintivi alle coccarde, dai gagliardetti ai programmi, cartoline di stadi, figurine, riviste, oggettistica varia.
I libri ricoprono una parte importante dei miei “accumuli”, si spazia dagli annuari alle biografie, dalle storie dei club ai testi sugli stadi fino a volumi sulle “firms” (più si tratta di tifoserie “minori” e meglio è..) e proprio dando una sistemata a scaffali e librerie mi sono tornati tra le mani due testi che mi hanno dato notevole soddisfazione, si tratta di “The glory game” di Hunter Davies e “Boys of 66” di John Rowlinson.

Il primo è il risultato di un esperimento socio-sportivo che risulta essere stato unico nel suo genere: per tutta la stagione 1971-72 l’autore ebbe l’autorizzazione a trascorrere l’intero periodo che andava dal precampionato fino al termine dello stesso con il Tottenham Hotspur.
Partecipò agli allenamenti, ai ritiri, fu ammesso negli spogliatoi prima, durante e dopo le partite assistendo ad ogni tipo di confronto tra giocatori e allenatore e tra giocatori stessi, viaggiò con la squadra sia in Inghilterra che all’estero, visitò i giocatori a casa, fu presente alle riunioni tra i dirigenti e lo staff tecnico. Non bisogna essere simpatizzanti o tifosi degli Spurs per essere affascinati dalla lettura, è un testo estremamente coinvolgente, pieno di curiosità e dettagli senza precedenti, soprattutto se si pensa a come oggigiorno siano blindati non solo gli spogliatoi ma anche i campi di allenamento, le sedi dei club, giocatori e allenatori che si muovono su SUV dai vetri oscurati e sotto “protezione” anche solo per avvicinarsi allo stadio.
La cosa che più colpisce è che Davies ottenne il permesso di riportare tutto ciò che vide e sentì nonostante l’iniziale diffidenza di Bill Nicholson, leggendario manager degli Spurs, uomo d’altri tempi che poco tollerava le novità del calcio di quegli anni, in primis i suoi giocatori che si facevano crescere i capelli stagione dopo stagione..
Oltre a ciò Davies viaggiò anche in treno con i fans che si recavano a Coventry in trasferta, testimoniò come i giocatori ricevevano telefonate dopo ogni partita dai giornalisti che proponevano somme di denaro per avere commenti esclusivi o addirittura si presentavano alla porta di casa. Un’accurata descrizione dello stile di vita dei protagonisti ci regala uno spaccato sociale di quegli anni, scoprendo così in che case abitavano, che programmi televisivi seguivano, che auto guidavano, che ambizioni avevano.
Da trovare e da leggere tutto d’un fiato, la prima edizione del 1972 ha costi più elevati ma ne sono state pubblicate diverse riedizioni alla portata di tutti.


Il secondo volume era stato per me una piacevolissima sorpresa dato che ritenevo di avere letto, visto, collezionato quasi tutto ciò che si riferisce al mondiale del 66 ed ai loro protagonisti.
Uscito nel 2016 in occasione del cinquantesimo anniversario del trionfo mondiale è stato curato da John Rowlinson, una laurea in storia a Cambridge e successivamente una lunga carriera alla BBC.
Quando lo comprai scontato in un “W.H. Smith” di Liverpool lo feci soprattutto perché veniva esaltato il fatto che le oltre cento fotografie presenti erano totalmente inedite, frutto di un ritrovamento negli archivi del Daily Mirror.
In effetti la parte illustrata è sensazionale e nonostante il mio scetticismo ho dovuto riconoscere che non avevo mai visto prima le immagini presenti, tranne tre.
Già questo bastava ma la lettura successiva mi diede una soddisfazione immensa perché un approfondimento così dettagliato del percorso intrapreso da Ramsey per arrivare ai ventidue selezionati per la fase finale della Coppa del Mondo del 1966 era a dir poco eccezionale.
Forse solo il molto acclamato e stupendo “Back Home”, che sviscera la spedizione messicana dei Campioni del mondo in carica per il mondiale del 1970, può rivaleggiare con questo volume.
Nei tre anni e mezzo precedenti all’inizio del mondiale Ramsey arrivò a pre-selezionare cinquanta calciatori, alcuni verranno convocati praticamente sempre, altri scartati solo pochi giorni prima del via, altri ancora verranno presi, dimenticati e poi ripresi.
Anche il profilo dei futuri Campioni del mondo sono curati con ricchezza di curiosità e aneddoti, in poche parole…tutti sanno come è andata a finire ma chi, veramente, sa come tutto iniziò?
di Gianluca Ottone

8 gennaio 2025

TOP Lads. Daniele Ramonte (The Arsenal and The Cure..)



Ciao! Mi chiamo Daniele e tifo Arsenal... till I die!
Mi sono appassionato all’Arsenal quando nel 1992 andai a vivere a Londra. Finita la scuola, con la scusa di imparare l’inglese comunicai ai miei genitori la mia intenzione, ma in realtà volevo seguire da vicino il mio gruppo musicale preferito dell’epoca.. e di oggi, The Cure.

Sapevo dell’uscita del nuovo album previsto per i primi mesi dell’anno cosi a gennaio comprai il mio one-way ticket, and off I was! Appena ventenne mi trovavo a scoprire, esplorare i vari quartieri di Londra e fu quando mi trasferii a Liberia Road, a pochi passi da Highbury park che si accese in me la passione per i Gunners.

Accanto alla uscita della fermata Highbury & Islington (Victoria Line) c’era un locale chiamato "Town & Country 2" dove alcuni mesi prima i Cure suonarono una gig semisegreta proponendo in anteprima le canzoni del loro futuro album Wish. Avevo capito mi trovavo nel posto giusto.


Il quartiere mi piacque molto fin da subito, autentico, multiculturale, rockettaro, confinava con Camden Town dove avevo vissuto mesi prima e dove trascorrevo le serate con gli amici nei pub e vedere concerti. Proprio in club come il Camden Palace o Electric Ballroom conobbi i primi Gooners che il sabato pomeriggio sfoggiavano la loro sciarpa biancorossa a contrasto con i loro look total black.

A quel punto la mia curiosità di entrare ad Highbury si trasformava in voglia ma non era così semplice. Quell’anno, infatti, la North Bank era in ristrutturazione ed era davvero difficile trovare i biglietti per andare alla partita, così mi godevo l’atmosfera fuori lo stadio per le vie del quartiere con gli odori, le voci ed i volti i dei suoi abitanti. All’angolo di Avenell Road trovavi il tipo con i match programme, non lontano c’era il banchetto con le pins storiche della squadra e poi quegli hamburger con quella cipolla "spuzzolosa" ma squisita appena fuori la tube station "Arsenal."
A fine stagione, i Gunners vincono la Coppa di Lega (1993) e ricordo la mattina dopo davanti casa trovammo una latta di vernice rossa.. le strade di Highbury andavano colorate a festa con i colori del club locale!
La stagione successiva, grazie anche ai miei amici rockettari riuscii finalmente a varcare la soglia dell’Home Of Football. Emozione incredibile! Ricordo la spinta che diedi per far girare il tornello, la corsetta su per la rampa di scale e poi quel rettangolo verde acceso che assieme alle maglie bianco rosse dei giocatori, provocava un effetto visivo davvero fascinoso!

La stagione del 1992/93 segnava anche l’avvento della Premier League e seguivo le partite quando possibile e mi tenevo aggiornato con i mezzi di comunicazione dell’epoca. Fu solo anni dopo, quando tornai in Italia, che lessi il libro di Nick Hornby, Fever Pitch e vidi il film… Come un flash, fu come ritrovarmi in qualche cosa che avevo già vissuto senza saperlo, avvertivo quel senso di appartenenza, le gioie e le sofferenze ma anche la voglia di essere là a sostenere il Club no matter what!

Ricordo, con un ghigno, mi sono detto “hai ragione Paul, non supereremo mai questa fase”!

7 gennaio 2025

LE GRANDI EMOZIONI DEL CALCIO INGLESE - Season 1995/96



Nell’estate del 1995 il Manchester United, reduce dal secondo posto dietro al Blackburn Rovers nella stagione appena conclusa, cede Kanchelskis, Ince e Hughes riponendo tutte le speranze di successo sui giovani emergenti della rosa, ovvero i vari Butt, Scholes, Beckham ed i fratelli Gary e Phil Neville.  Un tentativo di ripercorrere le gesta del grande United dei Busby Babes?

L’inizio di stagione conferma le difficoltà di una squadra giovane che viene travolta già alla prima giornata a Birmingham (1-3) contro i Villans. Nel frattempo sulle sponde del Tyne a suon di milioni Sterline si costruisce una squadra che sorretta dall’estro di Ginola e dai goals di Ferdinand, fa dello spettacolo una prerogativa. L’inizio dei bianconeri guidati da Kevin Keegan è travolgente e la testa della classifica viene raggiunta e mantenuta sin dall’inizio. Eric Cantona dopo la lunga squalifica inflittagli per l’aggressione al tifoso del Crystal Palace, rientra in campo andando a segno ad ottobre nel match casalingo contro il Liverpool.

Il ritorno del campione d’oltralpe è preceduto da un’attesa spasmodica. Il suo rientro in campo è salutato da migliaia di bandiere raffiguranti la sua immagine che colorano gli spalti di un’Old Trafford che sta assumendo, attraverso lavori di ristrutturazione, l’aspetto magico del “Theatre of Dream” odierno. Il rientro del francese si rivelerà quanto mai indispensabile e determinante. Eric The King al termine della stagione realizzerà ben 15 goals rivelandosi decisivo per lo United, nella corsa al titolo.

Alcuni dei suoi goals, in quella stagione, sono autentici gioielli e vengono tuttora proposti negli spot di Sky Tv. Il Newcastle di King Kevin Keegan continua la sua marcia travolgente, a gennaio il distacco dal Manchester United e dal Liverpool inseguitori è addirittura di 12 punti. Tutto sembra deciso e la Toon Army dopo anni di amarezze pregusta il glorioso successo. A rinforzare l’attacco, in cui sembra appannarsi la verve realizzativa di Ferdinand, a gennaio arriva addirittura il colombiano Faustino Asprilla. 
A febbraio il calcio inglese piange la scomparsa di Bob Paisley indimenticabile manager del Liverpool. Qualcosa si inceppa sul meccanismo dei Magpies ed arrivano le prime sconfitte che lasciano il segno. Lo United sorretto da uno strepitoso Cantona persegue una entusiasmante rimonta che culmina nel match di St James Park vinto proprio grazie ad uno spettacolare goal del francese. Inizia un’emozionante testa a testa per la conquista del titolo. Il mese di Aprile vede celebrarsi una pagina indimenticabile per calcio inglese; ad Anfield Road, Liverpool e Newcastle danno vita ad una gara altamente spettacolare caratterizzata da continui ribaltamenti del risultato, che alla fine vede vincere il Liverpool per 4-3.



















È un altro colpo duro per i Magpies. Keegan al termine del match affermerà che nonostante la pesante sconfitta (inciderà in maniera determinante sul morale dei giocatori) è orgoglioso di aver vissuto questa serata di calcio. Fair Play tipicamente britannico. 
La tensione tra i due club raggiunge livelli di guardia quando Alex Ferguson critica pesantemente l’atteggiamento del Leeds United colpevole secondo lo scozzese di essersi battuto a morte per fermare la propria squadra, ed insinua che non sarebbe accaduta la stessa cosa quando il Leeds avrebbe affrontato il Newcastle. Keegan replica pesantemente allo scozzese in occasione di una intervista che resterà famosa quanto lo sfogo del Trap in terra Bavarese. Sia Red Devils che Magpies batteranno il Leeds. 

Nonostante le aspre polemiche è il campo a confermare che la squadra del nord d’Inghilterra non ha più birra in corpo. Comunque come vuole la storia del calcio inglese, i recuperi di fine stagione offrono agli inseguitori chance di aggancio e talvolta di sorpasso.
La possibilità dell’aggancio in testa alla classifica da parte del Newcastle viene gettato alle ortiche al City Ground di Nottingham dove viene giocata la penultima gara della stagione dei Magpies. Vincendo raggiungerebbero la testa della classifica in coabitazione con il Manchester United ad una sola giornata dalla fine. In vantaggio di un goal, i bianconeri permettono a Woan, centrocampista del Nottingham Forest di percorre indisturbato tre quarti del campo e pareggiare il match. È questo il momento in cui il Newcastle, dopo aver tenuto la testa del campionato per tre quarti di stagione, ed aver contenuto nella restante parte il distacco dallo United, abdica. 
All’ultima giornata con due punti in meno in classifica la squadra non và oltre ad un deludente pareggio interno contro gli Spurs mentre in contemporanea al Riverside Stadium lo United spadroneggia sul Boro, vince tre a zero e si riappropria del titolo di campione d’Inghilterra. 
Al Maine Road oltre che assistere all’ennesimo trionfo dei rivali cittadini, piangono la retrocessione della loro squadra, che inizierà una caduta verticale nelle serie inferiori. Retrocede assieme al Bolton anche il Qpr.
di Michele Vello da "UK Football please"

6 gennaio 2025

"MIND THE PUB. Il giro di Londra in 80 pub" di Fabrizio Vincenti (Eclettica) 2024

La prima guida ragionata, in italiano, dei pub di Londra: 80 locali, uno più caratteristico dell'altro, ognuno a pochi passi da 80 fermate della Metro sparse per tutta la città. Completano la guida 80 angoli meno noti della capitale britannica, ma non per questo meno ricchi di fascino e di interesse, che potrete scoprire prima o dopo la sosta ai pub.

3 gennaio 2025

DIMMI CHE "PIE" MANGI E TI DIRÒ CHI SEI..






















Il tradizionale “pie” britannico e il calcio d’oltremanica condividono una lunga storia insieme. Rappresentano due elementi molto amati nel Regno Unito. Non troviamo tale combinazione in altre zone d’Europa, in città tipo Barcellona o Milano ad esempio, perché il clima è molto più severo ed è lui il principale motivo per cui cibo e football vanno di pari passo. 
Cosa può esserci di più anglosassone di un tortino caldo accompagnato da un “Bovril” (estratto di carne popolarissimo da quelle parti) o da un the fumante, per riscaldarsi durante una fredda partita invernale? Nessuno sa quando è stato consumato il primo tortino durante una partita di calcio, ma sembra che ci siano ben oltre cento anni di storia alle spalle.. 
Chi siamo noi per discutere con la tradizione?! Il celebre coro che intona "Chi ha mangiato tutte le torte?” si ascolta spesso durante i match e alcuni lo attribuiscono ai tifosi dello Sheffield United, che inneggiavano al loro rotondo e pesantissimo portiere, William "Fatty" Foulke. La litania è stata spesso accostata pure all'attaccante degli anni '80/'90 Micky Quinn, (soprannominato “Sumo”, per il suo peso eccessivo) a causa di un fatto occorsogli nel 1992, quando un tifoso gli lanciò una torta in campo e lui la divorò letteralmente..

Nella stagione calcistica 2008/09, un curioso tizio dal nome Tom Dickinson, viaggiò ln lungo e in largo il Regno Unito per mangiare un “pie” in ogni stadio del “Club ‘92”, ovvero in ognuno dei 92 impianti in cui si esibiscono le formazioni professionistiche inglesi. Dalla sua esperienza, nel 2011 è uscito un insolito libro intitolato, appunto, “92 pies”. Il sito web specializzato in questo campo, www.pierate.co.uk ha stilato una buffa lista delle prelibatezze più amate dai supporters. 

Non sorprende trovare il Morecambe FC attualmente in cima alla graduatoria dei “pie” fatti in casa, vista la consolidata prelibatezza del prodotto. La scelta è accuratissima, dato che la maggior parte degli impianti sportivi distribuisce cibo commerciale in serie, come “Shire”, “Pukka”, “Peters”, ecc.. E nella classifica vengono privilegiati soprattutto “pie” artigianali. Si può sostenere che il “pasticcio di carne” è la Gran Bretagna in un piatto. Può apparire alquanto elementare, senza pretese, ma dietro nasconde una storia molto più ricca di quanto sembri. La portata di cui dibattiamo è in circolazione sin dagli antichi egizi, ma l’idea di racchiudere un ripieno all’interno di una di un impasto realizzato con farina e olio, in realtà ebbe origine nell’antica Roma. La prima ricetta pubblicata prevedeva un “pappone” di segale ripieno di formaggio e di miele di capra, un modello sorprendentemente delizioso per l’antica cucina italiana. Tuttavia, il “pie” per cui ci lecchiamo i baffi oggi, affonda realmente le sue profonde radici nel Nord Europa. In passato l’olio d’oliva era scarsissimo nel territorio. Invece burro e strutto erano i componenti prediletti dai climi più rigidi e freddi a Nord del Mediterraneo. L’uso dei grassi solidi ha quindi determinato un “pastone” arrotolabile e modellabile, fino a conseguire tale prodotto. La ricetta base atta a realizzare il nostro “meat pie” è la seguente:

Preparare il ripieno:
usiamo guance di manzo e macinato di carne, cotte con vino, cipolla, aglio, timo, rosmarino, funghi e sedano a fuoco lento, fino a quando risulteranno teneri. Refrigerare il ripieno durante la notte per raffreddarlo e addensarlo.

Preparare la base di pasta frolla:
uniamo farina, burro e sale per poi frullare fino a formare un impasto. Refrigerare durante la notte.

Assemblare il pie:
rivestiamo la tortiera con la pasta frolla, premendo adeguatamente sui lati. Riempiamo col ripieno freddo. Spennelliamo il bordo della pasta con l’uovo, formiamo un coperchio con la pasta sfoglia e foriamola al centro, favoriremo così la fuoriuscita del vapore.
Infine cuociamo fino a quando il “pie” assume un colorito dorato, la pasta è cotta e il ripieno è bollente.

La pietanza ottenuta, neanche a dirlo, è abbinabile anche a molte birre britanniche, che variano specialmente per il tipo di ingredienti utilizzati nel tortino stesso. Per il classico “pie” a base di carne viene indicata la consueta “british pale ale”. La scelta migliore è rappresentata però da una birra ambrata e dolce nel contempo.
di Vincenzo Felici

2 gennaio 2025

BOB PAISLEY OBE - Men in Red


























"This is the second time I've beaten the Germans here... the first time was in 1944. I drove into Rome on a tank when the city was liberated."

A Roma la finale di Coppa dei Campioni era finita da qualche minuto con la sonante vittoria del Liverpool sul Borussia Mönchengladbach ed il manager che per primo era riuscito a portare il titolo europeo ad Anfield Road commentava cosi’ il proprio trionfo.
Sebbene Bob Paisley sia entrato nella storia del calcio da manager, la sua carriera di calciatore è stata tutt’altro che banale, seppure privata di sette dei migliori anni a causa della seconda guerra mondiale.
Bob Paisley nacque a Hetton-le-Hole, nella contea di Durham, il 23 Gennaio 1919. Il padre era un minatore: un primo segno del destino che lo avrebbe voluto a fianco di Shankly e poi al suo posto quaranta anni dopo. Il piccolo Bob si fece presto notare per le sue qualità nelle squadre scolastiche, prima a Barrington e poi alla Eppleton Senior Mixed, scuola a quell’epoca all’avanguardia per quanto riguardava le tecniche di allenamento dei propri giocatori di calcio.
Paisley fu ingaggiato dagli amatori del Bishop Auckland all’inizio della stagione 1937-38 e, nella stagione successiva, fu tra i vincitori del treble (titolo della Northern League, Amateur Cup e Durham Challenge Cup). Le performance di Paisley da terzino sinistro stuzzicarono appetiti ben più altolocati: l’8 Maggio 1939 arrivò la firma per il Liverpool, club all’interno del quale rimase per i successivi quarantaquattro anni.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel settembre dello stesso anno troncò bruscamente l’ascesa di Bob, il quale ricevette la chiamata alle armi ad ottobre. Paisley combattè prima in Egitto agli ordini del Generale Montgomery, per poi risalire, attraverso il Nord Africa, alla Sicilia. Nel giugno del 1944 attraversò Roma a bordo di un carro armato dopo che gli Alleati avevano liberato la città dal nazi-fascismo, anticipando di 33 anni, come abbiamo visto, un altro trionfo sui tedeschi.

La normale attività calcistica riprese nell’estate del 1946 e fu il Liverpool ad aggiudicarsi il primo campionato del dopoguerra. Peraltro questo trionfo segnò l’inizio di un lungo periodo di declino per i Reds, interrotto solo dalla partecipazione alla finale della FA Cup nel 1950, vinta dall’Arsenal. In quel frangente un imbufalito Paisley, escluso dalla formazione dopo aver segnato un goal decisivo nella semifinale contro l’Everton, arrivò ad un passo dall’addio al club di Anfield. Alla fine egli venne a patti con il proprio disappunto e restò, divenendo anche capitano e disputando 41 partite su 42 nella stagione successiva. La fascia al braccio costituiva una grossa responsabilità, che Paisley onorò fino in fondo, facendo tesoro di un’esperienza che si rivelò molto utile nel corso della futura carriera da manager
Al termine della stagione 1953/54, l’ultima da giocatore per Paisley, il Liverpool retrocesse in seconda divisione. Bob, desideroso di rimanere nell’ambiente, si iscrisse ad un corso di fisioterapia per corrispondenza. Nonostante ciò, fu vicinissimo ad abbandonare il mondo del calcio per aprire un’attività commerciale (nel settore ortofrutticolo). Fortunatamente il Liverpool gli offrì un posto nello staff tecnico, evitando che il manager più titolato nella storia del calcio inglese finisse a vendere verze. Paisley iniziò con entusiasmo ad occuparsi della fisioterapia e poi, come coach, della squadra riserve, accumulando un’inestimabile esperienza a fianco del ciclone piombato su Anfield nel dicembre 1959, Bill Shankly.

Nell’estate del 1974 il manager scozzese annunciò a sorpresa il suo ritiro dall’attività, spianando la strada all’ormai ex-assistente. Quest’ultimo in un primo momento non era molto propenso ad accettare l’incarico: si vedeva più come fisioterapista che come manager; la prospettiva di dover prendere il posto di una vera e propria leggenda vivente come Shankly lo rendeva ancora più dubbioso. La lealtà verso il club ebbe ancora una volta il sopravvento: Paisley accettò ed in seguito ebbe modo di rendersi conto, nel corso di 9 anni di successi ineguagliati, di quanto fossero infondati i dubbi suoi e di molta altra gente.
All’inizio le cose andarono abbastanza bene: grazie ad un buon inizio di campionato il Liverpool passò qualche settimana in testa alla classifica. A novembre però qualche risultato negativo diede il via ad una serie di critiche negative da parte degli organi di stampa. Sicuramente Paisley non aveva il carattere più adatto a fronteggiare situazioni di questo tipo: se Shankly si trovava perfettamente a suo agio sotto i riflettori, il suo successore li detestava, cercando in ogni modo di restarne lontano. Guardare Paisley di fronte ad una telecamera era un’esperienza a volte imbarazzante: sembrava di assistere ad un litigio tra coniugi, con il manager nella parte del marito bastonato!

Come lo stesso Paisley ebbe a dire, la prima stagione fu un insuccesso: il Liverpool arrivò secondo! In ogni caso, le fondamenta per i successi che sarebbero arrivati di lì a qualche anno erano state poste. La più grande abilità del manager in quel periodo fu di scovare prima e far crescere poi i propri ragazzi: giocatori normali diventarono buoni giocatori e i buoni giocatori diventarono grandi giocatori. Phil Neal, fino ad allora sconosciuto, diventò una colonna della difesa; Terry McDermott, mediocre centrocampista al Newcastle, dopo un avvio stentato si rivelò un vero campione; Jimmy Case addirittura venne acquistato per sole diecimila sterline dal South Liverpool! E’ lampante quanto fosse lungo l’occhio di Paisley e dei suoi osservatori. Ray Kennedy, acquistato da Shankly il giorno prima delle dimissioni, giocò una prima stagione ad Anfield da attaccante in modo men che mediocre. Paisley vide in lui quanto nessuno era ancora riuscito nemmeno a scorgere: le stimmate di una grande mezz’ala sinistra. Del resto, come ebbe a dire lo stesso manager, “il piede sinistro di Big Razor avrebbe potuto aprire una scatola di fagioli”
Lo stesso occhio lungo si manifestò con David Failclough, cui Paisley ritagliò un ruolo da sostituto ideale, non considerandolo abbastanza forte per reggere ad alti livelli un intero match, ma letteralmente letale nei finali di partita. David, nativo di Liverpool e tifoso Red da sempre, passò alla storia come il “Super Sub” per antonomasia. Il suo momento di maggior gloria fu un quarto di finale di Coppa dei Campioni, nel 1977 contro il Saint Etienne, quando un suo goal a pochi minuti dalla fine qualificò il Liverpool per le semifinali e lo lanciò verso il primo storico trionfo nella European Cup.

La squadra di Paisley stava prendendo forma, fondendo il nucleo di giocatori ereditato da Shankly (Clemence, Neal, Thompson, Hughes, Keegan, Heighway, Toshack, Callaghan) con i nuovi acquisti, in una squadra eccezionale.
Già al secondo anno il manager portò ad Anfield un Silverware di Campione d’Inghilterra ed una Coppa UEFA: non male per chi si considerava solo un buon fisioterapista! Anche dal punto di vista tattico egli dimostrò un grande acume; inoltre, seppur apparentemente morbido di carattere, riuscì sempre a farsi rispettare dai propri giocatori esigendo disciplina da chiunque, da Keegan all’ultima delle riserve.
La Coppa UEFA arrivò dopo due sfide indimenticabili contro il Bruges. Nell’andata ad Anfield una prestazione disastrosa di Neal portò i belgi sul 2-0, punteggio che il Liverpool riuscì a ribaltare vincendo per 3-2. Contro tutto e tutti Paisley schierò Neal anche al ritorno: il difensore lo ripagò con una partita perfetta, contribuendo in larga parte a mantenere fino in fondo l’1-1 che spedì il trofeo sulle rive del Mersey.

La stagione successiva vide il Liverpool confermarsi Campione d’Inghilterra con maggiore facilità rispetto alla stagione precendente. I Reds raggiunsero anche la finale della FA Cup, dove furono sconfitti dal Manchester United. Molti tifosi scouse al termine della partita raggiunsero l’aeroporto di Heathrow, dove si imbarcarono per Roma, teatro quattro giorni dopo della finale della Coppa dei Campioni, che opponeva il Liverpool al Borussia Mönchengladbach, nella rivincita della finale UEFA del 1973. La scarsa forma dimostrata da David Johnson (acquistato l’estate precedente dall’Ipswich Town) nella finale di Wembley spalancò le porte della finale a Ian Callaghan, unico superstite degli anni bui della seconda divisione. La sostituzione di un attaccante con un centrocampista si rivelò mossa alquanto azzeccata: McDermott e Smith portarono i Reds sul 2-1, dopo il provvisorio pareggio di Simonsen. A completare l’opera pensò Kevin Keegan: ormai prossimo all’addio direzione Amburgo, King Kenny si dimostrò fuoriclasse assoluto giocando la sua migliore (e purtroppo ultima) partita in maglia rossa proprio nell’occasione più importante. I suoi dribbling fecero letteralmente impazzire Berti Vogts, il quale, ormai esasperato, a una decina di minuti dalla fine non trovò di meglio che stenderlo in piena area di rigore. Dal dischetto Neal scrisse la parola “fine” alla partita. Paisley non bevve un solo sorso d’alcool quella sera, per non rischiare di conservare un ricordo annebbiato del giorno più bello della sua carriera. Lo stesso non si può dire della marea rossa che aveva invaso Roma, così come degli stessi giocatori!

“Chi prenderà il posto di Keegan?” Questa era la domanda che turbava il sonno ad ogni tifoso del Liverpool nell’estate del 1977. Probabilmente nessuno, pensavano in molti, tantomeno il sostituto acquistato da Paisley: quel Kenny Dalglish che aveva sì segnato molto per il Celtic Glasgow, ma che sicuramente era stato sopravvalutato, essendo stato pagato la bellezza di 440.000 sterline, cifra record per il calcio inglese.
Ancora una volta la storia diede ragione al manager: il biondo scozzese si rivelò il più grande giocatore di sempre ad aver portato il Liver Bird sul petto. Secondo molti fu addirittura il miglior giocatore britannico in assoluto.
Lo shopping in Scozia continuò con Alan Hansen e, qualche mese dopo, con Graeme Souness. A differenza di molti altri nuovi arrivi, Souness non impiegò molto tempo per diventare uno degli idoli della Kop. Un suo goal realizzato ad Anfield contro il Manchester United con uno splendido tiro al volo lo fece entrare subitaneamente nel cuore della tifoseria, oltre a fargli vincere il premio “BBC Goal of the Season”. Altra grande intuizione di Paisley, Souness sapeva calciare la palla con potenza inaudita, ma sapeva pure trattarla con estrema precisione tecnica. L’esito dei suoi tackle era del tutto prevedibile: ne usciva sempre vincitore, portanto con sè il pallone e a volte anche l’avversario!

La prima stagione del dopo-Keegan non regalò al Liverpool grandi soddisfazioni domestiche, ma si concluse con la seconda finale consecutiva di Coppa dei Campioni. I Reds avrebbero dovuto difendere il titolo europeo contro il ben conosciuto Bruges, sul magico terreno di Wembley. La finale fu un trionfo per l’anima scozzese della squadra: Alan Hansen, a sorpresa schierato da Paisley a centrocampo al posto dell’infortunato Tommy Smith, giganteggiò a centrocampo riducendo praticamente a zero i pericoli per la propria difesa. Souness illuminò la scena da par suo, concedendo tra l’altro un pallone con la scritta “Please score” a Kenny Dalsglish il quale, da bravo ragazzo quale era, non poté fare altro che obbedire, riportando la Coppa dei Campioni nella bacheca di Anfield dopo un’assenza durata solo qualche ora.
La stagione successiva vide sulla scena quello che secondo molti fu il miglior Liverpool di sempre: vittoria in campionato con 68 punti, 85 gol segnati e solo 16 subiti; in compenso, nessuna coppa. Paisley confermò Hansen a centrocampo e, tanto per non perdere l’abitudine, ebbe ragione al 100%: lo scozzese sembrò trovare la collocazione ideale per ripercorrere le gesta di un famoso connazionale che giocava nello stesso ruolo: Ron Yeats. La stagione 1978/79 fu l’ultima per Emylin Hughes, capitano e alter ego del manager sul campo, nonchè la prima per un terzino sinistro che avrebbe segnato due i tra più importanti goal della storia del Liverpool, Alan Kennedy.

Il 1979/80 vide un’altra vittoria in campionato: da segnalare che la formazione tipo non cambiò praticamente mai. Clemence, Neal, Alan Kennedy, Thompson, Ray Kennedy, Hansen, Dalglish, Case, Johnson, McDermott e Souness saltarono, in totale, solo 28 partite!
L’estate del 1980 vide l’arrivo dal Chester di un giovane spilungone gallese di nome Ian Rush. Come sempre, Paisley diede ad alcuni giovani giocatori la loro chance: oltre a Rush, da segnalare Sammy Lee che, dopo tre campionati in cui aveva giocato pochissime partite, divenne titolare fisso, e Ronnie Whelan, che esordì (segnando) niente di meno che all’Olympiastadion di Monaco di Baviera contro il Bayern nella semifinale di ritorno di Coppa dei Campioni, partita che garantì al Liverpool la terza finale in 5 anni. Teatro della sfida il Parco dei Principi di Parigi, avversario il grande Real Madrid, seppure in una versione tra le più scarse tra i team merengue arrivati in finale di Coppa dei Campioni.
Dopo 80 minuti di gioco dal livello largamente inferiore alle attese, una percussione di Alan Kennedy dalla sinistra, conclusa con un tiro al fulmicotone sul secondo palo, aprì la strada al trionfo finale, mandando in visibilio la marea rossa che aveva invaso Parigi. 
Nonostante la vittoria parigina, l’estate del 1981 non fu piacevole dalle parti di Anfield Road; se ne andarono infatti due colonne della squadra, Ray Clemence e Jimmy Case. Il secondo fu sostituito da Craig Johnston, mentre il posto di portiere venne preso da uno sconosciuto ex guerrigliero originario dello Zimbabwe, Bruce Grobbelaar. Egli rappresentò probabilmente la scommessa più ardita di Paisley, il quale credeva nelle sue qualità a tal punto da confermarlo, contro il volere di tutti, anche dopo una partita da incubo persa in casa contro il Manchester City nel giorno di Santo Stefano, durante la quale Grobbelaar offrì tutto il peggio del suo repertorio. Una volta ancora, la storia diede ragione al manager: a Roma, sponda giallorossa, possono ampiamente confermare. Paisley attuò inoltre una mossa psicologica del tutto inedita: a metà stagione la fascia di capitano passò da un Phil Thomson inizialmente molto turbato a Graeme Souness. Con lo scozzese al comando della squadra, le scintillanti prestazioni di Rush e Whelan e un Grobbelaar finalmente sugli scudi, le cose iniziarono a girare a meraviglia. A fine stagione i Reds si aggiudicarono il titolo di campione d’Inghilterra (con 4 punti di vantaggio sull’Ipswich Town), oltre alla prima Coppa di Lega della loro storia (battendo a Wembley il West Ham)

L’anno successivo arrivò la seconda Coppa di Lega consecutiva. Questa volta l’avversario era il Tottenham. Un goal di Archibald nei primi minuti sembrava dovesse rivelarsi decisivo in favore degli Spurs, ma a tre minuti dal termine Ronny Whelan riuscì a pareggiare i conti. Al termine dei tempi regolamentari Paisley, con una mossa psicologica degna del miglior Shankly, ordinò ai propri giocatori di rimanere in piedi sul prato nell’attesa dell’inizio dei supplementari, senza sedersi o sdraiarsi, nè tantomeno farsi massaggiare. Per i giocatori del Tottenham, prostrati fisicamente e distrutti psicologicamente dal pareggio in extremis, fu la mazzata decisiva. Il secondo goal di Whelan e il timbro del solito Rush certificarono per i Reds l’ormai inevitabile vittoria. Il campionato si concluse ancora una volta con il Liverpool Campione d’Inghilterra. Nelle ultime 25 partite i Reds ottennero 20 vittorie, tre pareggi e due sconfitte. Per la seconda volta in poche settimane fu una vittoria per 3-1 contro il Tottenham a consegnare un trofeo agli uomini di Paisley.


Nell’agosto del 1983 il manager annunciò che la stagione che andava a cominciare sarebbe stata per lui l’ultima alla guida della squadra. Avendo già vinto tutto quello che c’era da vincere, Paisley desiderava uscire di scena prima di iniziare l’inevitabile declino. Oltre alla ormai consueta conquista del Silverware di Campione d’Inghilterra, Bob diede l’assalto alla terza vittoria consecutiva in Coppa di Lega, impresa fino ad allora mai riuscita ad alcuna squadra, nè ad alcun manager. A Wembley questa volta l’avversario era il Manchester United: sotto per 1-0 a un quarto d’ora dalla fine, Paisley usò la sua arma segreta, mettendo in campo l’uomo dei goal importanti: Alan Kennedy. Barney Rubble non mancò al suo nuovo appuntamento con la storia e realizzò il goal del pareggio. I tempi supplementari rappresentarono un déjà vu molto piacevole: Ronnie Whelan segnò e riportò la Milk Cup sulle rive del Mersey.

Con un gesto di grande sensibilità Capitan Souness lasciò che fosse Bob Paisley a guidare la squadra lungo i 39 gradini di Wembley e per la prima volta nella storia del calcio inglese non fu il capitano della squadra vincitrice ma il suo manager ad alzare il trofeo. In 44 anni al servizio del Liverpool Paisley ricoprì tutti i ruoli: giocatore, fisioterapista, allenatore, consigliere, motivatore, esempio di lealtà, grande psicologo e motivatore, magistrale gestore del gruppo, tattico geniale, ancor più geniale talent scout. Al di là di tutto ciò, manager ineguagliato e probabilmente ineguagliato: con sei premi di “Manager of the Year”, sei Silverware di Campione d‘Inghilterra, tre Coppe di Lega, una Coppa UEFA e tre Coppe dei Campioni Bob Paisley è tutt’ora il manager più titolato nella storia del calcio inglese ed uno dei più titolati nel mondo. Egli fu inoltre insignito del titolo di Officer of the Order of the British Empire (OBE)
Negli anni a venire egli continuò a servire il club come dirigente. Nel 1992 gli fu diagnosticato il Morbo di Alzheimer. Paisley morì il 14 febbraio 1996, all’età di 77 anni. Qualche tempo dopo il Liverpool F.C. decise di onorarne la memoria erigendo, presso uno degli ingressi della Kop, il Paisley Gate, onore già riservato a Bill Shankly. Nel 2002 entrò a far parte della English Football Hall of Fame.
BOB PAISLEY R.I.P.
di Davide Pezzetti, da "UK Football please"
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